Creato da akaiah il 01/10/2011

Fadahel

... I'm a little writer in a reality of dead dreams ...

 

1. Tradito.

Post n°13 pubblicato il 13 Gennaio 2012 da akaiah

[Perdonatemi la volgarità di alcune espressioni, erano necessarie per rappresentare in verosimiglianza ciò di cui parla questa storia e i personaggi che vi si trovano.]

Il locale era molto affollato. Adolescenti di tutte le sorti stavano seduti ai tavoli o sui divani, completamente fatti, giocavano a poker, o ballavano sulla pista dove la musica risuonava violenta da due enormi casse nere. Il proprietario stava spaparanzato su una sedia vicino al bancone, ubriaco fradicio. La luce era soffusa all’entrata, fino al buio illuminato da grandi palle colorate nell’area della discoteca.
Leo storse il naso. Odiava quel posto. Un odore acre misto tra fumo, alcol e sudore impregnava l’aria. Gli veniva da vomitare.
Cosa cazzo ci fa Jessica qui?
Si chiese, stizzito. Era stata lei a chiamarlo, dicendogli che doveva parlargli e chiedendogli se poteva andarla a prendere lì.
Ora Leo la stava cercando in mezzo a quella moltitudine di corpi, sicuro che non l’avrebbe trovata facilmente. Gli si avvicinò un ragazzo alto, robusto e calvo, con gli occhi cerchiati e un rossore caldo che gli accendeva le guance, con un pacchetto di sigarette in mano.
- Ehi amico, vuoi una cicca? – la voce era strascicata, e aveva un’aria strafottente.
Leo lo squadrò da capo a piedi, prima di rispondere con un secco – No – e voltarsi per cercare da un'altra parte.Leo aguzzò la vista, cercando la sua ragazza.
Ne buio era impossibile trovarla, quindi preferì sperare non fosse tra le tipe più nude che vestite che ballavano sensuali al centro della pista.
Si mosse verso il bancone, dove due ragazzi erano avvinghiati in modo quasi alieno. Il maschio, emo, senza maglietta, stringeva a sé la schiena della ragazza, percorrendogli lentamente le natiche con le mani vogliose. Lei aveva le braccia incollate al collo del ragazzo e il corpo appiccicato al suo, le gambe aperte sul suo ginocchio. Si stavano baciando con passione, più che altro sembrava si stessero mangiando le labbra. Lei indossava una mini troppo mini, tacchi da minimo 15 centimetri (Leo non se ne intendeva, ma ad occhio e croce…), e una maglietta senza maniche scollatissima e attillatissima. Il capelli biondo rossicci, corti…
Leo chiuse gli occhi.
Fece un espiro profondo.
Li riaprì.
Quella che il ragazzo si stava facendo…
…era Jessica!!
Leo sentì una stilettata all’altezza del cuore, come se un pugnale l’avesse trafitto da parte a parte. Ma resistette. Chiuse le emozioni in un cantuccio nel cuore, cercando di sigillare per bene la porta di entrata, e rimase immobile a circa due metri di distanza dai due.
Come se avesse avvertito la presenza del suo ragazzo, Jessica si staccò dalle labbra dell’emo, producendo un disgustoso rumore di risucchio, e si voltò. Avvampò subito incrociando lo sguardo di Leo.
- Ehi, chi si vede… pensavo non arrivassi così presto – cominciò con voce nervosa, allontanando da sé le braccia dell’altro ragazzo.La faccia di Leo si atteggiò in una smorfia amara, quasi sarcastica. Puntò negli occhi di lei i suoi, azzurro ghiaccio e freddi, e lei abbassò lo sguardo. Tornando serio, le sputò in faccia – Forse è stato meglio così. - Poi si voltò, arrivò all’uscita e corse fuori.
Leo respirò a pieni polmoni l’aria pulita e fredda della notte. Jessica lo stava chiamando.Leo scosse la testa. Strinse gli occhi. Poi decise: doveva affrontarla.
Il ragazzo si fermò in mezzo al marciapiede. Jessica arrivò alle sue spalle, ansimante. - Per favore, aspetta... Posso spiegare… - la sua voce sapeva di pianto. Ma a Leo non interessava, era lui quello che doveva starci male.
- Non devi spiegare niente. Ti ho vista, e mi è bastato – disse sbrigativo, continuando a darle le spalle.
- Ma no… tu non capisci.. –
- Non c’è niente da capire! – sbottò Leo, prendendo a calci i sassi sul ciglio della strada.
- Basta, fermati, ti prego… -
- Tu non mi dici cosa devo fare. Hai capito? – ringhiò Leo, voltandosi finalmente a fronteggiarla. Il viso della ragazza era pallido, illuminato dalla luna che splendeva in cielo, ma solcato da righe nere, probabilmente la matita colata assieme alle lacrime. Il ragazzo non si lasciò impietosire dalla sua espressione supplichevole, anzi la rabbia che gli ardeva nel petto divenne se possibile ancor più scottante.
- Ma almeno lasciami parlare… -
- E per sentire cosa, un’altra delle tue stupide scuse? E’ la terza volta che succede, Jessica, la terza cazzo!! Mi sono rotto, ho lasciato passare le scorse facendo finta di niente ma adesso basta! – Leo non riusciva più a contenersi. – Cosa dovresti dirmi adesso, eh? Che eri triste e hai cercato qualcuno che ti facesse sentire “meglio”? Ma a cosa cazzo servo io, allora? Scusa sono il tuo ragazzo, il tuo ragazzo! Non un fantasma!! E te ne fotte qualcosa di me? Mah, non mi sembra proprio. – Il ragazzo prese fiato.
- Non parlarmi così… - provò Jessica, ma Leo la fulminò con lo sguardo.
- Vaffanculo, Jessica! Non parlarmi mai più, non mi passerà mai questa, mai! Hai capito? Va a cercarti uno che accetta che tu ti faccia tre tipi a settimana senza dir niente… vai, e auguri! Tu per me non esisti più. – Leo le voltò le spalle, e fece per andarsene. Aveva detto tutto. Jessica provò a trattenerlo, ma lui si divincolò e corse, corse via da quello che sembrava diventato un incubo. Perfino le ombre proiettate sull’asfalto dalla luce elettrica dei neon sembravano animarsi e volerlo rapire, pareva che tutta la notte si stesse mettendo contro di lui. Il ragazzo corse, veloce, fino a che non fu sicuro di aver seminato ogni sorta di male. Si fermò sotto un albero, vicino al parco, e riprese fiato. E lì, nel silenzio della notte, avvolto dalle tenebre più nere, solo e sconfitto, permise alle lacrime che gli pulsavano sugli occhi di scendere, lente e inesorabili.

