L’ITALIE INCONNUE. VOYAGES DANS L’ANCIEN ROYAUME DE NAPLES
1899
Storico dell’arte e acuto conoscitore di monumenti e testimonianze artistiche dell’Italia meridionale, Émile Bertaux (1869-1917) mostra quasi infatuazione per la montagna garganica.
Nella monografia descrittiva L’Italie inconnue. Voyages dans l’ancien Royaume de Naples, pubblicata nella rivista Le Tour du Monde del 17 giugno 1889, si chiede: “Dov’è, in tutta Europa, un’altra regione che offre dei contrasti più stupefacenti di questa montagna, piena di leggende e misteri?”.
Una regione – scriverà qualche anno dopo in Visioni italiche il pittore piacentino Giulio Ferrari – “dove sono fiori d’arte mediovale preziosissimi; dove salgono ancora i veri romei, gli antichi pellegrini dal bastone ornato del ramo di pino, cogli immutati riti, con quella fede che teneva le menti nel più fervido medioevo”.
Il testo riportato dal Bertaux è stato tradotto da Antonella Soccio. Il regno fantastico di Diomede
Da Rodi vedevo l’arcipelago delle Tremiti stagliarsi sull’orizzonte del mare e non potevo resistere alla tentazione di recarmici per guardare da vicino le isole che, col Gargano e il Tavoliere, un tempo hanno dato vita al regno fantastico di Diomede.
Molti ricordi storici mi spingevano là. Se non potevo sperare di scoprire la tomba di Giulia, nipote di Augusto, che morì esiliata in questo scoglio sperduto, contavo di trovare alcune rovine dell’abbazia che, al tempo della potenza benedettina, fu un Monte Cassino in mare aperto.
Noleggiai dunque una barca di pescatori in una bella mattinata e un buon vento di scirocco. Il viaggio hi accidentato. I marinai, prudenti come i compagni di Ulisse, evitarono di lasciarsi trascinare dal vento contrario, diritto sulle isole. Seguendo l’usanza antica, costeggiarono la montagna fino alla punta che separa le due lagune di Lesina e di Varano, e che dista da Tremiti non più di venti miglia marine. Ma a mezzogiorno cadde la calma, che i marinai dell’Adriatico chiamano la «bonaccia morta».
Dopo avere appreso in poche ore tutte le bestemmie che un pescatore del Gargano può proferire contro i Santi e Cristo in persona, quando è scontento di loro, arrivata la sera, gettammo l’ancora dinanzi alla spiaggia deserta di Varano e dormimmo, né bene né male, nella barca stessa, sotto la vela.
L’indomani prima dell’alba, il vento di terra ci trascinò al largo e alle undici del mattino, più di venti quattro ore dalla partenza da Rodi, sbarcavo finalmente alla piccola «marina» dell’isola di San Nicola. Carabinieri e guardiaciurme, armati fino ai denti, ci aspettavano sulla spiaggia: quest’isola, infatti, come l’Elba e una delle Ponza, oggi funge da bagno penale.
Tiro dalla tasca l’autorizzazione ufficiale a visitare le prigioni e le caserme, che mi era stata concessa, con la più perfetta cortestia, dal governo italiano, e, sotto buona scorta, mi incammino per sentieri coperti, oltrepassando postierle fiancheggiate da torri e percorrendo tutto un dedalo di fortificazioni del XVI secolo. Il direttore della prigione mi riceve molto amabilmente, mi invita a pranzo e mi fa preparare una stanza.
Un pomeriggio e un’intera mattinata sono appena sufficienti per esaminare attentamente il terreno e le costruzioni. Le Tremiti sono tre: l’isola di San Nicola, cinta dalle costruzioni dell’abbazia fortificata, oggi trasformata in luogo di detenzione; l’isola di San Domino, interamente boscosa o coltivata, dove i benedettini facevano un eccellente vino che serve ancora alla messa del buon prete dell’isola vicina, e di cui io posso, conoscendolo, vantare l’aroma e il bouquet.
