Creato da Henry.Wotton il 05/05/2006

Diario clandestino

Il diario di Lord Henry

 

 

Il 'bellimbusto'

Post n°926 pubblicato il 18 Dicembre 2009 da Henry.Wotton
 
Tag: Avvisi
Foto di Henry.Wotton

Di tante cose potrei scrivere, anche se dopo il macigno dello scritto precedente diventa arduo. Quello è stato veramente liberatorio, profondamente liberatorio. Non certo una guarigione, tantomeno un'espiazione: in fondo non c'è nulla di cui guarire e nulla da espiare. 'E' la mia natura!', direbbe lo scorpione. Allora oggi dopo parecchio tempo torno a scrivere per ricordarmi nel futuro che nelle ultime settimane ho fatto cose che non facevo da secoli e mi sono aperto come non mai. E sono stato bene. Sto bene.

 
 
 

La perfezione

Post n°925 pubblicato il 27 Novembre 2009 da Henry.Wotton
 
Foto di Henry.Wotton

Sabbia. Arida. Apparente perfezione candida tutt’intorno. Ma la vita, la vera vita, dov’è? Lo sguardo scorre ovunque senza scorgerne traccia. Eppure esiste. Deve esistere. Per certo è esistita qui. Con questi occhi osservo intorno a me e dentro di me, con un dolore immenso che non riesce ad uscire. Che non voglio far uscire. Nascosto dietro a lenti scure. Dietro alla grinta palesata ma che è di maniera, svogliata. Qualche giorno fa in un incontro di lavoro, sommerso da parole, dalla logorrea del mio interlocutore non ho fatto altro che staccare la spina. Era tutto vuoto, non aveva un sento. E una sera, invece, una telefonata mi ha commosso. Avrei voluto piangere, avrei dovuto piangere e singhiozzare e maledire la vita. Ma no, invece: la fierezza, l’orgoglio, la maschera, il carapace, tutto ha preso il sopravvento. Prende sempre il sopravvento. Su un animo che è diventato sempre più insensibile, su un animo che avrebbe voglia di infiammarsi. Ma non riesco. Mi sporgo spesso oltre al parapetto, ma non resisto all’urto dei marosi freddi che sferzano il mio volto e mi ritiro nella mia cabina. Già. La mia cabina. Lussuosa, lussuriosa, accogliente, accarezzata costantemente dalla passione e dal desiderio, ma quanto genuini? Temo di conoscere la risposta a questa domanda e non è piacevole ammetterlo. Un abbraccio giorni fa non avrebbe dovuto interrompersi: quello era genuino. Quella è stata la parte più vera della mia vita, dei miei sentimenti. Eppure continuo a vivere le mie sensazioni come un giocatore inetto al tavolo della roulette, certo delle poche fiches tra le proprie dita e indeciso sul numero su cui riporle. Altre puntate sono andate. Ne restano sempre meno. Una basterebbe a dare la svolta. Arido, refrattario al rischio, stringo nervosamente quei piccoli dischi di plastica come se fossero la vita. Non sono la vita neppure quelli. Cosa è la vita, allora? Consumare tempo e polpastrelli sulla tastiera, forse? Ho bruciato tante persone, continuo a farlo e persisto a cercarle per poi avvelenarle. Non ho bisogno di un ritratto in soffitta per ricordarmi la forma della mia anima, tutto è impresso indelebilmente. Come si fa ad essere generosi? Io non lo so. Lavoro sulla forma, continuo a plasmarla con il mio personalissimo stile. Penso a quell’opera plastica ed aggettata del mio scultore preferito che ho potuto osservare giorni orsono. Una nuova persona all’orizzonte, è inevitabile. Sei pronta dall’essere deliziata e martoriata? Sei pronta a scivolare inevitabilmente sulle pareti verticali della mia sicurezza? Sei pronta ad ascoltare il mio silenzio quando mi chiederai aiuto? Temo di no, ma non farò nulla affinchè tu eviti il tuo destino per finire in quella fossa comune ormai così popolata. Non ho voglia di ridere, ma lo faccio. Non ho voglia di uscire, ma lo faccio. Non ho voglia di discutere, ma lo faccio. Non credo in nulla. Ho dovuto imparare una nuova dimensione negli ultimi anni e sono riuscito a capire che era giusto, bello, opportuno ricostruire una dimensione di edonismo individuale: eccome l’ho imparato. E’ così semplice elargire piacere assoluto per poche notti, infliggendo ferite che resteranno nel tempo. L’altra mattina le lacrime di una persona mi hanno segnato ma non così tanto da fare in realtà alcunché. Torno a pensare che tra adulti ognuno è per sé e che i propri sbagli si debbano scontare in prima persona. Arrivo al punto di avvisare prima, ma vi attaccate ancora di più a me: non riuscite a capire che vi tengo per i capelli e che soffrite e che soprattutto al primo broncio infantile aprirò la mano? La mia sterilità è questa: ho ammassato buon gusto, oggetti, stile, cultura, libri, opere d’arte, luoghi, ne sono ricchissimo ma vi lascio guardare e non toccare, vi lascio assaggiare ma non vi sfamo. Ho ricevuto molto e dato poco in cambio. Sere fa mi è stato detto che è arrivato il momento di diventare buono. Si rideva ma al solito il commento di quella persona su di me è centrato. Riesce a guardare dritto dentro alle mie pupille e scorgere quel ritratto osceno che è chiuso dentro. Ci sono stati momenti belli, ci sono e ce ne saranno. Ma ho visto da troppo poco tempo un corpo consunto lottare per restare aggrappato alla vita: io pensavo che tu lottassi ancora un po’ e pensavo che, come hai sempre fatto, vincessi anche questa sfida. Invece no. La mattina successiva niente lotta, solo un corpo freddo, sempre più rigido, sempre più grigio. Una realtà irreale, perché è una contraddizione. Non può essere così, non deve essere così. Ci sono persone che mi sono vicine ma che hanno l’accortezza, la saggezza o anche solo la pigrizia che li mantiene ad una debita distanza. Le conosco una a una, conosco i loro nomi. Per loro riesco a provare un moderato riguardo, pur con la tentazione frequente di avvicinarmi e divorarli. La pelle raggrinzisce. La forza decade. La cattiveria temo di no.

siva uvaca (siva said)

smu devi pravaksyami kunjika stotram uttamam yena mantraprabhavena candijapah subho bhavet

