Il Gargano disse che

«Mio marito Aldo ucciso dalla leucemia per l’uranio impoverito»


«Mio marito Aldo ucciso dalla leucemia per l’uranio impoverito»
 
di GIANPAOLO BALSAMOCORATO - «Nessuno forse ammetterà mai le cause che hanno portato alla morte di mio marito ma io andrò avanti e continuerò a cercare la verità, per rispetto non soltanto nei confronti del mio Aldo ma anche di tutti quei ragazzi che si sono ammalati e sono deceduti dopo essere stati in missione all’este - ro». Sono le parole dirette di una moglie ferita, arrabbiata, che vuole soltanto conoscere perchè suo marito è morto. Rachele Mazzilli, 30 anni di Corato è la vedova del caporale maggiore Cataldo Taccardo, paracadutista al 187° Reggimento «Folgore», morto nel settembre 2004 a causa di una «emorragia cerebrale con leucemia mieloide acuta». Aldo aveva appena 29 anni e, undici anni prima, nel 1993 aveva preso parte ad una «missione di pace» in Somalia come autista di mezzi militari. Ma, pare, sarebbe stato incaricato anche a pulire le armi. Lì, in quel tremendo teatro di guerra, rimase dodici mesi prima di rientrare in Italia. Si fidanzò, si sposò, ebbe una bambina ma 40 giorni dopo il lieto evento, Aldo morì. E sul suo dramma, ancora una volta, si affaccia lo spettro del «metallo del disonore»: l'uranio impoverito. Signora Rachele, cosa mi può raccontare di quel periodo? «Ricordo tutto perfettamente, come se fosse avvenuto ieri. È successo tutto in tre giorni, senza neanche capire cosa stesse accadendo. La mia triste e brutta storia inizia nel settembre del 2004, in vacanza. Da premettere che la mia attuale figlia, Angelica, era nata da 40 giorni. Mio marito si svegliò una mattina dicendo che aveva la febbre, andò dal dottore che gli diede un antibiotico generico. Verso sera la febbre calò, la mattina seguente si svegliò dicendomi che urinava sangue e così di corsa andammo all’ospedale di Andria. Qui lo tennero in pronto soccorso fino alle 11.30, una infermiera mi disse che non era niente, anzi mi accennò solo che erano delle vene che erano "impazzite". Mi disse anche che bisognava trasportarlo in un altro ospedale, quello di Trani. Ci fecero andare in macchina, perchè lui poteva guidare. Quando arrivammo all'ospedale di Trani c'era già ad aspettarci il primario, il quale, avendo saputo che non avevamo preso l'ambulanza, si arrabbiò, perchè in quel contesto mio marito non poteva assolutamente guidare, visto la gravità della situazione di cui noi però non sapevamo ancora nulla. Lo ricoverarono subito e fecero svariati esami, compresa l'aspirazione del midollo dallo sterno, dopo ore lo rividi e lui mi disse che gli faceva molto male, ma io non capii ancora la gravità della cosa, nessuno mi diceva niente». Quali sono state le ultime parole che suo marito le ha rivolto? «Era il pomeriggio dell’8 settembre. Aldo stava soffrendo. Mi esortò ad allattare Angelica e mi pregò di non piangere. Poi, si girò di lato e da quel momento non parlò più. Entrò in coma sono al giorno successivo quando, intorno alle 14.30, fummo chiamati dal personale dell’ospedale tranese. “Chi sono i parenti di Taccardo? È morto”. Quelle parole, quella freddezza inaudita non potrò più dimenticarle». Rachele Mazzilli è una donna tenace, tuttora innamorata del suo Aldo che, con la voce emozionata, lo descrive così: «Era un uomo fantastico. Io sono di corporatura esile. Lui era un “omone”, la mia “roccia”. Con lui mi sentivo protetta e tuttora la sua presenza l’avverlo vicino a me». Rachele vive con Angelica a Cologno Monzese. Lavora in un call center e abita nella casa che Aldo Taccardo costruì con i suoi sacrifici quando lavorava come carrozziere a Sesto San Giovanni. Doveva essere il loro nido d’amore, la casa dove Aldo e Rachele avrebbero dovuto vivere felicemente, prendendosi cura dei loro bambini. Come mai pensa che l’uranio impoverito possa centrare con la morte di Aldo? «In questi anni non sono riuscita a darmi pace. La morte di Aldo è stata così veloce, così maledettamente strana. Io mi porto ancora oggi una rabbia alla quale non riesco a dare sfogo e tregua perchè mi chiedo sempre: “perché a me?”, “perché a lui? alla nostra famiglia, alla nostra figlia appena nata?”. Poi, navigando su internet, ho letto le storie dei familiari delle tante vittime tra i militari reduci dalle missioni all’estero, malati e famiglie che spesso si ritrovano da soli a combattere mali spesso incurabili. Alcuni “calvari” erano uguali a quello che io ho vissuto. Anche altri giovani militari sono morti di leucemia fulminante». Fino a quando Rachele, con una struggente lettera, ha contattato il legale dell’Associazione Vittime Uranio, Bruno Ciarmoli del Foro di Bari. Signora cosa intende fare adesso? «Il ricordo di mio marito è sempre vivo in me e negli occhi di mia figlia . Lui vive non solo dentro i nostri cuori ma è presente con le sue immagini ovunque, in casa, al lavoro. Questo per non scordare mai l'uomo che ho amato e che sempre amerò e per ricordare anche a mia figlia l'amore che quest'uomo ha donato, se pur per breve tempo, a tutti noi». «Papà è il mio angioletto», lo descrive la sua bambina. Un angelo strappato alla vita prematuramente. Forse la nona vittima pugliese (la seconda in provincia di Bari) stroncata dal maledetto uranio impoverito. Che continua la sua strage silenziosa. La strage degli innocenti.