Classe '53

Nebbie


Mai come quest'anno, a Milano, c'è una nebbia da tagliare a fette. Di giorno avvolge case e tetti, alberi e gru in lontananza, speri invano che il sole riesca a bucare quella coltre spessa e lattiginosa, niente, non filtra niente, il grigio nebuloso permane. Di sera entra come un ectoplasma dalle finestre aperte per un attimo, il tempo di chiudere gli scuri. Ricordo, tanto tempo fa, una sciata a Gressoney, in compagnia. La nebbia si era levata all'improvviso, la pista si snodava ai margini del bosco, si rischiava ad ogni curva di finire contro un larice o un abete. Procedevamo in fila indiana, i più esperti davanti, gli altri, me compresa, dietro, a pochi metri l'uno dall'altro, in un silenzio esasperato, solo l'attrito degli sci sulla neve. O un viaggio in macchina, i bambini ancora piccoli, il cane cucciolo anche lui che uggiolava nella cesta, la strada scomparsa insieme al paesaggio e alla segnalatica, solo la riga bianca sulla strada visibile quando ci passavi su e la sagoma incerta della macchina davanti che procedeva a passo d'uomo. Forse la raffigurazione più poetica della nebbia ce l'ha data Federico Fellini, in Amarcord, con il vecchietto che non trova più la sua casa. Tutti i punti di riferimento scomparsi, i contorni sfumati, solo l'ignoto da sfiorare, la paura che ti entra nelle ossa insieme all'umidità. Tanto da fargli dire, nello spugnoso dialetto romagnolo: Se la morte è così non è un bel lavoro...