LA SCRITTA SULLO ZERBINO
"Manners maketh man. "
William of Wykeham, Motto of Winchester College and New College, Oxford
ISTRUZIONI PER L'USO
Questo 'Diario clandestino' è talmente clandestino che non è neppure un diario. E ciò sia detto a parziale rettifica del titolo e a conforto di chi, leggendo la parola 'diario', drizza sospettoso le orecchie.
Non è un diario, uno dei soliti diari dove si può leggere che il tal giorno il protagonista ha fatto la tal cosa, il tal giorno ha pensato la talaltra e via discorrendo; uno dei soliti diari in cui l'autore si mette al centro dell'universo come se egli ne costituisse il perno.
(Guareschi, 'Diario clandestino', 1949)
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Cosa rappresenta la nostra esistenza? Cosa rappresenta per noi? Cosa rappresenta per gli altri? E (soprattutto) cosa intendiamo rappresentare con la nostra esistenza? Tornando con la memoria a quella frase in cui si diceva di rendere la propria esistenza un'opera d'arte (era Papà, ovviamente), ecco, quello sarebbe un ottimo proposito, un anelito ambizioso, una direzione a cui tendere. Penso spesso all'esistenza in forma di una traiettoria. Una traiettoria nello spazio, non solo su un misero foglio di carta. Di più, una traiettoria nello spaziotempo. La visualizzo nel volo di un piccolissimo moscerino. Apparentemente senza scopo, senza meta, senza ordine. Con questo (illusorio, forse colpevole) desiderio di volerlo razionalizzare a tutti i costi, demonizzando le passioni, le emozioni, gli sbalzi d'umore. Cercando di sotterrare la realtà che è fatta di una materia corporea che comanda e non la mente (che in fondo è corporea), nè soprattutto lo spirito (che non esiste). Ho attraversato gli ultimi mesi in una enorme rinascita fisica, a cui è seguita quella emotiva e affettiva. E ho tralasciato, eliminato tante altre cose e tante altre persone. Non ho grandi rimpianti: oggi posso fumare quando lo desidero (e lo desidero molto di rado), posso bere quando lo desidero (quasi mai ultimamente) e cerco di vedere persone che mi trasmettano qualcosa e non solo, non più per riempire del tempo. Forse per questo ho meno argomenti da affidare al mio Diario, meno situazioni assurde, meno immaginazione probabilmente e minori fonti di ispirazione.
Però ho letto ultimamente due libri decisamente interessanti che raccomando ai lettori che passano. Il primo è 'Lo sguardo estraneo' di Herta Muller, osservazione forse ridondante visto che è stato il Premio Nobel per la Letteratura nel 2009, ma di rado, molto di rado ho avuto modo di trovarmi di fronte ad un modo di scrivere veramente originale. E che mi ha colpito. Il secondo (confesso di non averlo ancora ultimato) è 'Come mi batte forte il tuo cuore' di Benedetta Tobagi: esatto, figlia di. Walter Tobagi, giornalista assassinato nel 1980. Già. Gli 'anni di piombo' a cui, man mano che passano gli anni, sento un debito di inconsapevolezza. Continua a crescere in me il desiderio di sapere, sapere di più su quelli che è accaduto in Italia alla fine degli Anni Sessanta e Settanta, mentre io ero un ragazzino e sì, sentivo di rapimenti, violenze, arresti, omicidi e stragi, ma ne ero inconsapevole. Questo libro è molto di più. Benedetta non ha praticamente conosciuto il padre, assassinato quando lei aveva tre anni, e traccia in questa sua opera la ricerca, sociologica, antropologica e, ovviamente, psicologica e affettiva della figura paterna. Provo molto affetto nei confronti della scrittrice pur non conoscendola affatto. Non solo e non tanto perchè 'orfana di stato', ma per come plasma il tema esteriore ed interiore, tema che è giocoforza privato ma è totalitariamente anche pubblico. Brava Benedetta.
Il lucchetto serve a rinchiudere. A proteggere dallo sguardo e dall'uso degli altri. Dall'uso di chi non ha le chiavi. Ma è poca cosa. Un lucchetto si svelle in un attimo.
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