VOGLIA DI VOLARE

Canto primo


La guerra dei topi e delle rane (Canto primo) Grande impresa disegno, arduo lavoro:O Muse, voi dall’Eliconie cimeA me scendete, il vostro aiuto imploro:Datemi vago stil, carme sublime:Antica lite io canto, opre lontane,La Battaglia dei topi e delle rane.Sulle ginocchia ho le mie carte, or fateChe nota a ogni mortal sia l’opra mia,Che alla più lenta, alla più tarda etateSalva pur giunga, e che di quanto fiaChe sulle carte a voi sacrate io scriva,La fama sempre e la memoria viva.I nati già dal suol vasti giganti,Di que’ topi imitò la razza audace,Da nobil fuoco accesi, ira spirantiVennero al campo, e se non è mendaceIl grido che tuttor va per la terra,Questa l’origin fu di quella guerra.Un topo un dì, fra’ topi il più ben fatto,Venne d’un lago alla fangosa sponda:Scampato egli era allor da un tristo gatto,E calmava il timor colla fresc’onda:Mentre beveva, un garrulo ranocchioDalla palude a lui rivolse l’occhio.Se gli fece dappresso, e a dirgli prese:A che venisti? donde qua? straniero,Di qual nazione sei, di qual paese?Qual è l’origin tua? narrami il vero;Che se dabben ritroverotti e umano,Valicar ti farò questo pantano.Io guida ti sarò, meco verraiAlle mie terre ed al palazzo mio;Quivi ospitali e ricchi doni avrai,Che Gonfiagote, il gran Signor son io;Ho sullo stagno autorità sovrana,E mi rispetta e venera ogni rana.La Donna già mi partorì dell’acque,Che, per amor, dell’Eridano in rivaCon Fango il mio gran padre un dì si giacque:Ma bel corpo hai tu pur, faccia giuliva,Sembri possente Re, prode guerriero;Su via dimmi chi sei, parla sincero.Rispose il topo: Amico, e che mai brami?Non v’ha Dio che m’ignori, augello, o uomo,E pur tu vuoi saper come mi chiami?Or bene, Rubabriciole io mi nomo;Il mio buon padre Rodipan si appella,Topo di raro cor, d’anima bella.Mia madre è Leccamacine, la figliaDel rinomato Re Mangiaprosciutti.Con gioia universal della famigliaMi partorì dentro una buca, e tuttiI più squisiti cibi, e noci, e fichiFuro il mio pasto in que’ bei giorni antichi.Ma come vuoi che amico tuo diventi,Se di noi sì diversa è la natura?Tu di vagar per l’acqua ti contenti;D’ogni vivanda io fo mia nutritura,Di quanto mangia l’uom gustare ho in uso,Luogo non avvi, ove non ficchi il muso.Rodo il più bianco pane e il più ben cotto,Che dal suo cesto la mia fame invita,Buoni bocconi di focaccia inghiottoDi granelli di sesamo condita,E fette di prosciutto e fegatelliCon bianca veste ingrassanmi i budelli.Appena fu compresso il dolce latte,Assaggio il cacio fabbricato appena;Frugo cucine e visito pignatte,E quanto all’uomo apprestasi per cena.È mio qualunque cibo inzuccherato,Che Giove stesso invidia al mio palato.Non temo delle pugne il fiero aspetto,Ma mi fo innanzi, e al ferro mi presento.Spesso dell’uomo insinuomi nel letto:Benché sì grande, ei non mi dà spavento.Del piè rodergli un dito ho fin l’ardire,Ed ei nol sente, e seguita a dormire.Due cose io temo, lo sparvier maligno,E il gatto, ch’è per noi sempre in agguato.Misero è ben chi cade in quell’ordigno,Che trappola si chiama; egli è spacciato:Ma il gatto più che mai mi fa paura,Da cui buca non v’ha che sia sicura.Non mangio ravanelli, o zucche, o biete;Questi cibi non son per il mio dente:E pur nell’acqua voi null’altro avete:Ben volentieri ve ne fo presente.Rise la rana, e disse: Hai molta boria,Ma dal ventre ti vien tutta la gloria.Hanno i ranocchi ancor leggiadre coseE negli stagni loro e fuor dell’onde.Ciascun di noi sopra le sponde erboseScherza a sua posta, o nel pantan s’asconde,Ch’alle ranocchie mie dal ciel fu datoViver nell’acqua e saltellar nel prato.Se vuoi vedere or quanto il nuoto piaccia,Montami sulla schiena, abbi giudizio,Sta saldo, e al collo gettami le braccia,Onde a cader non abbi a precipizio;Così senz’alcun rischio a casa miaMeco verrai per quest’ignota via.Sì disse, e tosto gli omeri gli porse;Saltovvi il topo, e colle mani il colloDel ranocchio abbracciò, che via sen corse,E sulle spalle seco trasportollo.Ridea dapprima il sorcio malaccorto,Che si vedeva ancor vicino al porto.Ma poi che in mezzo del pantan trovossi,E che la riva omai vide lontana,Conobbe il rischio, si pentì, turbossi.Forte co’ piè stringevasi alla rana,Col pianto si dolea, svelleva i crini,Il suo fallo accusava ed i destini.Pregava i Numi, e in suo soccorso il cieloChiamava, e già credevasi all’estremo,Tremava tutto, ed avea molle il pelo;Stese la coda in acqua, e come un remoDietro se la traea, girando l’occhioOra alla riva opposta, ora al ranocchio.Pallido disse alfin: Che reo cammino,Che strada è questa mai! quando alla meta,Deh quando arriverem! quel bue divinoNo così non condusse Europa in Creta,Portandola per mar sopra la schiena,Come ora a casa sua questi mi mena.Dicea: quand’ecco fuor della sua tanaCon alto collo un serpe uscir sull’onda.Il topo inorridì, gelò la rana;Ma questa giù nell’acque si profonda,Fugge il periglio, e il topo sventuratoVittima lascia al suo funesto fato.Cade sull’acqua, e vòlto sottosopraIl miserel teneramente stride,Col corpo e colle zampe invan s’adopraPer sostenersi a galla; or poi che videCh’era già molle, e che il suo proprio pondoDel lago già lo strascinava al fondo:Co’ calci la fatale onda spingendo,Disse con fioca voce: alfin sei pago,Barbaro Gonfiagote, intendo, intendoI tradimenti tuoi; su questo lagoMi traesti per vincermi sui flutti,Che vano era affrontarmi a piedi asciutti.Tu mi cedevi in lotta e al corso, e m’haiQua condotto a morir per nera invidia,Ma dagli Dei giusta mercede avrai,I topi puniran la tua perfidia;Veggo le schiere, veggo l’armi e l’ira,Vendicato sarò. Sì dice, e spira.(continua)vai al Canto secondo ►