(Listen, Oh Goddess, while i elucidate the excellent song which gives the key to perfection. By means of the brilliance of these mantras, the meditation of the goddess Chandi becomes easy)

na kavacam nargala stotram kilakam na rahasyakam na suktam napi dhyanam ca na nyaso na ca varcanam

(Not the armor, nor the praise which unlocks the bolt, nor the praise which removes the pin, nor the secrets: neither the hymns, nor even the meditations, nor the establishment of the mantras into the body nor the offering of worship and adoration)

kunjika patha matrena durga phalam labhet
ati guhyataram devi devanamapi durlabham

(The recitation of the mantras which give the key will grant the fruits of the recitation of the glory of the goddess. Oh Goddess, this is extremely secretive and difficult even for the Gods to attain.)

gopaniyam prayatnena svayoniriva parvati maranam mohanam vasyam stambhanoccata nadikam
patha matrenam mohanam vasyam stambhanoccata nadikam
patha matrena samsiddhyet kunjika stotram uttamam

om aim hrim klim camundayai vicce om glaum hum klim jum sah jvalaya jvalaya jvala jvala
prajvala prajvala aim hrim klim camundayai vicce jvala ham sam lam ksam phat svaha

namaste rudra rupinyai namaste madhu mardini namah kaitabha harinyai namaste mahisardini

namaste sumbha hantryai ca nisumbhasuraghatini

jagratam hi maha devi japam siddham kurusve me aimkari srsti rupayai hrimkari prati palikwa

klimkarf kama rupinyai bija rupe namo stu te camunda canda ghati ca yai kari varadayini

vicce cabhayada nityam namaste mantra rupini

dham dhim dhum dhurjateh patni vam vim vum vagadhisvari
kram krim krum kalika devi sam sim sum me subham kuru

hum hum humkara rupinyai jam jam jam jambhanadini
bhram bhrim bhrum bhairavi bhadre bhavanyai te namo namah

am kam cam tam tam pam yam sam vim dum aim vim ham ksam
dhijagram dhijagram trotaya trotaya diptam kuru kuru svaha

pam pim pum parvati purna kham khim khum khecarf tatha

sam sim sum saptasati devya mantra siddhim kurusva me

idam tu kunjika strotram mantra jagarti hetave abhakte naiva datavyam gopitam raksa parvati

yastu kunjikaya devi hinam saptasatim pathet na tasya jayate siddhir aranye rodanam yatha

om aim hrim klim camundayai vicce
om glaum hum klim jum sah jvalaya jvalaya jvala jvala prajvala prajvala aim hrim lim camundayai vicce jvala ham sam lam ksam phat svaha.

(D. Sylvian, 'The song which gives the key to perfection')

 
 
 

Blancmange

Post n°924 pubblicato il 17 Novembre 2009 da Henry.Wotton
 
Tag: Diario
Foto di Henry.Wotton

E' come avere davanti a sè un piatto da dessert con un morbido, tenero biancomangiare. Impugno il cucchiaino e lo affondo nella sua gradevole consistenza. La sensazione è piacevole, confermata dalle sensazioni tattili con le labbra, con la lingua e con il palato. Poi il gusto. Questo assaggio dura da oltre tre anni, nato da una combinazione letale di fattori che avrebbero esaurito moltissime persone. Io mi sono rifugiato nella cucina e ho creato un biancomangiare. Giorno su giorno. Riga su riga. Parola su parola. Ho messo dentro tutto di me, tutto quello che non si vede, tutto quello che non si sente. Ora una delle cause è venuta a cessare e la mia vita cambierà ancora, anche se non me ne rendo conto ma da domenica sarà già lampante. Lo è già stasera, quando mi dirigerò direttamente a casa, saltando quella tappa intermedia che nell'ultimo mese ho [quasi] sempre fatto. E mi chiedo se mancando un ingrediente così importante, come il latte o lo zucchero [o chennesò? Io non conosco la ricetta, la cucino e basta], se non sia meglio chiudere questo lungo capitolo, perchè forse tutto sta cedendo. E' diverso, io sono diverso. C'è stato un periodo in questi giorni in cui avrei voluto scrivere di un vetro appannato, e non ne ho avuto tempo o non ne ho avuto modo. Avrei voluto spiegare che era bello da bambini avere un vetro appannato di fronte a sè: io ci disegnavo e ci scrivevo, poi ci soffiavo sopra e tutto si cancellava e, come una lavagna magica, si poteva ricominciare. Non più da bambino, il vetro appannato porta meno gioia. La contingenza recente che ha portato questo appannamento mi ha fatto capire chi era intorno a me, vicino vicino, e chi non lo era. Perchè a volte vederci poco è un vantaggio e si può capire su chi si possa realmente contare. Poi ho ragionato sull'egoismo. Grande parola. Grande tema. Sono un grande egoista. E lo dichiaro. Non lo nascondo sotto le frasche della generosità e dell'amore per il prossimo. Quanti generosissimi egoisti esistono! Poi ancora prima avrei voluto scrivere dell'ingratitudine, così fieramente descritta da Morrissey, e così pubblicamente reietta al giorno d'oggi. Ma esiste. Io vivo. Sbando. Ho sbandato tanto in questi anni. Colpito incessantemente dal maglio degli eventi avversi. Potrei definirlo il millennio del maglio. Ma sono qui. Oggi mi sento artificialmente sotto vetro, le mie sensazioni svuotate, la mia bocca come quella di un'automa. Svogliato. E provato dagli ultimi avvenimenti. Il telefono che squilla troppo spesso e io non ho intenzione di rispondere, mentre cerco di assaporare le ultime cucchiaiate di questo biancomangiare.

