Fermata a richiesta

Raccontami una storia (la pazienza delle pietre)


Nelle sere d’estate i vecchi si attardavano sull’aia,  seduti su di una pietra piatta e allungata poggiata su due ceppi di quercia. L’aveva trovata un secolo prima un loro trisavolo nel dissodare la terra lì intorno, l’aveva poggiata su quei due tronconi di rovere e da allora nessuno l’aveva più mossa.Poggiata alla facciata anteriore della casa, tra la porta d’ingresso e quella della stalla, era come se reggesse da sola il peso dell’intera costruzione; tanto quella fatta di mattoni e malta, come quella impastata di affetti e vita che dentro quelle mura scorrevano da sempre come un fiume millenario.Le donne che sgranavano il mais o i fagioli per la zuppa, i bambini che la usavano come tana nelle corse sfrenate del nascondino, le vecchie che, sedute, cardavano da una vita la lana degli stessi materassi che avevano accolto il rosso sanguigno della loro verginità: ognuno, nella casa,  e nel tempo, aveva regalato ad essa istanti delle proprie storie. La sera,  come ho già detto, era il momento dei vecchi, coloro che sono più vicini a quella culla senza sogno che è la tomba.Poggiavano le schiene stanche al muro della casa ancora caldo dell’ultimo sole, e per un attimo un brivido correva lungo le spine dorsali, come se tutto fosse ancora possibile. Poi i muscoli si stendevano e i ricordi cominciavano a passeggiare sulla pietra, cadendo dalle labbra ora dell’uno ora dell’altro, come acqua da brocche rugginose.Il primo a parlare era sempre Guglie’; fissava i rami del salice che sfioravano terra dondolando e mentre l’aria tiepida faceva stormire le foglie cominciava a raccontare delle streghe che la notte scendevano dal noce miagolando come gatti e annodavano le criniere dei cavalli nella stalla, e di Moa’ che uscì con lo schioppo per non tornare più, e di donna Maria, che il marito le aveva detto di non aprirgli la porta, quella notte di luna, neanche se l’avesse supplicata, ma lei non gli diede retta.Poi era la volta di Pierina, che quando andava nel bosco trovava la figlia della Sòrcia a parlare con l’acqua della palude e con le rane e con le serpi che le obbedivano,  e che quand’era di luna crescente aiutava le puerpere a partorire, e di luna calante, le lupe.E Nico’, che raccontava sempre dell’anima di un servo che lo supplicava, in sogno, di liberarla dalla prigionia cui l’aveva condannata il padrone mettendola a guardia del suo oro. - Vieni nella grotta del vino a mezzanotte – gli diceva la disgraziata – io ti farò ricco e tu mi libererai, ma devi venire da solo.Eh, ma Nico’ era più furbo, lui lo sapeva che poi avrebbe preso il suo posto, così non gli diede mai ascolto. E siccome nemmeno il de profundis, per cui il parroco era stato profumatamente pagato, era servito a liberarlo da quel tormento, decise di andaresene in America, a cercare quella fortuna rifiutata, nelle miniere della Pensilvanya, per  tornare trent’anni dopo con la silicosi e un’ernia inguinale grossa come un melone. In compenso non sentiva più le voci, ma forse era solo perché la tosse lo teneva sveglio tutta la notteAll’improvviso tutti tacquero. Rimase solo il frusciare del vento tre le chiome degli alberi, e gli occhi fissarono insieme un punto lontano, un bagliore tenue e verdognolo nel mezzo del campo.- Eccole! Le anime dei morti vengono a parlarci.I fuochi fatui si moltiplicavano e lo stormire delle fronde sembrava un’accozzaglia di voci vicine e lontane. Rimasero lì,  i tre vecchi, affascinati da quello spettacolo, fin quando una voce su tutte si udì nitida, una voce giovane e triste:“Siamo ben poca cosa. Ci credevamo importanti, la giovinezza ci faceva protervi come dèi adolescenti e capricciosi. Il giorno che sono morto nulla è cambiato: il fornaio continuava ad impastare il pane, la gente passeggiava per la strada, le operaie del filatoio andavano al lavoro e la pioggia cadeva sottile su tutto come ogni autunno. Una fossa in più si era aperta nel mezzo del camposanto e nulla era cambiato, nulla si era fermato ad aspettarmi.Nulla era tutto ciò che rimaneva di me”.I tre vecchi si guardarono. Quel nulla li aveva già raggiunti e piano stava svuotando gli spazi un tempo pieni di lavoro e amici,  di amori e figli andati.Intorno,  la città cresceva vorticosa; alzava le sue steli di ciminiere verso il cielo sempre più cupo, e le luci chimiche dei televisori alle finestre facevano sembrare i grattacieli enormi e moderni leviatani dagli occhi azzurri.Per un attimo i ricordi impallidirono e la voce torno limpida e fredda a gocciolare come acqua dalle grondaie dopo un temporale:“Siete una sfinge nel mezzo di questo  deserto: nessun essere dovrebbe sopravvivere al proprio tempo”.…- Sono le esalazioni del concime che abbiamo dato al campo -  disse Guglie’ indicando la leggera nebbiolina fosforescente che saliva dal terreno- …E quelle del vino nuovo – aggiunse Nico’ con un ampio gesto della mano a comprendere tutte le voci della notte.- E quelle dei fagioli con le cotiche che vi siete mangiati a cena!!! – esclamò Pierina. –State scoreggiando come maiali da più di un’ora e io sono stanca, vado a dormire… da sola! – aggiunse puntando un dito verso suo marito.La sera aveva lasciato il passo al fresco umido della notte; i tre vecchi si alzarono e piano riportarono le loro ossa nell’abbraccio tiepido della casa, mentre fuori le streghe scendevano silenziose dai pinnacoli delle torri per intrecciare le criniere a sconfinate mandrie di cavalli addormentate sotto i cofani delle automobili, e i lupi di Wall Street partorivano cuccioli d’uomo nelle mani della giovane Sòrcia, e i tesori rinunciati giacevano nel cuore della Terra, abbandonati al fondo di vecchie miniere dall’altra parte del mare.Sopra la terra aperta dall’aratro le anime dei morti affidavano al vento e ai salici le loro voci che continuavano a scivolare sulla pietra vecchia lisciata dal tempo e dallo strusciare di troppi culi passati e del loro irrequieto strombazzare di fagioli con le cotiche.