Il Gargano disse che

Vieste - DOPO 70 ANNI, TORNA IN CATTEDRALE UNA STATUA DEL ‘700 DELLA PROCESSIONE DI SANTA MARIA


Vieste - DOPO 70 ANNI, TORNA IN CATTEDRALE UNA STATUA DEL ‘700 DELLA PROCESSIONE DI SANTA MARIA Stampa Email
A LUMINARIE SPENTEVIAGGI E GUARIGIONI A VIESTEUniti nella grazia, profughi tra gli uomini, muti nell’attesa. È l’arcangelo Raffaele, con Tobiolo: pellegrini sbandati in una discarica di campagna, gemme incastonate in una cloaca.Un’abituale passeggiata si è rivelata provvidenziale come poche. Saverio Sciancalepore li intravede per caso tra gli effetti della civiltà: grazie al suo occhio attento, il gruppo scultoreo viene sottratto al disfacimento definitivo. Passano gli anni, mi confida della preziosa reliquia. La osserviamo. Facile l’indagine, facile l’identikit: il piccolo relitto era uno dei simulacri del 9 maggio. Considerando il formato ridotto della statua, non è da escludersi l’ipotesi di un suo precedente utilizzo per la devozione privata, di un “borghese”, con successivo lascito alla Cattedrale: eccola in processione. Il pessimo stato di conservazione necessitava di un estremo intervento di restauro. Si decide per il recupero, ma con molta, molta calma. Era il 1999. Ciò che è accaduto dal giorno della sua scomparsa a quello del miracoloso ritrovamento è ancora avvolto nel mistero.Con gesto encomiabile, Saverio vuol donare i due reietti alla loro antica dimora – la Cattedrale - donandoci un pezzo del nostro passato. La generosità di don Gioacchino farà il resto: accoglierli come legittimi inquilini.  In ogni caso, qualunque sarà il domicilio definitivo, a me resta il privilegio di averli guariti dalle offese del tempo e dalle ingiurie degli uomini. Dopo l’ultima discesa, gli esuli risalgono con dignità ritrovata la scalinata familiare della chiesa madre, fosse solo per un saluto, a luminarie spente.Per duecento anni la coppia biblica aveva percorso agilmente le vie della festa patronale. Dopo due secoli di residenza consacrata, giunse l’intimo di sfratto, per logorio e fuorimoda. Arrivano i decenni 50/60, tutto si ammoderna: i canoni della bellezza vengono dettati dal mondo reclamizzato. Di lì a poco, TV e pubblicità avrebbero deciso la sorte dei tempi, bussole del gusto e del disgusto – la bulimia sarà la stella polare del web totalitario.L’effetto disumanizzante dell’idolo tecnologico non è recente, ha già alle spalle vittime illustri: l’efficacia dei sensi e i mestieri manuali (lo spirito gode della stessa fortuna); la civiltà della macchina seppellirà l’artigianato nei musei - si cerca di riesumarlo con l’hobbistica artistoide. Delitti perfetti, archiviati per necessità.Anche i luoghi sacri si sottomettono alle nuove tendenze e Vieste, insieme a tantissime diocesi, non può che sostenere il crimine fatuo. Le chiese si liberano del superfluo, di anticaglie e obsolescenze secolari, racchiuse tra un romanico e un barocco desacralizzati a diletto culturale. Organi a mantice, compresi di canne e ante decorate; pulpiti in legno e altari marmorei; statue e dipinti di santi, sconosciuti e venerati. Dati via, gettati o bruciati. Un’iconoclastia casereccia era in atto, e non fu certo l’unica. Rammentiamo un episodio locale, di levatura controriformista: lo smantellamento delle cinquecentesche “tavole indorate” dall’altare maggiore della Cattedrale, voluto dal vescovo Kreiter nel 1699. Si trattava sicuramente dei dipinti delle botteghe croate, profumi di Bisanzio - queste sì perdite sciagurate. Per una bizzarra fusione stilistica, l’unica traccia di quei pregevoli arredi è ancora visibile nel lunotto ogivale – totalmente contraffatto – assemblato sulla pala del Rosario (stridente l’estraneità dei due corpi pittorici).Meno estremisti, i favolosi anni ‘60 modernizzano l’agorà mariana con statue alla moda, di serie. Insieme a Raffaele e Tobiolo, fu eliminato il piccolo San Michele, oggi sfigurato in una teca. Per forza maggiore fu sostituito anche un San Giorgio stramazzato. Fra le cause delle espulsioni cherubiche, oltre al pessimo stato di conservazione, le ridotte dimensioni delle sculture: troppo piccole per la parata. I due arcangeli vennero rimpiazzati dalle statue attuali – più grandi e funzionali, ma non affatto più belle.