 
 
 

Una coppia di Marlboro in un pacchetto da dieci

Post n°923 pubblicato il 10 Novembre 2009 da Henry.Wotton
 
Tag: Diario
Foto di Henry.Wotton

Mesi fa, ce ne erano due, proprio due, in un piccolo pacchetto da dieci. Erano lì, in bella mostra all'ingresso a fare da monito, insieme ad un buffo accendino. A dire: 'Mai, mai, mai più!' Ma anche a sbandierare un evento, a testimoniare un'emozione. Si sono difese strenuamente per giorni e giorni poi l'oblio, l'ingratitudine, la debolezza, l'incostanza se le sono divorate. Con un rimpianto che dura ancora oggi, quando chiudo gli occhi e guardo in alto o mentre mi giro a destra a guardare le vetrine. Inghiottito il sentimento, svanito il tempo, (s)fumate le sigarette. Solo un proposito è rimasto vivo da allora ed è un bene che sia così. E così i chilometri sono passati, correndo tra i viali e bofonchiando con le orecchie intasate da musica ad alto volume, oppure pedalando verso panorami sempre più distanti, sempre più piacevoli. Sforzi che pagano, questi sì. Giorni fa, ancora, a rinsaldare un nuovo gradino sulla stessa via, di nuovo sono ricomparse due Marlboro in un piccolo pacchetto da dieci. Nello stesso posto. Solo a testimoniare quel proposito, a rinsaldarne l'impegno. Null'altro. Oggi in quel piccolo pacchetto da dieci ne è rimasta una sola.

 
 
 

Pol - Pot

Post n°922 pubblicato il 08 Novembre 2009 da Henry.Wotton
 
Tag: Musica
Foto di Henry.Wotton

'So you been to school
For a year or two
And you know you've seen it all
In daddy's car
Thinkin' you'll go far
Back east your type don't crawl

Play ethnicky jazz
To parade your snazz
On your five grand stereo
Braggin' that you know
How the niggers feel cold
And the slums got so much soul

It's time to taste what you most fear
Right Guard will not help you here
Brace yourself, my dear:

It's a holiday in Cambodia
It's tough, kid, but it's life
It's a holiday in Cambodia
Don't forget to pack a wife

You're a star-belly sneech
You suck like a leach
You want everyone to act like you
Kiss ass while you bitch
So you can get rich
But your boss gets richer off you

Well you'll work harder
With a gun in your back
For a bowl of rice a day
Slave for soldiers
Till you starve
Then your head is skewered on a stake

Now you can go where people are one
Now you can go where they get things done
What you need, my son:.

Is a holiday in Cambodia
Where people dress in black
A holiday in Cambodia
Where you'll kiss ass or crack

Pol Pot, Pol Pot, Pol Pot, Pol Pot, [etc]

And it's a holiday in Cambodia
Where you'll do what you're told
A holiday in Cambodia
Where the slums got so much soul'

(Dead Kennedys, 'Holiday in Cambodia')

 
 
 

Senza Titolo

Post n°921 pubblicato il 29 Ottobre 2009 da Henry.Wotton
 

Mio padre sta morendo. Non è un'ovvietà melodrammatica. Gli dicevo che se non fosse arrivato a cento anni gli avrei tolto il saluto. E' così. E non sarà quel lento consumarsi a cui avevo ormai fatto il callo, settimana su settimana, domenica su domenica. Accadrà da un momento all'altro e mai sarò pronto. Per me sparirà la persona più importante mai esistita sulla terra, nei secoli dei secoli, nella storia dell'umanità. La persona che più ha influenzato la mia vita,  che l'ha più orientata, che più l'ha ispirata. Una persona che a differenza di miliardi di altre può dire di aver lasciato un segno significativo nelle esistenze di tanti suoi simili. Che può affermare [a differenza mia] di aver fatto del bene. Che ha amato. Che ha costruito. E io rimarrò solo. E vuoto. Vecchio. Mi sono specchiato prima: abbronzato, in forma, mi sono sorpreso del mio apparire. Ma sono vecchio. E vuoto. Mio padre sta morendo.

 
 
 

Stop!

Post n°920 pubblicato il 25 Ottobre 2009 da Henry.Wotton
 
Foto di Henry.Wotton

Le mie palpebre sono appesantite dalle pochissime ore di sonno di questi giorni, tutto sotto controllo però. 'Tutto bene' sinchè il cuore batte e la mente elabora. E la mente elabora. Elabora parecchio in questo periodo. E soprattutto ha elaborato di volerne venire a capo. Di smettere. Non ne vale la pena. Troppo ho corso, pensato, scritto, parlato, troppo per un piccolo uomo come me.Quindi 'tutto bene' e senza rimpianti, perchè il percorso è stato fatto. Merito altro, merito di meglio. Sono merce pregiata.

'I decree today that life is simply taking and not giving'

 
 
 

Dita che si intrecciano, vite che si sciolgono

Post n°919 pubblicato il 24 Ottobre 2009 da Henry.Wotton
 
Foto di Henry.Wotton

E' nella quiete di quest'ora tarda che riesco a fissare qualche semplice groviglio di pensieri, la quiete è fuori, il tumulto è dentro. Luci basse e splendide immagini. Un attimo o forse no, una maratona estenuante. Una lotta contro gli istinti, una disciplina ferrea che impone una dieta ai sentimenti. Mantenere questa disciplina mi pesa interiormente, spesso ormai riesco a sopportare quest'oppressione sul mio sterno, piccolo e fragile. Per alcuni istanti le barriere sono cadute facendo fiorire il più semplice dei gesti più intimi. Un piccolo istante in cui pur le forme si sono esplorate, cercate, intrecciate. Gesti che non si ripetevano da tempo. Intesa indecifrabile. Rinchiuso nel mio angolo, attendo che questi episodi si ripetano anche se, scosse di assestamento tellurico, dopo un terremoto si diradano come frequenza e come intensità.  Oppure no. Ma tutto si cancella e tutto si riscrive. Sentire il mio nome pronunciato per esteso è una chiave di lettura che mi fa intedere l'evolvere di un nuovo episodio. Hard life. Come nel suo preludio, blueprint di un attacco operistico. Penso sempre più spesso in questi giorni che siamo vicini al punto di non ritorno. Alla separazione. Al momento in cui metterò il dito sul pulsante, dopo aver lanciato l'aereo a velocità folle, per eiettare il mio seggiolino. E per paracadutarmi chissà dove. Forse cadrò male, ma sopravviverò. Con qualche contusione che mi salverà da strascichi più seri. Devo guardare davanti a me, sempre più incerto di vedere ancora una silhouette snella che mi porge fresche bevande nella torrida estate. O in una fresca piazza dopo il temporale. Sono stanco e devo riposare e devo riprendere il mio nuovo regime. E' importante per me stesso. Ma come scordare adesso queste sensazioni? Accetto di essere ancora alla deriva. Confuso e stordito. Non sono ancora pronto. Ho ancora bisogno di tempo, anche se il tempo diventa metronomo di confusione perchè, come allento la presa, le dita si intrecciano ancora.

