Il Gargano disse che

Il Mondo come Dépliant - Eravamo ciechi e adesso vediamo


Il Mondo come Dépliant - Eravamo ciechi e adesso vediamo Stampa Email
Solo a guardarlo, il mondo diventa immagine – intuizione apparsa e digerita già da qualche millennio. Anche se in ritardo, la fotografia e il cinema sanciscono definitivamente: il mondo è riproducibile ad uso e consumo infinito; tv e web i canali dell’inflazione meccanica.
La fotografia nasceva essenziale, in bianco e nero, un dono di alcuni alla moltitudine. Con la galassia digitale si entra in un naturale stato di autoipnosi: ognuno è chiuso in un sistema autonomo e perfetto, abbracciato al pelouche. La seduzione tecnologica ha promesso un piacevole inganno: rimpiazzare la realtà – l’immagine matrice - con una fantasticheria. Se la sensazione si atrofizza e la mente parla da sola, c’è il cuore a fare da jolly. Più fedele è il conio del reale, tanto più efficace è la truffa: il mondo è percepito tramite quello virtuale, una simulazione dell’apparenza. L’attaccamento ai surrogati tradisce il disfacimento della capacità contemplativa. Fotogrammi e ditoni modellano e condizionano la percezione di ciò che chiamiamo realtà. Canone inverso.Insieme alle parole elettroniche, anche le immagini fanno bancarotta: la palma dello sperpero appartiene alla fotografia: dalle pentole alle posate, non c’è utensile che non sia equipaggiato di fotocamera; tutti abbiamo l’opportunità di immortalare tutto, in ogni momento.
Il piacere collettivo che deriva dall’atto fotografico è quello di trovare nell’immagine un senso che l’immagine non ha. La foto è un’interruzione del flusso della realtà, un click che spoglia le cose della loro peculiarità. Chi afferma che la fotografia è la cattura dell’attimo va assecondato: non sa quello che dice, non sapendo quello che vede. Fotograficamente parlando, l’attimo è solo un taglio (apparente) alla continuità del tempo, un segmentare: eternità, spontaneità, emozione, sono ovvietà, spesso aridamente linguistiche. Una mutilazione, altro che “cogliere e contemplare”. Rumori, movimento, materia, odori, vengono cancellati in un ritaglio di fissità patinata. Di “obbiettivo” non rimane nulla, sopravvive un gesto nel limite estetico. Ma la sola dimensione estetica smembra e falsifica la totalità dell’esperienza vitale. L’estetizzazione coatta perverte la natura dell’immagine. Per rivendicare creatività artistica, s’impiastricciano pixel su display e monitor. È come dire: “vedete? si può camminare anche con i gomiti”.
Della sua ingerenza nell’arte, gli autentici artisti non se ne preoccupavano. Picasso esultava: “con la fotografia finalmente si potrà vedere tutto ciò che la pittura non è”. Tralasciamo le invettive dei padri della modernità, amati e straletti. Anche gli Impressionisti gioivano della prodigiosa macchina: si sentivano sollevati dal fare ritratti, c’erano i fotografi, per tutte le facce e le economie. Le arti manuali conservavano ancora qualcosa d’ineffabile (il fare diretto dell’uomo sulla materia era fondamentale nella misura della sua statura). Ma questo purtroppo non salva la pittura, rincorrendo strumenti e visioni alla moda, si è ridotta ad una esibizione di effetti speciali. Tutta l’arte è mutata in idea, destinata a circolare ad oltranza come messinscena di se stessa.Duplicare un oggetto in un riquadro rafforza il desiderio di conservarlo perpetuamente - un’innocente pretesa. L’immagine riprodotta annienta la realtà per rievocarla, ma nessuno la rivivrebbe se non nel suo aspetto più conveniente. È il caso delle vecchie vedute di Vieste, rimpianti solo pseudo-estetici, ma non socio-economici: meglio ipocriti che scemi.
Le foto più vere e oneste sono quelle di un quotidiano ritrovato, un ricordo emerso dal passato, il presente che si dilegua: malinconie tra le assenze, dalle cartoline agli sposi che tagliano la torta.Insostituibile resta la sua funzione come materiale d’archivio storico, documentazione certificata da studiosi e viaggiatori. Istantanee di tragico pensiero sono ancora disponibili sulle miserie umane. Ma il risultato più valido è quello di continuare a sostenere l’evanescenza della vita, teatro d’ombre impresse sul quadrante della vita. La fotografia credeva di fermare il tempo, invece lo esalta e lo nutre.
Un fotografo, nell’esporre i suoi scatti al pubblico, dovrebbe azzardare: queste foto “belle bellissime” sono il mio contributo all’illusorietà del mondo, non la sua trasfigurazione nell’arte. Con una strumentazione sofisticatissima rubo qualche filamento di luce e ombra, di colore e linee: non è importante sapere cosa siano. È l’immagine a manovrarmi, sono io a mettermi in posa davanti all’occhio del mondo. La sua pupilla mi ha colto prendendosi gioco di me. Sono il simulatore di un’apparenza, frammento inconsapevole di un congegno.La tecnologia accresce il godimento dello spettacolo del mondo; questo è un bene, a condizione che non venga meno la consapevolezza della finzione - non si trasformi il sipario in un patetico sudario. Conquistare la facoltà contemplativa non è ginnastica della retina; non è identificarsi né ritrovarsi nelle cose, soprattutto nelle immagini. Contemplare non è sfogliare dépliant: esche corredate di bellezza utilitaria, figlia di una bruttezza celata (ringraziamo il brutto). Spiagge preistoriche, tele longobarde, orecchiette federiciane: bellezza intatta offertaci dalla cultura e dalla fotografia. Eravamo ciechi, e adesso vediamo.Francesco Lorusso (ass. Camera Cromatica)