IL MONDO CHE VORREI

DOMENICA, MALEDETTA DOMENICA


              Oggi è domenica e, come tutte le domeniche che Dio ha messo sulla terra, da qualche anno a questa parte, per me non è un giorno dal significato particolare. Una volta lo era, adesso non più.               Mi ricordo quando la domenica avevo amici o parenti a pranzo. Un paio di giorni prima già iniziavo a pensare al menù che avrei preparato per l’occasione. Il sugo iniziava a bollire, piano, piano, fin dalla sera prima. Il pezzo di carne, prima di ricevere il pomodoro, aveva dovuto essere insaporito nel tegame insieme alla carota, al sedano, al basilico. Poi, quando il colore iniziava a passare dal rosa al marrone, una abbondante spruzzata di vino bianco, faceva in modo che si creasse intorno alla carne una crosticina che impediva così la fuoriuscita dei succhi, saporiti, allinterno di essa. Il vino doveva evaporare a fuoco alto, in modo da non snervare, e rendere duro, il contenuto della pentola.               I pomodori erano già stati preparati. Freschi, San Marzano possibilmente. Erano stati da me appena sbollentati in acqua bollente in modo da poterne togliere la buccia che li ricopriva facilmente. Poi li avevo tagliati a pezzi non molto grandi e messi a scolare in un piano leggermente rialzato da una parte, in modo che perdessero l’acqua in eccesso.               Il vino si era, intanto, ritirato ed era arrivata l’ora di aggiungere il pomodoro. Non tutti insieme, un po’ per volta, per fare in modo che la carne non passasse bruscamente dal caldo al freddo interrompendo così la cottura. Dopo un coperchio, possibilmente con un peso sopra per impedire l’uscita incontrollata del vapore di cottura, Il fuoco sotto la pentola molto basso. Eduardo De Filippo nella sua commedia “Sabato, Domenica e Lunedì”, dice che il sugo deve “Peppiare piano, piano. Per qualche ora”. E aveva ragione, tra un sugo veloce e il ragù della Domenica la differenza è abissale.               I miei arrosti erano apprezzati da tutti. Il pesce che preparavo aveva un sapore particolare. E non era un sapore dato solo dal cibo, ma era tutto il contorno che dava al cibo una fragranza unica. L’ospitalità, la voglia di stare insieme, la necessità di avere, comunque, qualcuno vicino che apprezzasse il mio lavoro.               Gli scherzi, le battute durante il pasto. I figli che mi consideravano un loro secondo padre. La maggior parte dei figli dei miei amici mi chiamava zio. Venivano da me se volevano qualche cosa che la loro madre gli aveva proibito. Venivano da me perché sapevano che io li avrei sempre e comunque accontentati.               Adesso mi illudo di non essere solo la domenica. Preparo il mio ragù con la stessa attenzione di una volta. Non ho l’opportunità di aggiungere pomodori freschi, uso i pelati, purtroppo. Ogni tanto, quando mi va, preparo delle crostate alla frutta, un tiramisù, una crema allo zabaglione montato a neve. Ma non è la stessa cosa.                Mi metto seduto con tutto quello che ho preparato davanti a me. Cerco anche di apparecchiare nel modo giusto. Inizio a mangiare e, allora, mi accorgo di essere solo.                Termino velocemente il mio pasto, ammucchio i piatti nel lavabo in cucina, sorseggio un caffè di mala voglia e poi mi metto a letto a riposare. La televisione mi fa compagnia. Guardo la partita della mia squadra del cuore e cerco di prendere sonno.               Così è tutte le domeniche e così sarà tutte le domeniche che verranno.                                                                          Enrico