 
 
 

Zelda

Post n°918 pubblicato il 19 Ottobre 2009 da Henry.Wotton
Foto di Henry.Wotton

Ghiaccio. Può aiutare a zoppicare meno. Ma come nella pellicola forse lo zoppo finge. E forse come in quella successiva il protagonista indossa una maschera. Per non farsi riconoscere. Per non farsi riconoscere. Una città buia. Una città fredda. E il tempo che manca sempre. E il tempo che si sciupa clamorosamente. Io non mi ci ritrovo. Io non (mi) capisco. Che sia noia? Che sia paura della solitudine? Che sia ...? Entri. Entro. Vestito informale. Vestita preppy. Che valenza può avere una presenza in casa? Parrebbe abitudine, quell'abitudine che abbiamo perso. Io, veramente, perso volontariamente più di una volta. Dunque? Altre ore spese a ribadire mentalmente gli stessi pensieri. Dopo. Un canyon, in mezzo. Profondissimo, la roccia si sgretola e se ne sollevano nuvole rosse come il fuoco. Stasera ancora? E domani sera? E sabato? E quando ancora? Cosa sta succedendo? E quali ripetitive domande continuo a pormi? Quando la risposta è semplicemente lì, sarebbe sufficiente allungare la mano. Di poco. E stringere il pugno, per vedere cosa è rimasto tra le dita. E se fosse nulla? Perchè averne timore, non è una delle eventualità della vita? Neppure forse la peggiore possibile, in fondo. C'è l'alibi della fuga e l'alibi della persistenza. Ogni azione ha una doppia valenza, riconducibile solo con il senno di poi. E' [stata] una questione di millimetri. O di istanti. O forse di millimetri e di istanti. In fondo sono queste le due uniche variabili oggettivamente veritiere nella nostra esistenza. Come il football, è una questione di inches. A cosa serve il repertorio? Forse serve. Almeno a non essere completamente glabri. Ad avere qualche protezione, nelle parti più sensibili. O, al contrario, ad attrarre come un leone con la sua chioma fluente. Esci. Esco. Non avevo l'amaro in bocca. E' un modo delicato di soffrire.

 
 
 

Fabrizio De Andrè

Post n°917 pubblicato il 17 Ottobre 2009 da Henry.Wotton
 
Tag: Geni
Foto di Henry.Wotton

Fabrizio Cristiano De André nacque a Genova Pegli, in via De Nicolay 12, il 18 febbraio 1940. Leggenda vuole che sul grammofono di casa, per alleviare le doglie della moglie, il professor Giuseppe De André mettesse il Valzer campestre di Gino Marinuzzi, da cui anni dopo Fabrizio avrebbe tratto spunto per uno dei suoi primi brani, Valzer per un amore.

A causa della guerra, che aveva indotto molta gente a sfollare, trascorse i primissimi anni della sua vita nella casa di campagna di Revignano d'Asti, in compagnia della madre (Luisa Amerio), del fratello Mauro e delle due nonne, mentre il padre fu costretto alla macchia per sfuggire ai fascisti che lo braccavano.

Quel breve periodo fu sicuramente uno dei più importanti e formativi per lui: per il tipo di vita che condusse, libero e spensierato, e per alcuni incontri determinanti, come quello col fattore Emilio Fassio, che gli trasmise l'amore per gli animali e per un ambiente che Fabrizio ricercherà per tutta la vita. L'infanzia a Revignano d'Asti e i personaggi che la popolarono - come la piccola Nina Manfieri (cui molti anni dopo dedicherà la canzone Ho visto Nina volare) o i contadini Emilio e Felicina Fassio - rimarranno fonte di rimpianto e di ispirazione fino alla sua ultimissima produzione.

Come ha raccontato la madre, "Fabrizio era felicissimo di correre per i campi, di seguire i contadini nel lavoro, di andare a caccia con loro... Finita la guerra eravamo tutti felici di ritornare in città. Lui era disperato... Aveva cinque anni. Fu una dura sofferenza per lui, abituato com'era a correre libero per i prati... Fin da piccolo non sopportava di veder la gente soffrire. Quando uscivamo insieme, ogni volta che incontravamo un mendicante mi obbligava a fermarmi e a dargli dei soldi" [In queste ultime parole emerge la spontaneità, direi quasi l'innatezza della dimensione solidaristica del futuro anarchico].

Al termine del conflitto, la famiglia ritornò a Genova stabilendosi nella nuova casa di Via Trieste 13 . Nell'ottobre del 1946 Fabrizio fu iscritto alla prima elementare presso l'Istituto delle suore Marcelline, che egli - manifestando fin da allora l'insofferenza agli spazi ristretti e alla disciplina, ma anche una vena ironica che saprà spesso trasformarsi in autoironia - ribattezzò "Porcelline". Vani essendo risultati i tentativi delle monache di indurlo a studiare, i suoi decisero di iscriverlo per l'anno successivo a una scuola statale: Fabrizio iniziò così la seconda elementare alla scuola Armando Diaz, in via Cesare Battisti 5.

Nell'agosto 1948, a Pocol, sopra Cortina, incontrò per la prima volta Paolo Villaggio, allora sedicenne. I due simpatizzarono subito, ma i sette anni di differenza non permisero allora che quella simpatia sfociasse in una vera e propria amicizia. Paolo e Fabrizio si persero così di vista per ritrovarsi solo una decina di anni dopo sulle tavole di un palcoscenico; e da quel momento divennero inseparabili.

Nell'estate del 1950, terminata la quarta elementare, Fabrizio trascorse l'ultima vacanza a Revignano. Il professore aveva infatti deciso di vendere il cascinale e di acquistare un appartamento ad Asti. Fabrizio soffrì moltissimo, perché a quel luogo erano legati i suoi più bei ricordi d'infanzia. Dentro di sé decise che, una volta diventato grande, avrebbe ricomprato il cascinale e comunque non avrebbe abbandonato quei posti che tanto amava. Quel desiderio lo avrebbe accompagnato negli anni a venire e, agli amici che aveva (e che avrebbe avuto) non mancò di confidare il desiderio di un'azienda agricola tutta per sé. Anni dopo realizzerà questo sogno, anche se al di là del suo mare, in Sardegna.