 
 
 

Pił che fratelli...

Post n°12 pubblicato il 24 Dicembre 2011 da akaiah

Dyter si riscosse. Strinse gli occhi per mettere a fuoco l'ambiente intorno a lui; il fumo nell'aria era soffocante, e il ragazzo a malapena riusciva a respirare.
Era steso a terra, la faccia premuta contro il pavimento freddo, e le sue mani si muovevano convulsamente cercando un appiglio cui sostenersi.
Gli occhi bruciavano tantissimo, ma riuscivano a scorgere una figura che si avvicinava... una figura incapucciata, che correva velocissima...
Poi il ragazzo perse di nuovo conoscenza.

Faul strinse le braccia attorno alle gambe. Aveva freddo. Il suo mantello l'aveva usato per avvolgere Dyter.
Dyter... Come era finito lì, in quel luogo oscuro e pericoloso? L'ultima volta che lei ed il ragazzo si erano incontrati, lui stava apprendendo le arti magiche per diventare sacerdote...
Faul lasciò vagare lo sguardo sul volto del giovane. Un volto abbronzato, segnato da spruzzi di efelidi, un volto che lei conosceva come fosse proprio. I suoi capelli, morbidi e scuri, che bella la sensazione di accarezzarli con le dita... e i suoi occhi, quegli occhi che ora, chiusi, si celavano al mondo, ma che lei ricordava come se li avesse appena visti. Due perle nere, buie, penetranti, che la catturavano al primo sguardo, ogni volta.
Faul spostò gli occhi sul suo corpo, coperto dal mantello nero. Poche ore prima era ancora scoperto, in balia dei suoi occhi, che volevano fotografare tutto, assolutamente tutto. Le membra forti, elastiche, le gambe scattanti, il torace scolpito... eh, Faul conosceva tutto fin troppo bene.
La ragazza sospirò. Non avrebbe dovuto salvarlo. La ragione le aveva suggerito di proseguire, di non fermarsi a soccorerlo, perchè sapeva che dopo tutto si sarebbe sconvolto. Ma il cuore... eh, il cuore era sempre in contrasto con la razionalità delle sue idee. E anche quella volta l'aveva convinta ad ascoltarlo.
Il cuore batteva, batteva forte sotto il corpetto, batteva per qualcuno. E quel qualcuno era al suo fianco, in quel momento.
Erano passati quasi due anni da quando si erano salutati. A quel tempo lei aveva circa quattrodici anni, lui sedici, e stavano ancora decidendo in merito al loro futuro. Erano cresciuti incieme, perchè Faul era rimasta orfana a soli due anni. Erano come fratello e sorella, e stavano sempre insieme. Ovunque andassero, non si separavano mai. Con il tempo, le abitudini cambiarono. L'adolescenza portò loro i primi problemi. Perchè all'inizio, Faul stimava Dyter, lui era il suo idolo. Ma poi... poi cominciò a sentire qualcosa. Una strana sensazione in fondo allo stomaco, ogni volta che vedeva il ragazzo, come una bestia sopita che aveva dormito troppo a lungo, e che si risvegliava ogni qual volta lei parlasse con Dyter. All'inizio Faul cercò di non pensarci, di contrastare questo languore struggente che la attanagliava sempre più spesso. Poi non ce la fece più. Di solito era Dyter il suo solo ed fidato confidente; ma non se la sentiva ancora di parlare con lui di quella che lei chiamava "la sua malattia". Così provò con la madre di Dyter. Lei era sempre stata gentile, affettuosa, premurosa con Faul, proprio come una mamma. Per questo la ragazza le parlò di quello che le stava succedendo. E fu proprio lei a svelarle la pura e semplice verità: si era innamorata. Di Dyter. Faul ne rimase sconvolta, temeva che quel sentimento avrebbe rovinato la loro amicizia. Per questo, anche se disperata, decise di partire. Forse, pensava, allontanandosi da lui tutto sarebbe stato più facile.
Ma si era sbagliata. Non era trascorso giorno senza che lei rivedesse davanti l'immagine di Dyter, e notte senza che lui le apparisse in sogno, bello e impossibile. Era divenuta un'ossessione. Stava per arrivare al suicidio. Ma qualcosa l'aveva fermata. Aveva sentito dentro una forza che la tratteneva. E aveva sognato una voce, una voce grave, che l'aveva ammonita dicendole che tutto sarebbe cambiato.
Per questo aveva continuato per la sua strada, incerta se tornare indietro, tornare dalla sua famiglia adottiva, tornare da lui.
Ed adesso... adesso l'aveva trovato lì. Per strada. Nel santuario maledetto che tutti temevano, in quella zona. Destino? O pura coincidenza? Faul non avrebbe saputo affermarlo con certezza.

In quel momento, Dyter si mosse. Prima impercettibilmente, poi cominciò a rotolare su sè stesso, a borbottare frasi sconnesse. Sembrava stesse delirando. Faul, preoccupatissima, gli si avvicinò, e gli tastò la fronte. No, non era calda, niente febbre. Probabilmente stava solo sognando.
Faul si scostò dal calore del suo corpo, arrossendo. Rimase ancora pochi minuti ranicchiata a fissare la luce delle fiamme che bruciavano la legna, ascoltando il respiro forte di Dyter, poi il sonno arrivò e la portò via con sè.