Ci sembra doveroso riscattare “l’artigiano” della nostra opera, gioiellino del settecento napoletano, tra i migliori esempi del nostro patrimonio artistico. L’autore è ignoto (ma è lecito pensare ad un nome autorevole), salvo ritrovamenti di vecchie pergamene di storia patria, con annesse notizie sulla committenza e sull’origine del culto. La scultura lignea fa parte di quella fioritura di opere - poche e uniche - dovuta allo zelo di un singolo uomo, il vescovo Cimaglia, artefice illuminato e coordinatore del risveglio sia religioso che socio-culturale del paese. Alcuni decenni di metà settecento bastano per il vanto cittadino, per un’isolata ma scintillante costellazione d’arte (poche opere brillano nel cielo viestano).Lasciamo il bel Tobiolo presepiale allo spavento ittico, e rivolgiamoci ancora al suo accompagnatore serafico, amico dei giovani, tutto avvolto da una rarissima e rinata azzurrite. Mediatore tra cielo e terra, Raffaele è il protagonista della rappresentazione. Ferito, l’inviato di Dio atterra al ricovero di Camera Cromatica con un’ala spezzata, impigliata nella vita degli uomini. Inzuppate di inquinante porporina, le ali vengono pulite per auspicabili decolli. Ci saranno spazi in cui potrà svolazzare? Vorrà ancora intercedere per noi? Messaggero ingenuo.
 Si ricompatta il legno spolpato dai tarli, si integrano le lacune plastiche; si assemblano le membra sparse. Liberati dagli strati di ridipinture, affiorano i colori belli e luminosi. Molte sono le qualità estetiche emerse, consueto palcoscenico della retorica teatrale del secolo. Ma se teatro deve essere, che sia intimo, delicato, affettuoso, senza scadere mai nella banalità del sentimentalismo (il nostro anonimo intagliatore era un maestro). Sotto la regia dello scultore si esibiscono: le più belle ali dell’angelificio locale, merletti di legno fiammante; il panneggio abbondante e articolato, cesellato a protezione delle sacre anatomie; le linee morbide del modellato sbalzate dal  fluire del disegno elegiaco; i volumi tesi ma equilibrati, di un classicismo rivolto più alla pittura seicentesca che alla coeva scultura baroccheggiante, salvo minimi vezzi rococò e l’esuberanza cromatica. Evocazioni di un lirismo d’arcadia letteraria.Benché mutilo di piedino destro e di alcune falangi delle mani, l’elegantissimo Raffaele incede con la leggerezza di uno spirito danzante e, come un’arpista, ci conduce silenzioso nella contemplazione del bene. Tutta la rappresentazione si sublima nel suo volto d’intelligenza estatica, testolina biondo-chiomata, armonicamente sproporzionata sul corpo slanciato di guaritore divino. È negli occhi angelici, custodi delle visioni di Dio, che l’originalità dello scultore ci lascia attoniti: palpebre di taglio orientale, bisturi celesti sulle opacità terrene.
 Su quante spalle hanno viaggiato i due pellegrini, in quanti occhi, sospesi tra fede e folclore. E se per duecento anni la statua è stata amata e invocata dai nostri antichi concittadini, possiamo farlo anche noi, apostoli della bellezza. Per apprezzare meglio l’opera, sarebbe opportuno leggere il racconto biblico “Libro di Tobia”, un manualetto di pietà filiale, codice della carità autentica, quella fatta da chi vive in povertà, da chi non ha niente se non se stesso.Da meta turistica ad improbabile tappa angelica. A Vieste si sono avverate le parole iniziatiche della guida alata: «sani e salvi partiamo, sani e salvi ritorneremo». Così termina il viaggio di Rafa-El e Tobhj-Yah viestani.Ben tornati.Francesco Lorusso (ass. Camera Cromatica)