Il Gargano disse che

Vico del Gargano, l'albergo diffuso, Gae Aulenti, un'idea.


Vico del Gargano, l'albergo diffuso, Gae Aulenti, un'idea. Stampa Email
Un'occasione mancata? Un racconto? Un' idea? Un tram chiamato desiderio...perso? L'albergo diffuso di Gae Aulenti e Tano Lisciandra. L'anno è il 2003, i protagonisti di questa storia sono l'Amministrazione comunale, sindaco Pierino Amicarelli, vice-sindaco, assessore all'urbanistica, Giuseppe D'Avolio, responsabile dell'Ufficio tecnico, Franco delli Muti, due sponsor d'eccezione: il Parco Nazionale del Gargano, guidato da Matteo Fusilli e la Comunità Montana del Gargano, con Giuseppe Maratea. Il punto di partenza Vico del Gargano, il treguardo finale il Gargano diffuso.Cosa spinse l' archistar Gae Aulenti, dalla Rivista Casabella, la trasformazione della Gare d’Orsay di Parigi nel museo degli Impressionisti, il progetto del Musée d’art moderne al Centre Pompidou, la ristrutturazione delle Scuderie del Quirinale a Roma, il restauro di Palazzo Grassi a Venezia, gli showroom per Olivetti a Parigi o a Buenos Aires, e il suo braccio destro l'urbanista Tano Lisciandra, a muoversi da Milano e raggiungere Vico del Gargano, partecipare alla presentazione del progetto, il 13 febbraio 2003, nell'Auditorium comunale, affollato di giornalisti, tecnici, proprietari di case nel Centro storico, cittadini, se non il fascino e l'importanza di un grande progetto, unico e diverso da tutti gli altri? Ricordiamo questo ennesimo tentativo di rianimare l'economia e il volto del paese dell'amore, del turismo, dell'agricoltura, dell'ospitalità, con le parole, la poesia, l'anima del grande urbanista Lisciandra:” I muri e l'anima.” Nevicava. La prima volta che andai a Vico del Gargano era di febbraio. Il borgo antico, alto sul mare, ai confini della Foresta Umbra, era coperto di neve. Una gran folla seguiva la Processione di San Valentino, il nuovo Patrono scelto nel Seicento dai vichesi per proteggere le arance dalle gelate di fine inverno, in sostituzione di San Norberto, cui veniva rimproverato di non essere più tanto in sintonia con le esigenze del paese. La vera ragione per cui era caduto in disgrazia – secondo alcuni sarebbe da ricercare nel fatto che la sua ricorrenza, per superiori e imperscrutabili ragioni di calendario, cadeva di giugno, quando i venti da nord ormai da tempo avevano smesso di far rabbrividire di freddo i contadini e le arance di Vico. A quella data – argomentavano i sostenitori di questa tesi – anche per un santo come San Norberto era ormai tardi per porre rimedio ai guasti del gelo. Sia come sia, quelli di Vico ad un certo punto non ne vollero più sapere e chiesero al Papa Paolo V, che nel 1618 li accontentò, di esonerarlo dal suo ufficio. Qualche mese dopo, quando ritornai i giardini di agrumi erano tutti in fiore e il loro profumo, con qualche accenno di salmastro, arrivava fin su, nei vicoli e nelle piazzette del borgo antico, sospinto dalle leggere brezze che dal mare risalivano lungo la valle. Il centro storico – luogo di intensa bellezza, integro nel suo impianto medievale, era però quasi del tutto disabitato. Molte le abitazioni, che pure mostravano ancora i segni di un'antica ricchezza e nobiltà, abbandonate e in via di disfacimento. Come in tanti altri casi, l'esaurirsi dell'economia locale aveva spinto molti a lasciare il paese. I nuovi stili di vita e i nuovi paradigmi culturali hanno poi indotto quelli rimasti a trasferirsi nelle nuove case costruite oltre le mura. Questa è oggi Vico del Gargano, fondata forse da Diomede, esule di Troia, con il nome di Galgara. Rifondata certamente dagli Slavi, all'approssimarsi dell'anno mille, e poi vissuta, godendo anche di periodi di grande benessere, sotto i Bizantini, i Normanni, gli Angioini e tutti gli altri casati che vennero dopo. I fasti e i nefasti