Il Gargano disse che

Libera e Foggia pronti per Don Ciotti, Daniela Marcone: “Don Luigi accompagna da anni la Capitanata


Libera e Foggia pronti per Don Ciotti, Daniela Marcone: “Don Luigi accompagna da anni la Capitanata, spero non ci siano ‘quelle’ scritte” Venerdì 31 marzo, giornata in ricordo di Francesco Marcone 
 “La rassegnazione non può che farci male e lasciare terreno libero a chi, è evidente, non la ama la Capitanata, non ama la sua gente”. Venerdì 31 marzo Foggia ricorda Francesco Marcone e le vittime innocenti di Capitanata, quelle colpite dalla violenza mafiosa, proprio come l’allora direttore dell’Ufficio del registro del Comune di Foggia, ucciso nel 1995 nell’androne di casa sua. Daniela Marcone, vicepresidente nazionale di Libera, l’associazione guidata da Don Luigi Ciotti che da anni si batte contro la criminalità organizzata, è ormai in prima linea in questa importante battaglia, come confermano le parole che dedica alla terra che continua ad amare, nonostante sia la stessa che ha tolto a lei e alla sua famiglia un affetto insostituibile.
DON CIOTTI “SBIRRO”. Venerdì 31 marzo, in un doppio appuntamento, Libera e Foggia si stringono attorno ai temi comuni della legalità e dell’anti-mafia, concentrati nel numero speciale della rivista Narcomafie: alle ore 10, nell’Auditorium della Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana”, e in serata, ore 18.30, nello spazio live della libreria Ubik. E all’incontro della mattina, rivolto alle scuole di Capitanata, prenderà parte proprio Don Ciotti, il punto di riferimento di un movimento che, nei giorni scorsi, ha subito un duro colpo morale a causa della doppia accoglienza ricevuta sui muri in occasione di altrettante giornate organizzate in Calabria e in Sicilia. Nel corso di un’intervista, Daniela Marcone ha parlato anche di quest’ultimo accadimento, raccontando inoltre la sua esperienza umana e l’impegno della sua famiglia contro la criminalità organizzata e in favore della sua Capitanata.
D: IL 31 MARZO è UNA DATA IMPORTANTE PER FOGGIA. Si può dire che ormai è entrata nelle ricorrenze ufficiali del territorio, anche dal punto di vista della percezione della gente: cosa significa questo per la famiglia Marcone?R: Significa moltissimo. In primo luogo che non siamo soli perché c’è una comunità che considera il 31 marzo come una data da ricordare, non solo come la data di un accadimento estremamente doloroso per una famiglia ma come una ferita per la comunità. In secondo luogo, la percezione delle persone ci fa capire quanto siano cambiate le cose da quel 31 marzo del 1995 a cui seguirono mesi terribili in cui fummo ingoiati dal silenzio. La maggiore sensibilità delle persone alle tematiche che questa data richiama è comunque un passo avanti nel contrasto all’omertà che, ricordiamolo, è una delle accuse che da più parti vengono rivolte ai cittadini di Foggia.D: Il timore, in questi casi, è che dopo tanti anni la gente possa dimenticare o, peggio, “dare per scontate” certe ricorrenze. Come si tiene viva la memoria di una vittima della mafia?R: Mantenere viva la memoria di una persona la cui vita è stata distrutta dalla violenza della criminalità è molto importante perché se il ricordo di quanto accaduto si appiattisce, si raffredda, rischiamo di sottovalutare i danni gravissimi causati dalle mafie nei nostri territori. La “vivacità” di questa memoria è affidata ai familiari della vittima che spesso si mettono in gioco e condividono i loro ricordi ma in questo gli stessi non possono essere lasciati soli, occorre accompagnarli in un percorso che permetterà al ricordo individuale di trasformarsi in memoria collettiva.D: Il tuo impegno in Libera – e non solo – è una conseguenza di quanto accaduto a tuo padre. Pensi che la tua vita avrebbe imboccato comunque la strada dell’impegno civile, anche in circostanze meno drammatiche?R: Se ripenso ai miei progetti di ragazza, ai miei, sogni, posso dire che sono molto diversi da quanto sto provando a realizzare. Una parte di me è stata uccisa insieme a mio padre. Probabilmente, però, l’interesse per il sociale e l’apertura profondamente umanitaria di nostro padre avrebbe comunque aperto le porte a noi figli verso l’impegno civile, certamente