Dyter si destò all'improvviso. Aprì gli occhi, scoprendo che il buio lo avvolgeva impedendogli di vedere.
Cos'era successo? Rammentava di essere caduto a terra, nel santuario, e che qualcuno stava arrivando. Poi era svenuto, e i suoi ricordi si fermavano lì.
Ma sentiva il respiro di qualcuno, vicino a lui. Ebbe paura. Si alzò di scatto, gemendo di dolore. Era rimasto troppo fermo, e i muscoli erano indolenziti. Tastando la terra attorno a lui, scoprì i resti di quello che doveva essere un fuoco, spentosi da poco. Poi le sue mani trovarono qualcosa di morbido. Dyter, con il respiro bloccato in gola, continuò ad accarezzare quello che scoprì essere un corpo. Il corpo di una ragazza. Le sue mani si fermarono all'altezza del seno, poi Dyter le scostò, imbarazzato. Tornò al fuoco, e prese uno dei legni rimasti. Riuscì ad accenderlo con due pietre e, sempre trattenendo il fiato, alzò la torcia davanti al viso. Appena la luce della fiamma raggiunse la ragazza, Dyter la riconobbe. No, non poteva essere vero.
- F... Faul? - mormorò, sbalordito.
La ragazza rimase immobile. Dyter, allora, si avvicinò, e le toccò una spalla, dolcemente.
- Faul... - sussurrò ancora, ora sicuro che fosse lei. Non era cambiata per niente. I capelli, lunghi e biondi, erano sempre gli stessi, e il corpo minuto era il solito corpo aggrazziato e scattante che ricordava.
Dyter non aveva mai capito perchè Faul se ne era andata. Aveva chiesto spiagazioni alla madre, numerose volte, ma lei aveva sempre risposto dicendo "Un giorno sarà lei stessa a dirtelo". Perciò era rimasto con quel tormmento in cuore, in attesa di un suo ritorno.
E adesso, vederla lì, piccola e fragile, vicino a lui... lo faceva sentire finalmente completo.
Faul si mosse. Aprì piano gli occhi, che subito incrociarono lo sguardo di Dyter. Arrossì violentemente, e si mise seduta, stropicciandosi gli occhi.
- Faul... - la chiamò il ragazzo, per la terza volta. La ragazza, finalmente, si voltò. Lui era in ginocchio di fronte a lei, una fiaccola in mano. I ciuffi di capelli gli accarezzavano il viso morbido, e le membra magre e perfette la chiamavano. I suoi occhi la imprigionarono ancora una volta. Quanto le era mancata quella sensazione di impotenza, quel lasciarsi andare al suo sentimento, che cresceva ogni giorno di più...
Quasi non si rese conto di quello che successe dopo.
Dyter aveva gettato la torcia a terra, e l'aveva attirata a sè, in un abbraccio travolgente. Il contatto con la pelle calda del ragazzo svegliò la creatura nella pancia di Faul, che cominciò a graffiare, chiedendo di più. La giovane voleva piangere. Le erano mancate così tanto quelle braccia a cui poteva sempre sostenersi, quei capelli che ora le lambivano le guance, quella sensazione di pace che solo lui le dava.
E Faul pianse. Pianse finalmente tutto ciò che aveva perso, pianse perchè era stato uno sbaglio enorme lasciare il suo Dyter, pianse perchè in quel momento si sentiva la ragazza più felice del regno.
E, con stupore, si accorse che anche Dyter piangeva. Lui piangeva. Faul non l'aveva mai visto piangere. Le lacrime le bagnavano la casacca scura, le scivolavano sul collo dolci e tristi allo stesso tempo, lacrime di dolore, lacrime represse troppo a lungo.
Dyter la strinse a sè, sempre più forte, fino a mozzarle il respiro. La strinse per poterla sentire, per sentirla tutta, perchè mai più avrebbe potuto perderla.

Si scostarono dopo un tempo che parvo loro come infinito.
- Dyter... scusa – le parole uscirono da sole dalla bocca di Faul, senza che lei se ne accorgesse. Ma forse era meglio così, si disse.
- Perchè, Faul? Perchè? - sussurrò Dyter con disperazione, continuando a stringerle le mani al petto, baciandogliele dolcemente. Erano vicinissimi.
- Io... oh, Dyter. Io... io non potevo più starti vicino. - No. Non era quello che doveva dire.
Dyter infatti alzò il capo, mentre le lacrime continuavano a rigargli il bel volto. - Come? -
- No... non fraintendere. Io... io provo qualcosa per te. - tentò di spiegare Faul. Strinse gli occhi, voltando il viso di lato. Fissò la terra sotto di loro, e piangendo si dichiarò.
- Io ti amo, Dyter. -
Un silenzio teso seguì queste parole. L'aria era immobile.
Poi una voce, quella di Dyter, quasi impercettibile, fendette l'oscurità.
- Anch'io ti amo. -
Faul alzò gli occhi su di lui. Il ragazzo piangeva, le palpebre serrate, le mani strette convulsamente a quelle di lei.
- Co... come? - mormorò Faul, incredula.
- Sì, Faul. Ti amo. Da tanto tempo. Troppo, nemmeno riesco a ricordarmi da quanto. Ti ho sempre considerata una sorella, ma... ma poi tuto è cambiato. Sono cresciuto, e... e ho cominciato a guardarti con occhi diversi. La tua voce mi stordiva, i tuoi occhi mi uccidevano, la tua bocca e il tuo corpo mi chiamavano. Avevo paura di parlarti, di stare con te, di abbracciarti. Quando te ne sei andata, ho pensato che non sarei più riuscito a vivere. Ho provato a trovare qualcun'altra, a cercare nuovi impieghi, per riuscire a diastrarmi dal pensiero di te. Ma tu c'eri sempre, e comunque, dovunque andassi. Nessuno era in grado di sostituirti. Penso che anche mia madre se ne fosse accorta. E' per questo che, dopo molto tempo, sono partito. Per cercarti. Perchè, anche se tu mi avessi rfiutato, non sarei riuscito comunque a tenere dentro tutto ancora per molto. Ecco perchè sono qui... anche se, in fondo, è solo perchè mi hai trovato e salvato. - Dyter tacque. Aveva detto tutto.
- Dyter... io... io non avrei mai pensato... - balbettò Faul. Poi, cercando di dare importanza a quello che stava per dire, aggiunse – Ma io non devo spiegarti altro. Perchè hai già detto tutto tu. Ti amo, Dyter... non mi sembra vero di potertelo finalmente dire. -
Il giovane sorrise, alzando gli occhi. Incontrò i suoi, e non seppe resistere. Avvolse le braccia attorno al suo corpo magro, e tornò a stringerla, affondando il viso sull'incavo del suo collo.
- Perdonami... perdonami se non ti ho mai detto niente... - singhiozzò Faul, il viso tra i capelli profumati del ragazzo.
- No... perdonami tu... scusa, Faul... - mormorò Dyter.
- Ti amo. -
- Anch'io... -
Faul si scostò appena. Sentiva il bisogno di qualcos'altro, non le bastava quell'abbraccio. Le labbra di Dyter le si presentarono irresistibili ed invitanti, e in un attimo furono sue. Non aveva mai baciato nessuno prima, ma tutto le sembrava così naturale, le veniva spontaneo, come se fosse giàò scritto che così doveva esssere. Dyter rispose al suo bacio, più felice che mai, e la strinse ancora, accarezzandole la pelle morbida.
Ora niente poteva più separarli.