Nell'ottobre del 1951 Fabrizio iniziò le medie alla Giovanni Pascoli, nello stesso complesso scolastico che ospitava le elementari Armando Diaz. Ma, attratto com'era dal gioco e dalla vita di strada, non mostrava interesse allo studio, tanto da rimediare una bocciatura in seconda. Il padre, infuriato, decise allora di affidarlo ai rigidissimi gesuiti della Arecco, ma un deprecabile episodio con un padre "bulicio" (omosessuale) lo indusse poi a fargli terminare le medie nell'Istituto Palazzi", di cui era proprietario.

"Dopo le medie - ha raccontato ancora la madre - si iscrisse al liceo classico Colombo, che frequentò regolarmente fino alla licenza. Nelle materie letterarie andava abbastanza bene, anche se non studiava molto, ma in quelle scientifiche faceva fatica. Comunque non faceva proprio nulla per prendersi un bel voto; gli bastava la sufficienza... La sua passione era sempre la musica. Aveva avuto in regalo una chitarra e non la lasciava mai, neppure quando andava in bagno... Incominciò a scrivere qualche canzone, a cantarla".

Proprio durante gli anni del liceo avvenne un'esperienza determinante per De Andrè: nella primavera del 1956, infatti, suo padre portò dalla Francia due 78 giri di Georges Brassens. Dall'incontro col grande cantautore francese, Fabrizio ricavò stimoli per la lettura di autori anarchici che non abbandonerà più: Bakunin e Malatesta, Kropotkin e Stirner. Inoltre, nel mondo cantato da Brassens, egli ritrovava quei personaggi così umili e veri che vivevano nei caruggi della sua città e che troveranno spazio, comprensione e dignità nelle sue canzoni.

De André si iscrisse anche all'università, ma le sue scelte confermarono la scarsa propensione agli studi "ufficiali": frequentò medicina, poi lettere e infine giurisprudenza, senza laurearsi. Le sue giornate trascorrevano infatti tra musica, letture (Villon e Dostoevskij, sempre Bakunin e Stirner) e, soprattutto, serate in compagnia degli amici Luigi Tenco, Gino Paoli, Paolo Villaggio e altri. Affermerà in seguito, ricordando quel tempo: "Ebbi ben presto abbastanza chiaro che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l'ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste, e l'illusione di poter partecipare, in qualche modo, a un cambiamento del mondo. La seconda si è sbriciolata ben presto, la prima rimane".

Intanto, nel 1958, aveva composto Nuvole barocche e E fu la notte, brani modesti scritti in collaborazione, che anni dopo Fabrizio definirà come "due peccati di gioventù". E infatti, già nell'estate del '60, scrisse insieme a Clelia Petracchi quella che ha sempre considerato la sua prima vera canzone, La ballata del Miche', che rimane, se non una delle più belle, una delle più note e, in considerazione dei soli vent'anni dell'autore, una delle più significative.

Nel luglio 1962 sposò Enrica Rignon (detta Puny) e il 29 dicembre dello stesso anno nacque il figlio Cristiano. Fabrizio aveva appena ventitue anni, una famiglia e, più che un lavoro, un hobby poco redditizio. Ma una svolta nella sua carriera si verificò nel 1965, allorché Mina interpretò una sua composizione, La canzone di Marinella, che divenne immediatamente un best seller e lo impose all'attenzione generale. "Mi arrivano seicentomila lire in un semestre (per quegli anni una somma davvero considerevole) - dichiarò Fabrizio in un'intervista. - Allora ho preso armi e bagagli, moglie, figlio e suocero e ci siamo trasferiti in Corso Italia, che era un quartiere chic di Genova. Quindi chiusa la storia con la laurea e con tutto il resto. Da quel momento, cominciai a pensare che forse le canzoni m'avrebbero reso di più e, soprattutto, divertito di più".

Sulla spinta di questo successo, nel 1966 vide la luce l'LP d'esordio: Tutto Fabrizio De André, contenente alcuni dei migliori brani scritti fino a quel momento, tra cui La canzone di Marinella, La guerra di Piero, Il testamento, La ballata del Miché, La canzone dell'amore perduto, La città vecchia, Carlo Martello.

Al 33 giri fece seguito nel 1967 Volume I, in cui spiccano Via del Campo, Bocca di rosa e Preghiera in gennaio: le prime due dedicate, con profondo senso di solidarietà e comprensione, a due figure di prostitute; la terza composta in occasione e a ricordo della tragica morte dell'amico Luigi Tenco, suicidatosi il 27 gennaio a Sanremo.

Con questo album si aprì la stagione più prolifica della carriera di De André; a breve distanza uno dall'altro uscirono infatti: Tutti morimmo a stento (1968), Volume III (1968), La buona novella (1970), Non al denaro non all'amore né al cielo (1971), Storia di un impiegato (1973), Canzoni (1974) e Volume VIII (1975).

Nel 1975 De André, che aveva sempre rifiutato il faccia a faccia col pubblico, esordì dal vivo nel locale simbolo della Versilia, "La Bussola". Nonostante i suoi timori (sembra che all'ultimo momento non volesse più salire sul palco), il concerto fu un vero e proprio successo.

Coi soldi guadagnati acquistò un'azienda agricola nelle vicinanze di Tempio Pausania, in Sardegna. E nel 1977, dall'unione con Dori Ghezzi (la cantante milanese alla quale si era legato dal 1974, dopo la separazione dalla prima moglie), nacque Luisa Vittoria, detta Luvi. Subito dopo uscirono gli album Rimini (album) (1978), scritto in collaborazione con Massimo Bubola, e In concerto con la PFM (1979).

La sera del 27 agosto 1979 Dori e Fabrizio furono sequestrati e rimasero prigionieri dell'Anonima per quattro mesi. La drammatica esperienza non cancellò tuttavia l'amore di Fabrizio per la sua terra d'adozione; tant'è vero che non vi è traccia di rancore nelle dichiarazioni da lui rilasciate dopo la liberazione: "I rapitori - disse - erano gentilissimi, quasi materni... Ricordo che uno di loro una sera aveva bevuto un po' di grappa di troppo e si lasciò andare fino a dire che non godeva certo della nostra situazione".