con fini diversi e modalità che oggi non posso immaginare ma che sento talmente connaturate alla mia quotidianità che ritengo ci sarebbero stati comunque.D: Don Ciotti arriva a Foggia dopo “le scritte”: temi qualcosa del genere anche in terra di Capitanata? E se sì, cosa significherebbe per il nostro territorio?R: Don Luigi accompagna questo territorio da tanti anni, lo ha fatto in numerosi passaggi, condividendo con noi riflessioni e attenzione per Foggia. Se dovessero apparire anche a Foggia “le scritte” dovremmo interrogarci come comunità cittadina perché don Luigi non è solo il Presidente di Libera ma anche una persona che sta spendendo tutta la sua vita per scuotere le coscienze, ma non è solo in questo percorso. Quelle scritte colpiscono tutti noi, compresa la parte sana di una città, di un luogo sociale. Spero vivamente che ciò non accada.D: In linea generale, come hai interpretato questi messaggi trovati sui muri?R: È evidente che rappresentano un rigurgito contro l’attività di Libera e del suo Presidente ma ovviamente non ci hanno fermati in alcun modo. Hanno destato in me preoccupazione ed ho pensato che non solo non vanno sottovalutati ma devono essere uno sprone ad alzare il livello di attenzione in quei luoghi in cui sono state scritte quelle frasi.D: Restando in tema, uno di questi messaggi recava un riferimento al lavoro: la mafia “porta lavoro”, è questa la lettura giusta? E soprattutto, da vicepresidente di Libera, è ancora così in alcuni territori? E in Capitanata?R: La mafia non porta mai lavoro, o meglio, si tratta di un lavoro sporco che può costare molto caro a chi lo svolge ed a tutto il territorio in cui questo accade. È importante che ci si riappropri di tutti gli “spazi” che le mafie hanno occupato: spazi economici e culturali, sociali e politici, spazi umani. Quando gli abitanti di un territorio hanno la percezione che le mafie possono procurare lavoro e, quindi, sopravvivenza, allora è un segno chiaro che l’infiltrazione mafiosa è molto profonda e i danni sono già molto elevati. Le dinamiche con le quali le mafie fanno affari sono sempre pericolose, a maggior ragione quando sono sotterranee e non si svelano nel modo tradizionale. Riguardo alla Capitanata, sappiamo che vi sono pezzi dell’economia del nostro territorio che sono fortemente influenzati dalla criminalità organizzata e dai conflitti che si verificano tra le batterie o i clan. I provvedimenti della magistratura locale vanno letti sempre con grande attenzione, così come le relazioni della DIA e le dichiarazioni che vengono dai vertici delle forze di polizia della nostra provincia: si tratta di strumenti preziosi di comprensione che possono servire a noi tutti per monitorare quanto accade intorno a noi.D: Nel nostro territorio la mafia è strettamente legata alla terra: il caporalato è un esempio di tutto ciò. Qual è l’idea di Libera per interrompere questo legame?R: Abbiamo denunciato il legame tra mafie e caporalato da sempre e non è stato facile portare avanti una battaglia che è culturale e di denuncia perché Libera non si occupa di accoglienza, se non per affiancare altre realtà nel monitoraggio della stessa. Libera, è utile ricordarlo, è una rete di moltissime realtà, piccole e grandi. Ritengo che il grave problema del caporalato si può contrastare solo se si “lavora” in rete, in sinergia con le istituzioni ed incrociando competenze e passioni. Sì, anche passioni, in primo luogo quella che ci spinge a guardare il panorama che offre il tavoliere con i suoi campi coltivati ed i meravigliosi colori. La nostra terra è bella ed il caporalato, le mafie, la violenza criminale stanno provando a portarcela via, pezzo dopo pezzo, ad alcuni di noi hanno portato via anche persone care. Tutto questo è un buon motivo per non smettere di combattere, ognuno nel suo ruolo. La rassegnazione non può che farci male e lasciare terreno libero a chi, è evidente, non la ama la Capitanata, non ama la sua gente. Quando sono in giro per l’Italia mi capita di incontrare qualcuno che, dopo avermi parlato per qualche minuto, mi chiede se sono di Foggia o della sua provincia: il nostro accento è duro ad andare e via e, forse, io stessa non voglio lasciarlo andare.
 di Alessandro Galano