 
 
 

Anche i pił forti piangono!

Post n°11 pubblicato il 24 Novembre 2011 da akaiah

Era una fredda mattina d'autunno. Le foglie secche svolazzavano in aria, leggere e fruscianti, e la nebbia nascondeva ogni cosa.
Era un giorno come tutti gli altri. Niente di particolare in programma, solo cinque noiose ore di lezione... almeno poteva contare sul sorriso e le chiacchiere dei suoi nuovi amici. Fu questo pensiero a dare a Mirko la voglia di uscire da sotto le coperte calde e alzarsi per iniziare un nuovo giorno. Si vestì in fretta, rabbrividendo per il freddo. Felpa nera, jeans scuri e scarpe da tennis. Prima di scendere, si fermò di fronte allo specchio. Di solito non amava guardarsi, temendo lo portasse ad odiarsi ancora di più di quanto faceva già. Ma quelle mattine era diverso. Tutto era diverso da quando aveva conosciuto lei... Mirko scosse la testa, scacciando quei pensieri. Tornò alla sua immagine, limpida e impressa sulla superfice vetrata davanti a lui. Il ragazzo era alto, slanciato, con un fisico atletico e un'abbronzatura intensa. I capelli, biondi e ribelli, gli scendevano lungo il profilo del viso, fermandosi sotto la nuca. Gli occhi color del ghiaccio erano come due pozze d'acqua limpida. Mirko sbuffò. Era troppo bello. Era nato così, e non poteva farci niente. Ma il suo fisico da invidiare, il viso perfetto e le labbra così terribilmente irresistibili lo rendevano vittima di moltissime ragazze... E non era questo quello che lui voleva. O meglio, prima sì. Prima si sentiva lusingato quando gli facevano la corte, quando arrossivano al suo passaggio o balbettavano mentre chiacchieravano con lui. Ma adesso questi atteggiamenti lo infastidivano soltanto. Forse perchè non era lei a comportarsi così. Ed era questo che lo tormentava.
Reprimendo le lacrime, si disse con rabbia "Sei solo un bambino stupido. Non serve piagnucolare, lei non sarà mai tua." Scuro in volto, scese le scale quasi correndo. Aveva bisogno d'aria. Borbottò una frase tipo "Scusate, oggi non ho fame, ci vediamo stasera" ai genitori perplessi, prese lo zaino e uscì. Una ventata gelida lo investì, bloccandolo sull'uscio. Mirko ispirò a pieni polmoni l'aria fresca e pulita, lasciandosi avvolgere dalle sue braccia ghiacciate. Si chiuse la porta dietro alle spalle, saltò con un balzo il tre gradini all'ingresso e persorse tutto il vialetto fino al cancello. Che trovò chiuso. Imprecò sottovoce, irato con sè stesso per essere uscito senza giacca e senza chiavi. Ma ora non sarebbe tornato dentro, poteva arrangirsi comunque. I suoi avevano sempre il mazzo di chiavi di riserva nascosto da qualche parte lì fuori. Era sufficente cercarlo. Il ragazzo setacciò tutti i cespugli davanti alla ringhiera, senza risultati. Allora si diresse verso la finestra accanto alla porta d'ingresso, scostò le tapparelle ancora abbassate e tastò con la mano il marmo freddo del davanzale. Le sue dita si chiusero su qualcosa di freddo e metallico, e Mirko sorrise fra sè. Tornò al cancello, lo aprì e uscì sul marciapiede lastricato.
Il freddo lo stava congelando, gli penetrava nelle ossa insinuandosi sotto i vestiti. Ma il ragazzo non se ne curava: avrebbe sopportato tutto pur di eliminare il tormento che sentiva dentro di sè. Perchè doveva essere così difficile? Proprio per lui, uno dei ragazzi più belli della scuola, pieno di ammiratrici e conosciuto da tutti? "Beh" si disse "forse perchè nonostante tutto sono anch'io uguale agli altri... sono umano, e come tutti anch'io provo dei sentimenti... sentimenti che fanno star male, a volte!" si tirò su il cappuccio della felpa, e proseguì imperterrito lungo il marciapiede verso la fermata dell'autobus. Lì erano sedute due ragazze ed un ragazzo, all'apparenza tutti più piccoli di lui. Probabilmente frequentavano la prima superiore. Mirko si fermò, si mise le cuffiette dell'iPod alle orecchie e rimase immobile appoggiato al palo della luce ascoltando i Simple Plan cantare "Welcome to my life". Il ragazzo amava quella canzone, perchè descriveva in tutto e per tutto il suo stato d'animo e la sua vita, in quel momento. Canticchiandola con la mente, entrò nell'autobus semivuoto e si sedette al primo posto libero che trovò, accanto al finestrino. Il viaggio fu lento e monotono come tutte le mattine, e poco a poco l'autobus si affollò. Arrivati davanti alla Fight&Love High School, l'autista si fermò per aspettare che tutti scendessero. Mirko, uscito all'aria aperta, si diresse verso l'ingresso. Lungo il viale incontrò molte facce conosciute, che gli sorridevano o lo salutavano, e lui rispondeva con un cenno del capo, senza alzare gli occhi da terra. Niente gli avrebbe fatto tornare il buon umore, ne era certo. Eppure...

