FAJR

il grigio lunedì della politica


«Debbono imparare, quei governanti, che il governo non è tutela, non negazione, bensì armonizzazione degli interessi dei gruppi; ciò presuppone che il cittadino non venga considerato puro oggetto di manipolazione, ma partner a pieno diritto nel dialogo dal quale solo può nascere un ordine sociale superiore».EDUARD GOLDSTOCKER 
Narrano le cronache che un vecchissimo e stimato uomo politico, uno dei padri del pensiero democratico moderno, fosse solito dire ai giovani accigliati che lo andavano a trovare: «Se la vita non è sempre una festa, perché dovrebbe esserlo la politica? ». E con quella levità straordinaria che gli aveva consentito di sopravvivere con dignità ai sommovimenti e alle glaciazioni delle ere politiche e di rimanere sempre se stesso nel variare mai prevedibile delle situazioni, aggiungeva: «La democrazia, come la vita, bisogna amarla così, con le sue feste e i suoi lunedì ».Le cronache non narrano se i giovani accigliati che lo stavano ad ascoltare convertissero il broncio in sorriso. Ma è certo, e Io confermarono in seguito con un lungo e irreprensibile impegno nei vari campi della vita pubblica, che dalla levità di quelle parole essi assorbissero insieme al tesoro del disincanto anche quello della costanza. Di questa duplice ricchezza avremmo bisogno anche noi, sempre, ma soprattutto nei momenti in cui sembra che la democrazia attraversi uno dei suoi fatidici lunedì. E' questo uno di quei momenti? Può darsi.Di certo c'è che ora la democrazia, coi suoi partiti, le sue elezioni, ì suoi organi rappresentativi, il suo rituale insomma, chiede di essere amata nel suo grigiore. Nessuna ventata di giovinezza per le strade, nessuna esaltante novità. In giro solo domande elementari, disarmanti nella loro " banalità ": lavoro, sicurezza, onestà, diritto; ed altre dettate dalla paura, dal terrore del futuro: la pace, il verde,... La festa della creatività e della fantasia è passata.Né più luccicante sembra il panorama degli interlocutori cui le domande si rivolgono, i partiti. Consapevoli essi stessi di non brillare, cercano in qualche modo di spiegare che loro possono quel che possono, che il grigiore è nelle cose e che le cose non sono solo frutto della loro opera.Capri espiatori, i partiti, di una diffusa incapacità di convivere col grigiore, della difficoltà di dimenticare la festa, di tollerare se non di amare anche il lunedì oltre che la festa, perché la settimana della politica ha gli stessi giorni dell'uomo? Difficile rispondere. Ma è pur vero che ancora non si è imparato a vivere il rituale politico (il partito, il voto, la rappresentatività) con il distacco e la costanza necessari per proteggersi dalle illusioni e dalle delusioni, malattie tremende. Dall'illusione che dalla politica si possa ottenere il regno della felicità e dalla delusione perché essa non riesce nemmeno a circoscrivere il regno del dolore, l'unica cosa le si possa onestamente chiedere.Disincanto per non chiedere troppo; costanza per continuare a chiedere il possibile dopo aver archiviato le puntuali spesso amare delusioni. Ma il possibile bisogna chiederlo e il possibile bisogna anche farlo, perché non succeda che alla democrazia si chieda di più proprio quando si è disposti a darle di meno. A ognuno le sue responsabilità, comunque, a prescindere dalle irresponsabilità di qualsivoglia. Costanti dunque nel fare e nel chiedere il possibile. Troppe stragi sono nella memoria e sulle pagine dei giornali. E spesso esse nascono dall'aver troppo chiesto, troppo preteso dalla politica: spesso il regno della felicità. Ma talvolta esse nascono dal non aver preteso nemmeno poco, dal non essere stati nemmeno esigenti sul possibile. Oggi il doverosamente possibile si chiama disarmo, lotta alla fame, solidarietà internazionale, occupazione, onestà. Questo bisogna esigerlo e su questo ognuno si assuma le sue responsabilità.Se non è un momento di festa per la democrazia, se la settimana è ferma sul lunedì, questo può essere comunque un buon momento per praticare il disincanto e la costanza.Vincenzo PASSERINI, Rivista Il margine, n.5/1983