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“Il brigantaggio al sud? Un fenomeno sociale trattato come un problema criminale”. L’analisi della storico Rnzo Cicone


“Il brigantaggio al sud? Un fenomeno sociale trattato come un problema criminale”. L’analisi della storico Rnzo Cicone, studioso di mafie. Stampa Email
Il brigantaggio è stato un fenomeno sociale e di classe trasformato in un problema criminale. È stato un errore tragico che ha segnato la stessa formazione delle classi dirigenti meridionali ed italiane. Se c’è una lezione da trarre da quelle vicende è che non bisogna trasformare problemi sociali in problemi criminali. Mai, per nessuna ragione». Diradando il fitto polverone che pun­tualmente si leva sulle vicende unitarie, attri­buendo responsabilità fuori da pregiudizi, spaz­zando via luoghi comuni, ad additare questa ama­ra verità è, Enzo Ciconte, che insegna Storia della criminalità organizzata all’Università di Roma Tre e Storia delle mafie italiane all’Università di Pavia. Il primo a pubblicare un testo storico sulla ‘ndrangheta in Italia, già consulente presso la Commissione parlamentare antimafia, Ciconte ha di recente dato alle stampe per Laterza La grande mattanza, una «Storia della guerra al bri­gantaggio», cioè della repressione che in Italia è stata ordita e perpetrata contro banditi e briganti dal Cinquecento ai primi decenni postunitari. Ciconte, come possiamo definire, oggi, alla luce delle ricostruzioni più recenti, il fenomeno del brigantaggio? «Il brigantaggio è un fenomeno complesso, ricco di sfaccettature e sempre mutevole perché cambia a seconda delle congiunture politiche. È sicuramen­te un fenomeno di ribellismo, sia individuale che collettivo. Sono tanti i casi di giovani che si die­dero alla macchia dopo aver subito un torto o dopo essere stati maltrattati o umiliati da un signorotto locale; ribellioni di solito apprezzate dalla comu­nità locale. E sono tanti i casi di rivolte popolari. Si può parlare di scontro di classe perché molte sono le insurrezioni contadine che hanno rivendica­zioni a connotazioni marcatamente di classe. C’è sicuramente odio e disprezzo di classe da parte dei generali aristocratici che combattevano i “cafoni” meridionali armati e li disprezzavano. Valga per tutti la definizione del generale Solaroli, aiutante di campo di Vittorio Emanuele: «la più grande canaglia dell’ultimo ceto». Ci sono varie componenti nel brigantaggio? «Una squisitamente criminale, una borbonica che voleva la restaurazione dei Borbone, e una sociale che apparteneva ai contadini che hanno occupato le terre usurpate dai galantuomini e che, di fronte all’impossibilità di ottenere uno spicchio di terra, si sono dati alla campagna. I governanti hanno criminalizzato un problema sociale legato alla terra e hanno trasformato i contadini in soggetti pericolosi per l’ordine pubblico». Pare di capire che il brigantaggio fiorisca nel Mezzogiorno dal Cinquecento ai primi decenni postunitari. C'è uno spartiacque nel fenomeno e quali le differenze tra preunità e post-unità? «Dal Cinquecento sino alla fine del Settecento si può parlare di banditismo che coinvolge anche ampie zone del Centro-Nord: Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Lazio. Con l’arrivo dei francesi si afferma il termine brigante e man mano che avanza l’Ottocento il brigantaggio si radica maggiormente nel Mezzogiorno d’Italia e nel Lazio. La differenza tra prima e dopo è nella maggiore du­rata ed ampiezza delle bande brigantesche e nei collegamenti con i Borbone e con la Chiesa che “fomentarono” - questo è il termine usato allora- il brigantaggio. La spartiacque è l’Unità d’Italia, che avrebbe potuto risolvere il problema della terra. Ma questo non fu tra i programmi della Destra storica che andò al potere. E gli effetti si sentono ancor oggi». Fucilazioni persecuzioni, saccheggi... a propo­sito del brigantaggio lei usa spesso le parole «terrore» e «terrorismo». Fu questo il timbro dei piemontesi nella conquista del Mezzogiorno? «I termini terrore e terrorismo sono usati dai militari in modo esplicito perché l’idea del tempo era che con il terrore si potesse sconfiggere ogni forma di criminalità. Alcuni esempi: nell’agosto 1861 Diomede Pantaleoni scrive a Minghetti che solo “la forza o il terrore della forza” può as­soggettare i meridionali. Un procuratore del re pugliese parla di “salutare terrore che le leggi eccezionali hanno ispirato”. La Marmora dice che la decisione di uccidere i briganti armati senza fare alcun processo è stata assunta per “incutere terrore ai mali intenzionati e deve per conse­guenza essere eseguita immediatamente, al più tardi entro le 24 ore”. Ricasoli, discutendo di stato d’assedio, è convinto della “impressione di terrore che è capace di esercitare nell’animo dei ribaldi”. Milon, riferendosi alla Calabria, dice al generale Sacchi che “il solo terrore potrà scuotere queste popolazioni». Che dire di questo modo di pensare? «Rappresentò un tragico errore e fece commettere ai militari atti illegali oltre che crudeli. Taglio di teste, torture, uccisioni illegittime e fuori dalla legge, stragi sono state una costante dal Cinque­cento fino al 1870. Tutti i regimi si sono regolati in questo modo, dai Borbone ai governi del Papa re. Non fu solo una caratteristica della conquista piemontese del Mezzogiorno perché gli ultimi ar­rivati seguirono grosso modo la strada tracciata dai predecessori». Quale fu l’atteggiamento delle grandi potenze nei confronti dei metodi impiegati dal Regno sabaudo al Sud? «Ci furono proteste e prese di posizioni di vari Stati, dall’Inghilterra alla Spagna. Erano giudizi severi che condizionarono il comportamento del neonato governo italiano che li temeva e fece di tutto perché ciò che succedeva nel Mezzogiorno non fosse conosciuto. Di conseguenza molte cose furono nascoste e relegate nella clandestinità». Si arriverà mai a forme di protesta e a uno stato di accusa dei militari per le repressioni da parte di personalità illuminate o di poteri costituiti, come deputati o magistrati del tempo? «Nessuno dei gradi apicali dell’esercito pagò mai per le stragi e gli omicidi commessi. Del resto i militari hanno agito con il consenso, tacito o espli­cito, di ministri e presidenti del consiglio. Volò solo qualche straccio. L’impunità fu assicurata a tutti, anche a coloro che, violando la legge, si macchiarono di crimini e di nefandezze che non rendevano onore alla divisa indossata». I luoghi dei mafiosi non sono quelli dei briganti. Perché? «Nelle terre dove ci sono i briganti, le tensioni sociali si trasformano in moti e rivolte popolari. Quando non ci sarà sbocco alle rivendicazioni allora entreranno in scena i briganti. Sono le terre del latifondo e di montagna le protagoniste di questi periodi. I mafiosi agiscono sul terreno delle città e delle zone economicamente più dinamiche. I grandi proprietari terrieri ebbero la protezione dei militari nelle zone di brigantaggio e dei ma­fiosi negli altri territori». Gino Dato gazzettamezzogiorno