Successe all'intervallo. Mancavano pochi minuti alle dieci e mezza, ed i ragazzi della 3A erano già pronti ad uscire. Tutti, tranne Mirko. Il ragazzo, in fondo all'aula, osservava il cielo fuori dalla finestra, perso nei propri pensieri. Cercava di non far correre lo sguardo dall'altro lato della classe, dove sapeva avrebbe incontrato con gli occhi la sua schiena. E non avrebbe saputo come reagire. Samantha, si chiamava. Ma perchè mi fa sentire così? Perchè è così difficile guardarla, parlarle? E perchè vedere che lei non è attratta da me mi fa stare così male? Questo si chiedeva Mirko, mentre una strana creatura si svegliava nella sua pancia. Ti stai innamorando, ecco perchè. Gli suggeriva una vocina nel suo cervello. Ma lui cercava di scacciarla, anche se invano. Perchè era perfettamente consapevole di quello che gli stava succedendo, ma non era ancora pronto ad accettarlo.
Il trillo della campanella fu sovrastato dal rumore di sedie e banchi spostati e di voci concitate e passi che uscivano.
Anche Mirko, controvoglia, si alzò. Uscito in corridoio, scese le scale per andare alle macchinette a prendersi qualcosa da mangiare. Almeno lì non l'avrebbe vista, quella moretta che lo faceva impazzire. E invece, come se il suo pensiero influisse in qualche modo su di lei, quando arrivò al distributore se la ritrovò davanti, impegnata in una conversazione molto animata con una sua amica. La curva della spina dorsale, appena visibile sotto la maglietta chiara, i fianchi magri, il seno stretto, le gambe flessuose e perfette strette dai jeans... e il suo collo morbido, bianco e delicato, il suo viso semplice e gli occhi neri, bui, sinistri, che incutevano timore, i suoi capelli lisci e morbidi che ricadevano dietro le spalle... sarebbe rimasto ad osservarla fino a consumarsi gli occhi... Mirko si riscosse, all'improvviso. Era rimasto imbambolato a guardarla, e non si era accorto che toccava a lui. Impacciato, arrossì violentemente, e buttò in fretta alcune monete spingendo i bottoni di due numeri a caso. Dopo aver preso la barretta che era caduta, si tolse dalla macchinetta e a testa bassa cercò i bagni. Si chiuse nel primo gabinetto aperto che trovò, si appoggiò al lavandino e lasciò che le lacrime gli rigassero il viso, irrefrenabili.
Rimase lì per molto tempo.
Le braccia sui capelli, le palpebre strette e bagnate. Le lacrime avevano smesso di scendere, e il suo cuore aveva rallentato i battiti. Il ragazzo sapeva che la campanella di fine intervallo era suonata da un pezzo, e che probabilmente lo aspettava una bella nota del preside, ma non gli interessava minimamente. Quello che lo tormentava era la consapevolezza di quel che stava succedendo. Si stava innamorando. Non riusciva a capacitarsene, era più forte di lui.
Di tornare in classe non se ne parlava, non in quel momento almeno. Così decise di uscire, aveva bisogno d'aria.
Attraversò la scuola deserta, e uscì all'aria aperta, respirandola a pieni polmoni. Si appoggiò al muro, e si prese la testa fra le mani, chiudendo gli occhi.
- Mirko.. - lo sorprese una voce da dietro. Il ragazzo si irriggidì, mentre il suo cuore accellerava i battiti. Perchè sapeva benissimo a chi apparteneva quella voce. L'aveva sognata per molte notti di seguito. Era la sua. Samantha.
Mirko non alzò gli occhi. Rimase non le braccia strette sul capo, gli occhi chiusi, ma mormorò - Cosa ci fai qui? -
- E' quello che volevo chiederti io. - replicò lei. La sua voce non sembrava seccata, anzi appariva quasi preoccupata. - Tutto ok? -
- No. Ma... non importa. - il ragazzo aveva deciso di essere sincero con lei. Almeno fin quando avesse potuto.
- Vuoi... parlare? - chiese lei, timidamente.
Mirko non rispose. Ma alzò la testa, e incrociò i suoi occhi. Non riuscì a sostenere il suo sguardo, anzi arrossì e si voltò da un'altra parte.
- Beh... io sì. -
Il ragazzo, sorpreso, provò nuovamente a spostare lo sguardo su di lei.
- Come? -
- Ho bisogno di parlarti, Mirko. - spiegò lei, sospirando. Sembrava avesse fatto appello a tutto il suo coraggio per formulare quella frase.
- Beh... sono qui - sussurrò lui, stupito. La voce della ragazza era grave; cosa mai era successo, adesso?
- Ecco... non è facile. Insomma... - Samantha sospirò, torcendosi le mani. - Devo... devo darti una cosa - mormorò infine, rossa in viso.
Mirko, sempre più sbalordito, rimase ad osservarla mentre stringeva convulsamente le braccia al petto.
- Chiudi gli occhi - sussurrò Samantha, premendo i suoi.
Il ragazzo la accontentò. Non capiva, ma preferiva aspettare senza indagare troppo.
Trascorse una manciata di secondi, durante i quali non successe niente, e Mirko si lasciò accarezzare dalla brezza che tirava. All'improvviso, sentì il respiro caldo di Samantha sul viso, e il suo profumo lo stordì. Senza che lo avesse previsto o anche solo sospettato, qualcosa di morbido si posò sulla sua bocca, stretta e chiusa. Quando Mirko capì di cosa si trattava, non riuscì più a trattenersi. Si scostò dal muro, per continuare quello che lei aveva cominciato. La strinse a sè, ad occhi chiusi, ignorando le scariche elettriche che lo attraversavano al contatto con la sua pelle, e schiuse le labbra, baciandola con dolcezza. Era qualcosa di naturale, di segnato. Sembrava che le loro bocche fossero state create apposta per rimanere unite. Continuò a stringerla e a baciarla fino al suono della campanella della fine delle lezioni. Quando si scostarono, guardandosi si sorrisero.
- Non sai che regalo mi hai fatto... - cominciò Mirko. - Sono giorni, settimane che non dormo e che vivo con questo peso sul cuore, tormentato all'idea che tu non avresti mai potuto interessarti a me. E invece adesso... -
- Dimmi la verità. Dov'eri prima? -
Mirko arrossì. Ma rispose, in un soffio - In bagno... a piangere -. Ma aggiunse subito - Non pensare che io sia un debole... è che non ce la facevo più!-
- Anche i più forti piangono, Mirko - mormorò Samantha, posandogli un altro, dolce bacio sulle labbra ancora calde.