Il 29 ottobre 1980, all'età di sessant'anni, moriva l'amato Brassens, ucciso da un tumore. De André ebbe a dire un anno dopo, durante un'intervista concessa al quotidiano "La Stampa": "Pur avendone avuto la possibilità, non ho mai voluto conoscerlo personalmente, per evitare che diventasse una persona e magari scoprirlo anche antipatico. Per me è stato un mito, una guida, un esempio; è grazie a lui che mi sono avvicinato all'anarchismo. Egli rappresentava il superamento dei valori piccolo-borghesi e insegnò anche ai borghesi certe forme di rispetto ai quali non erano abituati. I suoi testi si possono leggere anche senza la musica. Per me è come leggere Socrate: ti insegna come comportarsi o, al minimo, come non comportarsi".

Dopo un periodo di riposo, il cantautore tornò all'attività con un album, Fabrizio De André (Indiano) (detto così per via del disegno di copertina), che contiene un brano, Hotel Supramonte, che è la rievocazione dei traumi e delle incertezze patiti durante il rapimento.

Nel 1984 uscì Creuza de mä (album), da molti critici considerato il suo capolavoro. Il disco, che gli valse numerosi premi e riconoscimenti e che venne presentato al pubblico nel corso di una memorabile tournée col figlio Cristiano e con Mauro Pagani (della PFM), evoca suoni, profumi, voci, odori e sapori di tutto il Mediterraneo, ma è soprattutto - come lo ha definito Luigi Viva - "un canto d'amore a Genova".

L'anno successivo Fabrizio fu colpito da un grave lutto: all'età di 72 anni moriva infatti suo padre, uomo influente e assai noto a Genova. In un'intervista all'amico Cesare G. Romana dirà: "Il problema non è che gli volevo bene, perché questo non finisce. Il problema è che lui ne voleva a me".
Pochi anni dopo, nell'estate del 1989, morì il fratello Mauro, colpito da aneurisma. Aveva appena 54 anni, e Fabrizio fu naturalmente scosso dalla terribile notizia: "Alla morte di mio padre, almeno, eravamo preparati: era anziano. Ma Mauro...".

Ci furono, però, anche momenti lieti, come il matrimonio con Dori Ghezzi, celebrato nel dicembre del 1989 dopo quindici anni di convivenza; e ci fu anche il matrimonio di Cristiano.

Nel 1990, dopo sei anni di silenzio, uscì il nuovo album Le nuvole (album), sicuramente il disco più apertamente politico di tutta la produzione del cantautore, che tocca il suo apice con La domenica delle salme.

Nel 1991, a distanza di sette anni dal suo ultimo tour, Fabrizio tornò a calcare il palcoscenico con rinnovato successo, traendone l'LP dal vivo Fabrizio De André 1991 - Concerti.

Nel 1992, anno delle Colombiane, Genova festeggiò con un'esposizione e lavori per svariati miliardi i cinquecento anni della scoperta dell'America: De André venne invitato a partecipare e ad esibirsi con Bob Dylan, ma rifiutò il benché minimo coinvolgimento, ricordando anzi lo sterminio degli Indiani d'America.

Il 3 gennaio 1995, all'età di ottantatré anni, venne a mancare la madre Luisa, unica della famiglia a morire di vecchiaia.

Nel 1996 uscì Anime salve, scritto in collaborazione con Ivano Fossati, che ruota intorno al duplice tema delle minoranze isolate e della solitudine. Nello stesso anno pubblica presso Einaudi Un destino ridicolo, romanzo scritto a quattro mani con Alessandro Gennari.

Nel 1997 fu pubblicato Mi innamoravo di tutto, raccolta di vecchi brani scelti dall'autore, fra cui spiccano la versione originale di Bocca di rosa e La canzone di Marinella cantata in duetto con Mina.

Nell'estate del 1998 fu costretto a interrompere il tour seguito ad Anime salve. La tac, eseguita il 25 agosto, non lasciava speranze: tumore ai polmoni.

Appena pochi mesi dopo, alle ore 2.15 di notte dell'11 gennaio 1999, Fabrizio moriva presso l'Istituto Tumori di Milano, dov'era ricoverato, assistito sino all'ultimo momento dai suoi cari.

Una folla commossa, di oltre diecimila persone, ha seguito i suoi funerali, svoltisi il 13 gennaio nella Basilica di Carignano, a Genova. Su quel mare di umanità svettavano la bandiera del Genoa (la sua squadra del cuore) e quella anarchica (a testimonianza e ricordo del suo "credo" politico, o meglio del suo "modo d'essere").

Riposa al cimitero di Staglieno, nella cappella di famiglia.

 
 
 

Capolavoro

Post n°916 pubblicato il 17 Ottobre 2009 da Henry.Wotton
 
Tag: Musica
Foto di Henry.Wotton

Ricordi sbocciavano le viole
con le nostre parole:
"non ci lasceremo mai,
mai e poi mai"
Vorrei dirti, ora, le stesse cose
ma come fan presto, amore,
ad appassire le rose
così per noi.
L'amore che strappa i capelli
é perduto ormai.
Non resta che qualche svogliata carezza
e un po' di tenerezza.
E quando ti troverai in mano
quei fiori appassiti
al sole di un aprile
ormai lontano li rimpiangerai.
Ma sarà la prima
che incontri per strada,
che tu coprirai d'oro
per un bacio mai dato,
per un amore nuovo
E sarà la prima che incontri per strada,
che tu coprirai d'oro
per un bacio mai dato,
per un amore nuovo.

(F. De Andrè, 'Canzone dell'amore perduto')

 
 
 