L’isola Caprara, molto più piccola delle altre due, è arida e deserta. Dall’alto del faro dell’isola di San Nicola si scorge ad est Pianosa, dove, con una buona vista, si possono distinguere due capanne di pescatori. Più lontano ancora, proprio in mezzo all’Adriatico, è Pelagosa che non appartiene più all’Italia. Da pochi anni, l’Austria ha in possesso quest’isola deserta, come res nullius il che provocò le proteste violente del deputato Carlo Imbriani, il terribile ragazzo dell’irredentismo.
Ho potuto, nel corso di un viaggio a bordo del Sénégal, passare a mezzo miglio da Pelagosa. Quest’isola è una sorella delle Tremiti, così perfettamente identica alle isole italiane, da sembrare uscita dallo stesso blocco di calcare. Della stessa formazione sono le grandi isole dalmate, di cui la più vicina è Lagosta. Si deve dire però che le Tremiti, con la foresta di San Domino e la faccia pelata di Caprara, sembrano un piccolo Gargano con le sue due regioni, una arida, l’altra verdeggiante, che un cataclisma avrebbe mandato in pezzi.
E nel vedere le pareti frantumate di queste isole, che sembrano essere state violentemente separate, si è presi dall’evidenza di questa ipotesi, messa in luce da Suess: la montagna italica e le isole vicine hanno fatto parte di un grande continente adriatico, un giorno crollato, come le isole dalmate.
L’abbazia, così arditamente costruita su questi scogli, che sembrano pronti essi stessi a sprofondarsi in un terremoto, non ha conservato costruzioni anteriori alla fine del secolo XVI. Solo la chiesa contiene pezzi considerevoli di un pavimento istoriato del XII secolo e un magnifico retablo veneziano di legno scolpito e dorato.
La faccia, decorata con buone sculture, porta i buchi delle palle di cannone che nel 1809 la flotta austro-russa lanciò contro il battaglione cisalpino che difendeva l’isola, in nome di Napoleone. Già, nel XVI secolo, la superba fortezza dei benedettini, allora in possesso dei Regolari Lateranensi, aveva resistito coraggiosamente all’attacco dei vascelli turchi, comandati dal pascià Pialy.
Quando volli lasciare l’isola, il vento si era alzato, e, per ritrovare la terra ferma, dovetti prendere una barca di pescatori dell’isola di San Nicola e far rotta per Termoli. La bora aspra e fredda sollevò la barca leggera; le onde alte spumeggiavano e sbattevano contro la bordatura. Un branco di delfini apparve sulla nostra scia e ci sfidò alla corsa.
Allora io mi ritenni fuori del nostro secolo in questo battellino, simile a quelli che avevano portato verso la montagna cinta di nuvole, i pirati ellenici o illirici, in mezzo ai familiari delfìni che ascoltavano la musica delle isole greche popolate di poeti, e che avevano trasportato sui flutti dell’arcipelago il cantore di Lesbo. I gabbiani che sfioravano la barca, lanciandoci un grido di richiamo, non erano i compagni di Diomede che Zeus, dopo la morte dell’eroe, trasformò in uccelli marini?
Così mi lasciavo andare sul filo dei ricordi classici, quando un marinaio si mise a intonare una canzone contrastante col ritmo lento e doloroso dei canti dei montanari del Gargano. Un nome mi colpì: «Caserio!».
E capii, ascoltando altre parole che suonavano stranamente sulla bocca di questi uomini semplici: «Sociale», «l’Internazionale»… Un altro marinaio, trascinato dall’esempio, prese a cantare l’«Inno dei lavoratori». Quelli che avevano portato questi canti di nuove battaglie nell’isola di Diomede, di Giulia Augusta e dei monaci di San Benedetto, erano gli ottocento uomini di ogni nazione, di ogni sorte, che il capriccio di un ministro dittatore aveva riunito su quest’isola, in cui dovevano trovare, secondo un amabile eufemismo, il domicilio forzato, domicilio coatto. Gli isolani di Tremiti cantavano al mare le canzoni sovversive degli «anarchici» di Crispi.
Émile Bertaux (1869-1917)
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