 
 
 

Qualcosa di pił di una semplice amicizia...

Post n°9 pubblicato il 11 Novembre 2011 da akaiah

Era un pomeriggio come tutti gli altri. Ero in camera mia, spaparanzato sulla sedia della scrivania, con accanto Syaur che studiava insieme a me. Eravamo sempre insieme, amici fin dalla prima infanzia. Lei aveva un anno meno di me, era figlia unica e non aveva molti amici. Io però l'avevo subito accettata, sia per il suo carattere tenebroso ma particolare che per la sua personalità. Così eravamo cresciuti insieme, frequentato le stesse scuole... andavamo a scuola e tornavamo a casa insieme, tutti i giorni, fianco a fianco, scherzando e chiacchierando. Syalf, uscita dalle medie, aveva scelto il mio stesso liceo. Per questo, fin dai primi gironi, quella che era solo un'amicizia da "ciao, come stai?" era diventata anche un'opportunità per studiare e fare i compiti in compagnia. E lei non sapeva quanto mi rendesse felice averla vicino a me... Perchè, nonostante cercassi di non darlo a vedere... Syalf mi piaceva. Mi piaceva tanto. Alla follia. I primi anni delle medie erano trascorsi spensierati, alla ricerca della maturità e delle prime consapevolezze. Era successo più tardi, verso i 14 anni, circa due anni fa. Un giorno ci eravamo trovati, come spesso capitava, con altri amici, per andare al centro commerciale. Non so se fu il suo nuovo taglio di capelli, il suo trucco più marcato, i suo occhi più luminoi, i vestiti che sembravano tagliati apposta per lei, il suo incedere quando camminava... non lo so, ma sono certo che quella è stata la prima volta che ho seriamente sfiorato l'idea di una qualche ombra di sentimento diversa dall'amicizia nei suoi confronti. Eravamo rimasti assieme tutto il pomeriggio; quando lei mi aveva chiesto di entrare in libreria, ci eravamo separati dal resto del gruppo. Io a malapena riuscivo ad alzare lo sguard su di lei, perchè sapevo che se l'avessi fatto non sarei più riuscito a toglierle gli occhi di dosso. Insomma, mi sentivo strano, diverso.
Dopo quell'episodio, ne seguirono altri, e sempre più spesso mi sorprendevo a fissarla beato... di notte non dormivo, e vederla tutti i giorni mi uccideva, perchè quando l'abbracciavo ora il mio corpo sembrava bruciare contro il suo, quando mi sorrideva il suo sguardo mi disarmava. Insomma, non ero più lo stesso.
Quando, a scuola, avevano aperto lo sportello per gli incontri con la psicologa, ero stato uno dei primi a mettersi in lista. Ricordo ancora la data dell'appuntamento, scritta in nero su un foglietto bianco che mi aveva consegnato il bidello..."Mercoledì15 febbraio, ore 10.30. Permesso di uscita dall'aula da consegnare all'insegnante". Il 15 febbraio. Il giorno del mio compleanno.
Quella mattina la prima cosa a cui avevo pensato non era stata "Ho 14 anni", ma "Oggi finalmente mi sfogo con qualcuno"... Ovviamente c'erano stati i messaggi di auguri, i regali di mamma e papà, il bacio sulla guancia della mia sorellina... e l'abbraccio di Syaur, appena varcata la soglia di casa. Che mi aveva mozzato il respiro, togliendomi il sorriso.
All'ora dell'appuntamento, ero uscito dall'aula quasi correndo. E mentre percorrevo il corridoio, mi immaginavo la faccia del professore di inglese di quell'ora, che mi osservava fuggire via, guardandomi di sbieco e con le sopracciglia agrottate, pensando "Caspita, quanta fretta ha il nostro signor Hylkar, oggi..." . Patetico. Per distrarmi, consapevole di quello di cui avrei parlato nel giro di pochi minuti, mi ero fermato a pensare al mio insegnante. Caspita, significava che davvero non ero tutto a posto...
Quando ero arrivato di fronte all porta dell'aula che veniva utilizzata per gli incontri con la psicologa, il mio cuore pulsava nel petto come un orologio impazzito, e le gambe a stento mi sorreggevano. Avevo paura. Paura di quello che avrei potuto scoprire. Ma ciò che stavo facendo era assolutamente necessario. Bussai piano, ed una voce gentile mi rispose - Vieni pure -. Con le mani tremanti, abbassai la maniglia bianca, ed entrai. La stanza era in penombra, illuminata dalla luce di alcune candele profumate, che riscaldavano l'aria e la riempivano di essenze speziate. In fondo, davanti alla parete, era posizionata una vecchia cattedra, con due sedie. Su una delle due, dietro alla cattedra, era seduta quella che doveva essere la signorina Boutman. Dimostrava poco più di 20 anni, anche se sapevo che in realtà non era così giovane.
La sua voce morbida mi riscosse. - Sei tu Jason Hylkar? - mi sorrise incoraggiante, accennando alla sedia di fronte alla sua. - Sì - risposi, sedendomi. Mi scostai i capelli lunghi dal viso, e rimasi ad aspettare che lei dicesse qualcosa. Aveva capelli bondi e lucenti raccolti in una grossa treccia ad un lato del viso, ed i cuoi occhi scuri ispiravano fiducia. - Bene, Jason. Ti ascolto. -