La prognosi

Post n°915 pubblicato il 15 Ottobre 2009 da Henry.Wotton
 
Foto di Henry.Wotton

Ho appena affermato che questo sia un periodo inconcludente della mia vita, cosa che è decisamente vera, quindi non desidero smentirmi. Rivedendo la pellicola in cui il protagonista paragona la propria ambizione con il proprio talento, ed afferma che sia la prima a prevalere [purtroppo per lui] non ho potuto esimermi dal calare questa frase con la mia esistenza attuale [o recente]. Sono ancora fermo, fermo a quello che ho scritto ormai parecchi brani fa e non riesco ad evolvere. Faccio anche poco per farlo sul serio. Qualcuno mi dice e ripete che sono spesso duro con me stesso: cosa che è vera ma in parte. Mi concedo vezzi, lussi, spese futili e spesso folli. L'altro giorno, per fortuna, ho strappato un abito alzandomi dalla poltrona in ufficio. Così l'ho buttato. Una piccola dose di ossigeno al mio armadio [ai miei armadi]. Per un capo che esce ne entrano in media cinque. Ancora devo mettere le stringhe all'ultimo paio di scarpe acquistate prima delle vacanze [e fatte arrivare con urgenza dall'Inghilterra perchè mi servivano]. Severo, quindi? Per molte cose sì: non mi perdono gli errori, non mi perdono le sconfitte, non mi perdono i pochissimi momenti di relax, non mi perdono il tempo libero perchè penso che potrei dedicarlo a cose [ma soprattutto a persone] migliori. Persone migliori. Questo è un punto su cui sto riflettendo. Su cui ho sempre riflettuto, in verità, da quando mio padre mi diceva che è importante essere con persone che valgono. Perchè si impara. Questo è diventato un mio credo, a volte non diretto nella giusta posizione, ma costante. Dopo un periodo di 'incubazione' [per causa maggiore, per così dire] ho rimesso in discussione le mie frequentazioni, ne ho riattivate di vecchie [con gratificazione ma con difficoltà perchè le abitudini della vita si incrostano su ognuno di noi ed è complesso rimetterle in discussione] e ne ho generate di nuove. Non sono così soddisfatto delle nuove. Mi hanno dato svago ma non mi hanno dato spessore. Per questo dovrei forse rifocalizzare le mie abitudini sulla mia interiorità, ma non mi sento pronto a tornare dentro alla crisalide di due anni fa. Torno quindi sempre al punto di partenza che è ben delineato. Definire le passioni, definire le mete, definire le priorità: la diagnosi mi è chiarissima. La prognosi molto meno.

Aspetto una guida che venga e mi conduca per la mano. Ho mai pensato seriamente ad aderire a questa frase? Frase che risuona nelle mie orecchie, compressa dagli auricolari a volume elevatissimo. Frase che rimbomba nella mia testa, rimbalzando pesantemente come una pallina impazzita. Una guida? Per me? Adoro quel brano ma quella guida per me stesso devo essere io. Quando riuscirò a scorgere la nuova prospettiva? Quando a incamminarmi verso la linea di un nuovo orizzonte? Probabilmente quando smetterò di gingillarmi con oggetti, vizi, persone, tasti, abiti. Probabilmente, ma non ne sono certo ...

 
 
 

Caro Ospite

Post n°914 pubblicato il 15 Ottobre 2009 da Henry.Wotton
 
Foto di Henry.Wotton

Caro Ospite,

la mia casa è stata per qualche ora la tua casa. Quello che è mio è stato tuo. Il bianco feroce della cucina. La mia esperienza consumata dagli anni. Il morbido bordeaux del vino. La mia passione per il cinema. La cascata di noci dell'Amazzonia sparse sul pavimento. I miei gusti attenti. Una buona metà del mio divano. I miei modi cortesi. Un plaid caldo a motivi rigorosamente tartan. Ho intravisto e dissimulato abilmente quando le lacrime hanno colmato i tuoi occhi. Ho riso insieme a te. Ho sopportato le tue domande sul prosieguo del film. Ho evitato scrupolosamente il contatto fisico e mentale. Ho compreso con discrezione la tua fuga quasi immediata. C'era di più: lo so io e lo sai tu. Ma questo è il nostro patto: tacito, esplicito, terribile, fasullo, deleterio, ma sempre patto è. Ciononostante sono stato bene. Ciononostante sono stato male. E malgrado tutto questo non riesco ad avvicinarmi a te. E malgrado tutto questo non posso farci nulla ma non riesco a staccarmi da te.

 
 
 

Regole per la serata

Post n°913 pubblicato il 14 Ottobre 2009 da Henry.Wotton
 

Nessuna aspettativa. Nessun sentimento. Nessun gesto. Nessuno sguardo. Nessuna trasgressione.

Nessuna aspettativa. Nessun sentimento. Nessun gesto. Nessuno sguardo. Nessuna trasgressione.

Nessuna aspettativa. Nessun sentimento. Nessun gesto. Nessuno sguardo. Nessuna trasgressione.

Nessuna aspettativa. Nessun sentimento. Nessun gesto. Nessuno sguardo. Nessuna trasgressione.

Nessuna aspettativa. Nessun sentimento. Nessun gesto. Nessuno sguardo. Nessuna trasgressione.

Nessuna aspettativa. Nessun sentimento. Nessun gesto. Nessuno sguardo. Nessuna trasgressione.

Nessuna aspettativa. Nessun sentimento. Nessun gesto. Nessuno sguardo. Nessuna trasgressione.

Nessuna aspettativa. Nessun sentimento. Nessun gesto. Nessuno sguardo. Nessuna trasgressione.

Nessuna aspettativa. Nessun sentimento. Nessun gesto. Nessuno sguardo. Nessuna trasgressione.

Nessuna aspettativa. Nessun sentimento. Nessun gesto. Nessuno sguardo. Nessuna trasgressione.

Solo il meglio di me, quindi.

 
 
 

O forse l'altra ancora

Post n°912 pubblicato il 09 Ottobre 2009 da Henry.Wotton
 
Tag: Musica
Foto di Henry.Wotton

Last night I dreamt
That somebody loved me
No hope - no harm
Just another false alarm

Last night I felt
Real arms around me
No hope - no harm
Just another false alarm

So tell me how long
Before the last one?
And tell me how long
Before the right one?

This story is old - I KNOW
But it goes on
This story is old - I KNOW
But it goes on

It goes on...

(The Smiths, 'Last night I dreamt that somebody loved me')

 
 
 

Chiedimi

Post n°911 pubblicato il 09 Ottobre 2009 da Henry.Wotton
 
Tag: Musica
Foto di Henry.Wotton

Shyness is nice and
Shyness can stop you
From doing all the things in life you'd like to

So, if there's something you'd like to try
If there's something you'd like to try
Ask me - I won't say no - How could I?

Coyness is nice and
Coyness can stop you
From saying all the things in life you'd like to

So, if there's something you'd like to try
If there's something you'd like to try
Ask me - I won't say no - How could I?

Spending warm Summer days indoors
Writing frightening verse
To a buck-toothed girl in Luxembourg
Ask me, ask me, ask me
Ask me, ask me, ask me
Because if it's not Love
Then it's the Bomb, the Bomb..
That will bring us together

Nature is a language - can't you read?
Nature is a language - can't you read?

