San Menaio (1950 – 1960): gli imperdibili anni (ultima puntata)di Giuseppe Maratea Per Giuseppe D’Addetta, avvocato, direttore del mensile Il Gargano, organo di rinascita del Promontorio (il periodico, non dismettendo il bon ton del “salotto buono”, aveva spesso intrapreso meritorie battaglie civili contro le Istituzioni sonnolente e inadempienti), la difesa delle autentiche tradizioni garganiche e sanmenaiole fu una vera religione.Nel 1953 – un fulmine a ciel sereno – Tommaso Fiore ne “Il cafone all’inferno” tracciò un quadro impietoso e fortemente ideologizzato di una borghesia garganica manierata e un po’ fasulla, attestata su posizioni di retriva conservazione.Lasciato il Gargano (nel suo “viaggio” era accompagnato dal giovane Giuseppe Cassieri) il famoso meridionalista altamurano espresse un giudizio devastante sull’intellighenzia locale: “Ne ho fin sopra i capelli: è una fucina di pettegolezzi, una fiera delle vanità, una messinscena, una mascherata permanente, un’espressione archeologica”.Si trattò, probabilmente, di esagerazioni, che fecero, però, comprendere che i “tempi nuovi” erano alle porte.Nonostante l’intemerata di Fiore, Francesco Delli Muti (“don Cecchino”) fu capace di accreditarsi come uomo colto e prolifico scrittore (“Le Isole Tremiti”, “L’Archeologia garganica”…): fama di gran signore e (più presunta che vera) di sublime jettatore, a seguito di rapporti ravvicinati, spesso amichevoli, intessuti con decine di persone che contavano, aveva avuto dal Regime benefici forse sproporzionati rispetto ai suoi meriti. Con l’avvento della Repubblica, seguì la moda e si lasciò andare a imbarazzanti dichiarazioni di fede democristiana, che sarebbero servite a poco, se non avesse avuto la fortuna di intercettare la benevolenza dell’onorevole Gustavo De Meo che lo prese sotto la sua protezione: geometra, “possidente”, organizzatore di eventi culturali tesi sempre alla promozione turistica del territorio, finanziere, imprenditore, uomo di molteplici relazioni pubbliche e private, “don Cecchino” conosceva profondamente San Menaio, le sue vestigia, la sua anima antica. La stampa lo cercava, scriveva di lui, faceva pubblicità alle sue strutture turistiche (Bellariva, Villa Maria, il Camping della “pro San Menaio”…) e ai suoi libri (quello sulle Isole Tremiti è tuttora un classico della letteratura odeporica sulle Diomedee, e “l’Archeologia garganica” resta una silloge preziosa sulle campagne di scavo sul Gargano di Rellini, Battaglia, Ferri, Corrain…) “don Cecchino” aveva uno strano carisma, molti lo temevano, e gli operai della “pro San Menaio”, che lavoravano per lui, non lo amavano anche perché li pagava poco. Gli appoggi politici, però, gli consentivano di rimanere a galla e di eliminare dalla sua strada i concorrenti più agguerriti. Eppoi, lui si occupava di San Menaio, cui non aveva mai pensato nessuno e intuiva quali possibilità di sviluppo e di prosperità nascondesse, mentre i suoi avversari si abbandonavano alla solita sconvolgente geremiade di insinuazioni.
San Menaio (1950 – 1960): gli imperdibili anni (ultima puntata) di Giuseppe Maratea
San Menaio (1950 – 1960): gli imperdibili anni (ultima puntata)di Giuseppe Maratea Per Giuseppe D’Addetta, avvocato, direttore del mensile Il Gargano, organo di rinascita del Promontorio (il periodico, non dismettendo il bon ton del “salotto buono”, aveva spesso intrapreso meritorie battaglie civili contro le Istituzioni sonnolente e inadempienti), la difesa delle autentiche tradizioni garganiche e sanmenaiole fu una vera religione.Nel 1953 – un fulmine a ciel sereno – Tommaso Fiore ne “Il cafone all’inferno” tracciò un quadro impietoso e fortemente ideologizzato di una borghesia garganica manierata e un po’ fasulla, attestata su posizioni di retriva conservazione.Lasciato il Gargano (nel suo “viaggio” era accompagnato dal giovane Giuseppe Cassieri) il famoso meridionalista altamurano espresse un giudizio devastante sull’intellighenzia locale: “Ne ho fin sopra i capelli: è una fucina di pettegolezzi, una fiera delle vanità, una messinscena, una mascherata permanente, un’espressione archeologica”.Si trattò, probabilmente, di esagerazioni, che fecero, però, comprendere che i “tempi nuovi” erano alle porte.Nonostante l’intemerata di Fiore, Francesco Delli Muti (“don Cecchino”) fu capace di accreditarsi come uomo colto e prolifico scrittore (“Le Isole Tremiti”, “L’Archeologia garganica”…): fama di gran signore e (più presunta che vera) di sublime jettatore, a seguito di rapporti ravvicinati, spesso amichevoli, intessuti con decine di persone che contavano, aveva avuto dal Regime benefici forse sproporzionati rispetto ai suoi meriti. Con l’avvento della Repubblica, seguì la moda e si lasciò andare a imbarazzanti dichiarazioni di fede democristiana, che sarebbero servite a poco, se non avesse avuto la fortuna di intercettare la benevolenza dell’onorevole Gustavo De Meo che lo prese sotto la sua protezione: geometra, “possidente”, organizzatore di eventi culturali tesi sempre alla promozione turistica del territorio, finanziere, imprenditore, uomo di molteplici relazioni pubbliche e private, “don Cecchino” conosceva profondamente San Menaio, le sue vestigia, la sua anima antica. La stampa lo cercava, scriveva di lui, faceva pubblicità alle sue strutture turistiche (Bellariva, Villa Maria, il Camping della “pro San Menaio”…) e ai suoi libri (quello sulle Isole Tremiti è tuttora un classico della letteratura odeporica sulle Diomedee, e “l’Archeologia garganica” resta una silloge preziosa sulle campagne di scavo sul Gargano di Rellini, Battaglia, Ferri, Corrain…) “don Cecchino” aveva uno strano carisma, molti lo temevano, e gli operai della “pro San Menaio”, che lavoravano per lui, non lo amavano anche perché li pagava poco. Gli appoggi politici, però, gli consentivano di rimanere a galla e di eliminare dalla sua strada i concorrenti più agguerriti. Eppoi, lui si occupava di San Menaio, cui non aveva mai pensato nessuno e intuiva quali possibilità di sviluppo e di prosperità nascondesse, mentre i suoi avversari si abbandonavano alla solita sconvolgente geremiade di insinuazioni.