Io mi irriggidii. Non mi aspettavo tutta quella libertà, pensavo mi facesse domande.
- Beh...  ho bisogno di parlare con qualcuno - iniziai, non sicuro che fosse la cosa più esatta da dire.
- Ed è per questo che ci sono qui io. - replicò la dottoressa, sorridendo. Notai che lo faceva molto spesso.
- Io... io non sono sicuro, però, di riuscire a spiegarmi. Cioè... se lei mi può ascoltare, mi sentirò meglio, perchè necessito di sapere quello che mi sta succedendo e che mi sconvolge... - ora tenevo lo sguardo fisso sul pavimento, gli occhi stanchi che guardavano il vuoto.
- Jason... questo l'avevo già capito quando sei entrato. Ma ora... lasciati andare, sfogati. Dimmi cosa succede, e per quel che potrò io cercherò di aiutarti. -
E io mi sfogai, eccome. Le dissi tutta la verità, partendo dall'inizio. Dal giorno in cui io e Syaur ci eravamo conosciuti. Fino ad arrivare a quei giorni... Le raccontai delle mie sensazioni, delle mie paure, delle nuove emozioni che avevo scoperto.
Lei non smise di sorridere durante tutto il mio sfogo. Le labbra incurvate olcemente, lo sguardo comprensivo, rimase ad osservarmi finchè, esausto, terminai con una frase disperata tipo "Ed ora cosa dovrei pensare?".
- Jason... io posso dirti cosa ti succede. Ma lo posso fare io come potrebbe chiunque altro che abbia un minimo di esperienza. Jason... tu ti stai innamorando. - le sue parole le ricordo ancora perfettamente, sono impresse nella mia memoria e ci rimarranno per sempre. Perchè in quell'istante, compresi tutto. E seppi che la mia vita non sarebbe stata più la stessa, che la mia amicizia con Syaur sarebbe stata sconvolta. Per colpa mia.
In realtà, poi, continuammo a trovarci, ad uscire insieme, a scherzare e ridere come prima, ma io la guardavo con occhi nuovi, la sondavo dentro, e sapevo che senza di lei non sarei riuscito a stare.
L'anno finì, gli esami terminarono, ed a settembre iniziai il liceo. Da un lato ero felice per non dover più vedere Syuar ogni istante, perchè non poterle dire quello che provavo mi faceva star male; dall'altro ero triste perchè non ce l'avevo vicina.
Aiutandola con lo studio per gli esami, seppi che aveva deciso di frequentare la mia stessa scuola. E capii che non sarei riuscito a mantenere il silenzio ancora a lungo.
Tutto filò liscio, abbastanza almeno... ed ora eravamo lì. In un pomeriggio come tutti, a fare i compiti e studiare insieme, vicini sulla scrivania. Ogni volta che il suo gomito mi sfiorava, trattenevo il fiato, sentendo un brivido percorrermi tutta la spina dorsale.
Forse fu il suo profumo, più inebriante del solito, forse il suo viso dolce e la sua fronte corrugata per lo sforzo del comprendere ciò che stava leggendo, forse la sua immagine, riflessa nello specchio, che la mostrava ovviamente bellissima... i suoi capelli scuri che le scendevano ai lati del viso... non lo seppi mai. Doveva succedere e basta. Guardavo il libro, ma pensavo a tuttaltro. Misentivo ribollire dentro, infiammato, consapevole dello sforzo sovrumano che compivo nel trattenere tutto ciò che sentivo.
Syuar si accorse di essere osservata, così si volse e mi sorrise - Cosa c'è? Tutto ok? - annuii, riposando lo sguardo sul libro di storia. Ma non mi riusciva proprio di concentrarmi: ogni pensiero era per lei. Anche se i miei occhi dovevano fermarsi su quel libro tanto brutto ed inanimato, continuavo ad essere turbato.
Allora, cautamente perchè coscente di quali conseguenze avrebbe portato ciò che stavo per fare, posai la mano destra sulla coscia di Syaur. Lei non si mosse. Nessuno di noi due parlava, ma in fondo non c'era niente da dire. Allora feci scorrere la mano sul suo fianco, lentamente, ignorando le scariche elettriche che mi percorrevano il braccio mentre sfioravo il suo corpo. Con l'altra mano le afferrai il mento, imponendole di guardarmi. I suoi occhi si riempirono di lacrime. Ma io non indugiai. Mi avvicinai e... posai le labbra sulle sue. Al contatto, un fuoco si sprigionò in me, e mi parve di esplodere. Spostai la mano destra dalla sua gamba al suo viso e la baciai ancora, dolcemente, mentre la sentivo cedere e sciogliersi al mio volere. Iniziò a ricambiare i miei baci, più disperati che altro, e mi allacciò le braccia al collo, stringendomi a sè. Allora premetti il corpo al suo, baciandola con foga. Mi sembrava di morire... Davvero, mai avrei pensato di sentirmi così.
Quando ci staccammo, fu per guardarci negli occhi, sorriderci e ricominciare. Non c'era bisogno di parole: ora sapevo che anche lei provava gli stessi miei sentimenti.
Più tardi, stesi sul letto e allacciati in un dolce abbraccio, ci confessammo ciò che sentivamo. Le parlai di quello che provavo, di come mi sentivo, e compresi che per lei era sempre stato lo stesso, ma che come me non se la sentiva di parlarne per paura di rovinare la nostra amicizia.
Ora però... era tutto diverso. Ma il nostro amore... era ancora più forte.