So ask me, ask me, ask me
Ask me, ask me, ask me
Because if it's not Love
Then it's the Bomb, the Bomb..
That will bring us together

If it's not Love
Then it's the Bomb, then it's the Bomb
That will bring us together

So ask me, ask me, ask me
Ask me, ask me, ask me

(The Smiths, 'Ask')

 
 
 

Strattagemmi

Post n°910 pubblicato il 06 Ottobre 2009 da Henry.Wotton
 
Tag: Diario
Foto di Henry.Wotton

Oggi neanche il vecchio strattagemma di lasciar correre le dita libere sulla tastiera per districare il labirinto che ho dentro funziona. Lasciar passare il tempo e non esprimermi sta rendendo sempre più sofferta questa situazione.

 
 
 

My life in the bush of ghosts. III

Post n°909 pubblicato il 06 Ottobre 2009 da Henry.Wotton
 
Foto di Henry.Wotton

Il tempo trascorre stranamente nel cespuglio dei fantasmi. Innanzitutto trascorre, questo è indubbio anche se a volte sembrerebbe di no, ma è un'illusione: è certo quindi, trascorre. Non so se questo sia positivo o negativo, ma è un dato di fatto inoppugnabile. E ci sono giornate come quella di ieri, apparentemente bella e divertente ma che lasciano un profondo amaro in bocca. Credo che si possa tranquillamente parlare di codardia che, nel cespuglio dei fantasmi, è più che lecito attendersi. Questo rapporto è malato. A me non sta bene. Siamo in un congelatore e un essere vivente dentro a un congelatore non riesce a svilupparsi, può sopravvivere, magari a lungo, ma non vivere. Sul termostato c'è la tua mano ma anche la mia, bene attenti a non far mai salire la temperatura, piuttosto talvolta a farla precipitare. Non sono nella tua testa, non conosco i tuoi desideri, conosco i tuoi enunciati ma, si sa, desideri ed enunciati non sono fatti per collimare. Conosco (forse) i miei e so di non voler più rischiare, allo stesso tempo questo non sono io. E se non sono io, ebbene, che lo faccia allora qualcun altro. L'immobilità. Le spine. Il buio. Il cespuglio. I fantasmi. La luce bianca che ferisce. Tutti i temi di questi giorni tornano con ossessiva ripetitività. Oggi la penso diversamente, anche se non con lucida determinazione. Penso che un giorno mi dovrò ferire, prima o poi accadrà. Dovrò raccogliere le mie forze ed attraversare il cespuglio. E' inevitabile che accada e se è inevitabile che accada perchè non farlo presto? O forse anche questa sarebbe una forma di codardia, non così dissimile dall'immobilismo gelido di questi giorni?

Una cosa ho capito dalla bellissima giornata di ieri: ho capito che qualcosa deve cambiare. 

 
 
 

My life in the bush of ghosts. II

Post n°908 pubblicato il 02 Ottobre 2009 da Henry.Wotton
 
Foto di Henry.Wotton

La mia esperienza nel cespuglio dei fantasmi prosegue. A volte filtrano luci, lame di luce artificiale, bianca, fredda e penetrante. Raggelante. Negli ultimi giorni ho provato a seguire i miei stessi consigli che ho scritto pochi giorni fa e sono rimasto fermo immobile. Immobile davanti ad eventi negativi, così come immobile di fronte ad eventi piacevoli. Una sorta di atarassia, quantomeno attitudinale. Nessun movimento apparente. Anche quando un corpo piacevole e caldo si è avvicinato con insistenza. Anestetizzati i sensi in un rigore socialmente accettabile ne è riemerso il vecchio HW, abile nel costruire parabole verbali, pungente nel provocare ossimori, caustico nello spargere ironia dissacrante. Il commensale che disturba piacevolmente, il personaggio dai sentimenti inafferrabili, il compagno inavvicinabile quando desiderato, la presenza permanentemente odiosa. Un personaggio che ben conosco, un copione che reinterpreto con sicurezza. Meglio: un copione che nuovamente reinterpreto con sicurezza. Nessun movimento, nessuna spina, nessuna puntura, nessun dolore. I vecchi graffi così si rimarginano. Attendo. Fermo. Apparentemente assente. In realtà prontissimo a piazzare la stoccata. Ad allungare il braccio ed afferrare. Forse. Intorno a me ho visto molta gente agitarsi: i cellulari bollivano, le sedie a tavola perennemente vuote, le bottiglie che si avvicendavano come se ne evaporasse il contenuto. Tutto transita davanti e viene accolto da un mezzo sorriso distante. Più tardi ho trascorso momenti di fantastica osservazione di fronte a un panorama notturno sulle colline. Avrei osservato e basta. Poi ancora la socialità, le strette di mano, i baci sulle guance, le stradine deserte di campagna. Gli equivoci creati ad arte.Anche sinuose ondeggiavano, mani applaudivano, sguardi d'intesa forse andavano persi. Caos e ritmi in quattro ed immobilità.

Stasera si replica.

 
 
 

My life in the bush of ghosts. I

Post n°907 pubblicato il 30 Settembre 2009 da Henry.Wotton
 
Foto di Henry.Wotton

A volte sembra proprio che sia così. Non è triste, è la semplice realtà: è che a volte ci guardiamo attorno smarriti circondati dalle fronde acuminate di un arbusto le cui foglie nascondono appuntiti aculei ed in mezzo a loro si proiettano le ombre di ectoplasmi. Ruotano intorno a noi e ci disorientano, facendoci perdere l'equilibrio, quel prezioso equilibrio che tentiamo di mantenere per non finire inforcati dalle spine. Tentiamo di preservare almeno il nostro involucro intatto, di non pungere la nostra epidermide infantile, delicata e pura che avvolge il nostro animo confuso, spaventato e scosso dall'oscurità. Ma barcolliamo, cadiamo, ci pungiamo e ogni puntura ci scuote in un movimento ancor più confuso, spinti come una pallina di flipper dai respingenti verso nuovi aculei e nuove ferite e nuovi sobbalzi e nuovi timori. A mente fredda basterebbe rimanere fermi. Non ci sono fantasmi, se non nella nostra mente. Le spine sono reali ma possiamo vincerle ed il dolore che ci possono procurare è poca cosa rispetto a quanto noi siamo veramente. Ma allora questa non è la 'semplice realtà'. O sì?

Continuiamo nel nostro incedere. Continuiamo a scrutare. Continuiamo a scorgere talvolta fantasmi. Continuiamo a dibatterci dissennatamente.

Continuiamo a pungerci.

Da soli.

 
 
 

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