del turismo di massa hanno profondamente trasformato, negli ultimi anni, la costa garganica. L'entroterra ne è stato sfiorato. I paesaggi, le masserie, i centri abitati non hanno subito grandi oltraggi. Non per questo, però, godono di buona salute. Stanno anzi rapidamente sfiorendo per la progressiva perdita di vigore delle comunità che li avevano creati e sostenuti. Che fare? Lasciare che le cose vadano come devono andare? Rassegnarsi al declino? Oppure tentare di opporvisi? In fondo basterebbe far sì che un po' di quella gente che si accalca sulle spiagge lì vicino si accorga di ciò che si trova alle loro spalle. C'è però il rischio di finire come quei borghi e quelle città che, messe a riposo le occupazioni tradizionali, liquidati i vecchi abitanti, hanno puntato solo sulla conservazione dei muri e l'esibizione della propria bellezza esteriore. Tirati a lucido da estetisti d'architettura che hanno cancellato le rughe e imbellettato le facciate, sono diventati meta di migrazioni quotidiane di turisti a caccia di cartoline e souvenir. Pure scenografie per fotografi dilettanti, chiamate a sproposito città d'arte. Città forse al passo con la civiltà dell'immagine, ma certamente vuote e fragili, esposte alla volubilità delle mode e alla volabilità delle agenzie turistiche. Città che fanno commercio di se stesse per turisti dediti all'onanismo urbano. Città che per salvare i muri hanno perso l'anima. Per sopravvivere senza rinunciare a se stessi e per offrire ai turisti un'esperienza di soggiorno in un borgo antico ancora vivo, in mezzo a gente vera, dove l'animazione e la bellezza non sono fiction e scenografia, ma realtà sociale e urbana, gli amministratori di Vico hanno pensato – con creatività ed intelligenza – di dar vita ad un albergo diffuso: la hall, la reception e i servizi, in un grande palazzo nobiliare, ora in disuso; le stanze, in un centinaio di abitazioni, sparse qua e là nel centro storico. Certo, le camere, oltre che farle, bisogna riempirle. Di qui l'urgenza di restaurare gli edifici per le residenze alberghiere e, intorno a loro, tutto il centro storico. Di qui anche la necessità di riconvertire alla nuova mission l'intero paese e il suo territorio. Obiettivo non certo impossibile. Le risorse ambientali sono abbondanti. Le opportunità non mancano. Per valorizzare le une e cogliere le altre occorre però uno sforzo di rinnovamento culturale. Un segnale forte in questa direzione viene proprio dal Santo Patrono, la cui gratitudine verso gli abitanti di Vico non sembra esaurirsi mai. San Valentino – evidentemente più sensibile e accorto del suo predecessore Norberto – ha messo in atto da tempo un'abile strategia di riposizionamento che, senza rinunciare del tutto agli agrumi, lo porta a spostare sempre più la sua attenzione verso gli innamorati, i quali, del resto, pur se a Vico erano tenuti in sordina, facevano già parte della sua scuderia. Sulla linea tracciata dal Santo, che sta passando con successo dai frutti ai fiori d'arancio, non vedo perchè anche gli attuali cittadini di Vico non possono orientare verso nuovi obiettivi le risorse – l'arte, la natura, e, secondo i suggerimenti del Patrono, anche l'amore – messe a loro disposizione dal territorio e della storia. In effetti – penso, risalendo dal mare verso il paese – questi luoghi sono la quintessenza del paesaggio.In alto, il borgo di Vico, arroccato sul monte Tabor e, più in là, la macchia scura della Foresta Umbra che si estende a perdita d'occhio, nascondendo allo sguardo le segrete radure degli alpeggi. A lato, i profumati giardini di agrumi con casali sparsi tra gli alberi, comequello che avrei voluto comperare, se i ritardi a decidere non mi avessero mandato fuori tempo massimo. Un piccolo edificio a due piani, di un colore un po' slavato tendente al rosa, con finestre e porte incorniciate