 
 
 

Insomma, io... io ti amo.

Post n°8 pubblicato il 02 Novembre 2011 da akaiah

- yaki... - la chiamò zagor, scuro in volto.
- vattene - singhiozzò lei. era seduta con la schiena alla parete, le ginocchia strette al petto e la testa fra le gambe, e piangeva senza sosta.
- per favore, lasciami spiegare...  -
- non c'è niente da spiegare! - replicò yaki con ira, alzando gli occhi arrossati su di lui. il ragazzo era appoggiato al banco davanti a lei, le mani sulla testa, gli occhi serrati, e sembrava stesse trattenendo le lacrime. quando rispose, la sua voce affranta e triste  procurò alla ragazza una fitta all'altezza dello stomaco. provava il suo stesso dolore.
- ma hai frainteso tutto... ti prego, voglio solo parlarti... -
- io non ho frainteso niente! - urlò lei, scuotendo la testa - mi hai detto che non accetti la mia amicizia, dopo tutto quello che ho fatto per te. abbiamo lavorato insieme alla ricerca, e per la rappresentazione teatrale di domani, eppure quando ho detto che eravamo amici tu hai negato. ma cosa c'è, dai, si può sapere? io ci sto male, zagor, vuoi capirlo o no? - parlava con disperazione, lasciando che le lacrime crudeli le rigassero il viso, gli occhi intenti a fissare le linee delle mattonelle del pavimento.
- ma non è così. - ora la voce del ragazzo era un po' più decisa di prima. sollevando la testa, la fissò cercando il suo sguardo, e affermò - è vero, io ti ho detto che non possiamo essere amici. ma questo non significa... che non può esserci niente tra noi. - distolse lo sguardo, mentre i capelli morbidi e ribelli gli ricadevano davanti agli occhi.
la ragazza non piangeva più. alzando lo sguardo, si fermò ad ammirare zagor, sospirando. era veramente bellissimo, eppure le sembrava di non essersene mai accorta prima.
- non è facile da spiegare, yaki. ma... io... mi sto innamorando di te. - queste parole sussurrate travolsero la ragazza come una doccia gelata, mozzandole il fiato in gola. - ed è per questo... che non posso esserti amico. a malapena mi trattenevo gli scorsi giorni... rimanerti accanto e non poterti stringere fra le braccia, sorriderti ma non poterti baciare, guardarti senza poter accarezzare i tuoi capelli profumati, mi... mi uccide. la scorsa settimana, al parco... stavo per abbracciarti. ma sapevo che se l'avessi fatto non avrei più smesso, avrei desiderato di più... speravo di dimenticarmi di te, anche se in così poco tempo, perchè non volevo ferirti, ma prima... quando hai accennato alla nostra amicizia... non sono riuscito a trattenermi, seguendo la ragione ho dovuto evitare di assecondarti, perchè... perchè non sapevo cosa provassi tu nei miei confronti. ma io non posso non pensare a te... yaki, in questi giorni non ho dormito. non mangio, non parlo con nessuno... tutti i miei amici mi hanno chiesto cos'ho, persino i miei se ne sono accorti. ieri mia sorella ha provato a farmi confessare tutto, ma ha fallito. insomma, io... io ti amo. e non posso evitarlo in alcun modo. è per questo, soltanto per questo, che ti ho detto che non avrei accettato la nostra amicizia. perchè una semplice amicizia... mi farebbe impazzire. - ora zagor piangeva davvero. finalmente, le lacrime trattenute per così tanto tempo riuscirono ad uscire, e lui dopo essersi dichiarato si sentì più leggero, libero del fardello che gli opprimeva il cuore. - capisco di averti sconvolta... e se non vuoi più vedermi, posso comprendere i tuoi motivi... ma almeno, dimmi cosa ne pensi. ti prego. -
yaki non seppe mai cosa la spinse ad agire come effettivamente fece; forse l'istinto, forse il cuore che vinceva sulla ragione, forse le parole del ragazzo, forse il tono di voce con cui aveva parlato, forse le sue lacrime. si ricordò solo che si alzò in fretta e corse da lui, gli buttò le braccia al collo e premette le labbra sulle sue, finalmente libera di farlo senza inutili rimorsi e paure. era da quando l'aveva visto la prima volta che aspettava quel momento, ed ora si sentiva vermente felice, abbracciata a lui.
zagor, inizialmente sorpreso, tornò in sè e strinse la ragazza fra le braccia, premendola a sè e rispondendo dolcemente ai suoi baci. il calore della sua pelle lo faceva sentire libero, e le sue mani su di lui lo mandavano in estasi, accendendolo e infiammandolo, spingendolo a continuare... ora baciava yaki con più foga, voleva sentirla tutta, e la stringeva a sè sempre più forte, come per paura di perderla.
si amavano da sempre, ma nessuno dei due era consapevole dei sentimenti dell'altro. desideravano rimanere insieme, ma avevano paura di rovinare la loro amicizia. ed ora, era bastata un'incomprensione per farli litigare, ma subito, chiarendosi, avevano scoperto la verità. quella verità dolce e speciale che li univa in un amore unico.
all'inizio sembrava impossibile, eppure...

 
 
 
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