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Sulla Tavola del passato/ Quando la Puglia antica mangiava le sardelle. Il pesce di Vieste e lampascioni della Murgia nella let


Sulla Tavola del passato/ Quando la Puglia antica mangiava le sardelle. Il pesce di Vieste e lampascioni della Murgia nella letteratura. StampaEmail 
  Le «sardelle salate» di Vieste e il polpo arricciato di Bari. Nella Fi­sica Appula (1806) di Michelangelo Manicone si legge che in passato a Vieste era molto fiorente la conservazione sotto sale di sarde e «sardelle», poi quasi del tutto scomparsa soprattutto a causa del «rovescia­mento della disciplina pescatoria» ossia dei dan­ni provocati ai fondali del mare garganico dagli «strascini» delle tartane baresi e tranesi: «Enri­co Bacco nel Regno di Napoli diviso in dodici provincie riferisce che nel mare della città di Viesti si faceva la pesca delle sarde, che una tale pesca facevasi nella primavera con centinaia e centinaia di barche e che se ne prendevano in tanta copia che salate poi si mandavano in altri paesi e città della provincia. Al presente questa pesca è quasi abbandonata. Ma se al primiero stato di floridezza ed attività vi si riconducesse, certo che i Dalmatini non estrarrebbon tanto denaro dalla Daunia per la vendita delle sarde salate che vengono a fame». Un po’ dappertutto, invece, si pescava e si preparava il polpo, soprattutto quello rizzuto, arricciato: una vera e propria delizia dei buon­gustai più esigenti dell’entroterra e delle coste, capace anche di conquistare con i suoi tentacoli un raffinato poeta del nostro Novecento come Vittorio Bodini il quale ne descrisse con grande efficacia il faticoso, impegnativo rito della bat­titura sullo scoglio, metafora dei suoi pensieri e della pena esistenziale degli uomini: «Come un polpo sbattuto /contro lo scoglio / si arriccio­lavano i miei pensieri / a Bari fra le barche verdi e gli inviti / favolosi dei venditori / di quella iridescente pena». Dai lampagioni al tordo al «solcio». Per quanto riguarda invece i piatti “terragni” basti pensare a una serie di pietanze tanto gustose quanto povere perché preparate con erbe spontanee (senape, bietole, cicorielle, finocchio selvatico, ravanelli ecc.), con lampagioni, di cui esistono diverse varietà tra le quali la più pre­giata è proprio quella pugliese, e con selvaggina e cacciagione di ogni tipo. Come per es. la specie di uccello forse più ricercata e gustosa, quella dei tordi, che con l’inizio dell’autunno lasciano i freddi Paesi del Nord per raggiungere le nostre contrade, dove finiscono spesso per lasciare le «piume»: una caccia molto presente, tra l’altro, nell’immaginario collettivo popolare come te­stimoniano i proverbi San Francesco il tordo e il fresco, San Francesco il tordo al desco e so­prattutto San Francesco il tordo al fischio che ricorda l’abilità dei cacciatori di attirare gli uccelli con il suono di rudimentali fischietti. Particolarmente bravi in questo tipo di caccia con cappi realizzati con il crine dei cavalli teso tra gli alberi e i cespugli dei boschi erano i castellanesi, esperti anche nel prepararli in sa­lamoia («o sulz»): dopo averli così «conciati» non solo rendevano meno frugali i pasti della stagione invernale, ma deliziavano il palato dei concittadini emigrati spedendoli in barattoli di latta anche in America.   Torcinelli, cazzemarre e «porci alla pampanella» Non meno prelibate, anche perché condite nei più svaria­ti modi, le carni degli animali da allevamento (dal maiale all’agnello, dal cavallo all’asi­no, dal tacchino alla pecora) di cui ancora oggi non si but­tano le interiora perché utili a confezionare piatti tanto poveri quanto gustosi dai nomi a volte strani e contorti come tor­cinelli, trònere e cazzemarre, ovvero grossi in­voltini di interiora «cazzate», schiacciate du­rante la preparazione. E a proposito di carni saporite e di nomi strani o meglio «perduti» basta ricordare un’antica «ricetta» tipica dei pastori del Gargano, quella dei «Porci cotti alla pampanella», accuratamente descritta ancora una volta dal Manicone: «Nel Gargano gl’inquisiti, i ladri e i porcari rubano de’ porci, gli ammazzano, gli sventrano e per cuocerli gli acconciano in questa maniera. Indi in distanza di due o tre palmi dal fondo di essa buca vi pongono orizzontalmente delle grosse legna pa­rallele tra di loro e su questa graticola di legno vi acconciano il porco. Poscia fanno sul porco uno strato di felce, o di altre foglie, che cuoprono di terra. Finalmente su questo strato di terra vi accendono un gran fuoco, che pur cuoprono di terra. Il porco in tal guisa acconciato a capo di tre giorni è già giunto alla perfetta cottura; e dicesi che questo piatto della natura sia sì dilicato che tentar potrebbe di gola lo stesso Apicio». La descrizione delle modalità e dei tempi di cottura del maiale spinge inoltre il frate a in­teressanti considerazioni di carattere lingui­stico: a suo avviso, l’espressione «alla pampa­nella» potrebbe essere inserita a pieno titolo e «senza scrupolo» nel Vocabolario della Crusca se non persistesse ancora da parte dell’omo­nima accademia fiorentina un atteggiamento comunque ostile nei confronti di parole «non purgate nell’Arno»: «Or questo metodo di ar­rostire il porco, metodo universale fra’ pastori del Gargano appellasi il porco alla pampanella. Questa è un’espressione ben costrutta, ben de­rivata e significantissima perché dimostra bene la cottura del porco fatta colle foglie degli alberi. Il Vocabolario della Crusca è dunque pregato di accettarla senza scrupolo. Ma sgraziatamente in fatto di lingua non v’è salute fuor di Toscana. L’Accademia della Crusca crede lorda e schifosa ogni parola che non sia purgata nell’Arno».   La farinella e il sugo di «pesce fuggito». Si tratta, insomma, di una cucina «naturale» e povera come del resto fanno pensare non solo gli spaghetti alla poveraccia o le cozze alla poverella, ma anche le pagine di cronisti e scrittori forestieri o stranieri che parlano di farine tutt’altro che bianche e perciò meno pregiate e  costose di quelle ricavate dal grano, delle quali si nutrivano soprattutto i ceti meno abbienti. Di questa categoria faceva certamente parte la «farinella» che i contadini spesso ingoiavano nelle pause di lavoro correndo il rischio di rimanere soffocati e che alla fine dell’Ottocento attirò, l'attenzione della scrittrice inglese Janet Ross: “E gli abitanti poi di alcuni paesi delle Murge mangiano la così detta farinella che è la farina del granturco, dei piselli, delle castagne già abbrustolite al forno, e che-povera gente-mangia così, senza neanche tentare di cuocere o d’impastare. Questi paesi, Noci, Alberobello, ecc. sono chiamati dagli altri “paesi di farinella”, appunto per indicarne la povertà» (Viaggio nella terra di Manfredi, 1889).    Ma - ricorda L. Sada - c’era un “piatto” che forse ancor più della farinella era eloquente, affamata metafora della miseria di chi viveva lungo le coste: una miseria e una fame che potevano essere addirittura alleviate dai “Ver­micelli col sugo di pesce fuggito” ovvero dalla «bollitura di conchiglie e pietre di mare con alga. Una volta ristretto e schiumato si faceva cuocere con un po’ di sedano e basilico, cipolla, pepe, pomodoro ed olio». Pietro Sisto gazzettamezzogiorno