in pietra chiara, come i gradini della bella scala, esterna, al modo greco. Fuori, la pergola di vite e la terrazza ombreggiata, dove stare a guardare il mare, oltre gli aranci. Non resisto alla tentazione di andarlo a vedere da vicino, ancora una volta. Lì davanti, appoggiato al muretto, complice forse l'intenso profumo degli agrumi, prendo inaspettatamente a fantasticare ad occhi aperti. Mi vedo passeggiare davanti al palazzo Della Bella, finalmente restaurato a dovere, senza più quell'aria vagamente lucubre che lo faceva sembrare un po' ostile. Un gran numero di persone entra ed esce; altre si soffermano nel piccolo slargo che gli sta davanti, elegantemente pavimentato, come le altre vie e piazze del centro storico, in ciotoli di fiume e mattoni di cotto. Entro anch'io. Bevo qualcosa al bancone del bar e do un'occhiata in giro: nelle grandi sale è in corso una mostra d'arte moderna; da una saletta giunge la voce del prof. Svetistevan, dell'Istituto Superiore di Studi Interadriatici che ha sede nel bel convento dei Cappuccini. Il professore parla di Dubrovnik, la città dall'altra parte dell'Adriatico che, fin da quando si chiamava Ragusa, ebbe strette relazioni con il Gargano. Alla reception prendo la chiave celle mie stanze – un sobrio ed elegante appartementino assegnatomi dall'albergo in una bella casa dell'antico rione della Civitas – ed esco nel labirinto di stradine, sottopassaggi e scalinate del borgo antico. Do qualche indicazione ad una coppia di francesi, giovani, carini, visibilmente innamorati, ai quali l'albergo ha assegnato la stanza in una casa del rione Terra. Vogliono naturalmente infilarsi nello stretto vicolo del Bacio per scambiarsi quel gesto di affetto che fatto lì, sotto lo sguardo benevolo di San Valentino, sembre garantire amore e felicità senza fine. Intanto si fa sera e le botteghe, insediate qua e là nei locali al piano terreno, che una volta servivano da cantine e anche stalle, accendono le luci. Mi metto a parlare di Vico con un giovane e colto libraio che sta sulla porta. Racconta di quella bella congrega di religiosi e laici che nel Settecento diede vita all'Accademia degli Eccitati allo scopo di risvegliare, con la diffusione della conoscenza e della cultura, i concittadini dal sonno della ragione. “ Simbolo dell'Accademia – ricorda il giovane libraio, mostrando di saper anche fare il suo mestiere – era Pallade che sveglia gli uomini, presentando loro un libro “. Lasciato il giovane, con in tasca il libro degli Eccitati del prof. Fiorentino, che d'altra parte sono ben lieto di aver acquistato, entro nei locali di un antico frantorio,mezzo scavato nella roccia, mi accomodo ad un tavolo di pietra e mi lascio andare al piacere di un purè di fave e cicoria, amarognolo quel tanto che basta, e di una spigola all'acqua pazza che nessun'altra mai...Bevo l'ultimo sorso di un buon Castel del Monte, ancora fresco, ed esco. La casa dove si trovano le mie stanze – di origine nobiliare, a dar credito allo stemma araldico che fa bella mostra di sé sopra il portone di ingresso – è appena fuori del frantoio-ristorante. Salgo le scale riportate all'antico splendore. Mi siedo in terrazza dove giungono, da una chiesa non lontana, le note affievolite di un concerto di musica sacra. Sfoglio il libro e, di tanto in tanto, alzo lo sguardo al cielo punteggiato di stelle. Dopo un po' mi corico nell'ampio letto contadino che troneggia al centro della stanza. Domani devo alzarmi presto per una passeggiata nella Foresta Umbra, alla ricerca delle orchidee selvatiche che lì fioriscono in numero e varietà unici al mondo. Mi addormento, infine, sognando San Valentino, contornato dalla schiera degli Eccitati, che mi promettono di proteggere non solo gli aranci, ma anche i muri e l'anima di Vico.Nel sonno, sorrido. Tano Lisciandra   Michele Angelicchio