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« ... e sul silenzio

Paris, Texas non è un film. E' un viaggio.

Post n°13 pubblicato il 14 Dicembre 2009 da tommyknocker_5

Le pellicole hanno la capacità di trasportarti dentro una storia: magari in mondi fantastici e straordinari. E' certo la magia del cinema. Ma cosa succede se il racconto è essenzialmente basato su un viaggio interiore? Un viaggio che, consapevolmente o meno, tutti noi siamo costretti a fare ad un certo punto della nostra vita?
Come tornare indietro nel tempo, ricomporre i cocci, e ripartire da un punto fermo.
"Ma non deve essere un vagare senza meta in un nowhere: è una rinascita sofferta che passa attraverso il dolore e la riconciliazione."

E' Paris, Texas:  il toponimo di un non-luogo; un no-sense cartografico. Ma solo un pretesto. Perchè il percorso vero è quello segnato nell’anima. E il deserto che attraversa è vuoto solo in apparenza. Quel silenzio che ruota intorno a quella natura secca e polverosa, stride con una inquietudine profonda che racconta una storia dolorosa, e tutta umana. E' uno spazio dove le persone vagando si tormentano in the middle of nowhere. Come fossero auto che hanno “forato” lungo il percorso della loro esistenza. "La polvere qui nel cuore del deserto del Mojave è venuta ed è intenzionata a restarci, tu invece puoi stare o andartene, fa lo stesso." Così c'è scritto sul cartello appeso nel bar all’inizio del film. E il personaggio è uno intenzionato a restarci. Perchè è un uomo che ad un certo punto del suo “viaggio” si è improvvisamente scoperto inadatto al ruolo che la vita gli stava confezionando addosso di marito e di padre. Quello che lo ha spinto ad intraprendere la più dolorosa delle fughe, è sicuramente la paura di un fallimento esistenziale. Così da fargli desiderare quel deserto, tutto quel “nulla” e quel silenzio. Ma è una fuga al contrario, è una rivolta consapevole, una volontaria separazione dalla realtà che prelude al desiderio di ristabilire una connessione profonda con il passato. Il passato è tutto racchiuso in una vecchia foto. Racconta di un luogo tutto particolare. Quello è il “suo” pezzo di terra, quello dove probabilmente i suoi genitori lo hanno concepito e quello che lui ha comprato per corrispondenza all’inizio del suo matrimonio: si trova a Paris, Texas, USA. E' come scavare in profondità nelle memorie di un passato lontano. Restaurare con pazienza i brandelli di tela che componevano il quadro del nostro “essere stati”. Un quadro importantissimo e necessario. Perchè senza quell’essere stati oggi non saremmo qui. Sottrarre alla sofferenza i nodi irrisolti, gli errori commessi ed i traumi subiti, che pesano come macigni sul nostro “essere ora”. Ricomporre il nastro interrotto del vissuto per poter “essere domani” (nella estensione-proiezione di un rapporto padre-figlio). Non ci può essere futuro senza passato, non si può avere una meta senza sapere da dove è cominciato il viaggio, non è possibile scrivere una storia che abbia un bel finale senza averne scritto un inizio (e non importa se sia bello e brutto, l’importante è che sia ben presente e chiaro a noi stessi). Travis dall’incontro col figlio ritrovato e dal ricordo dei genitori trae la forza per riallacciare i rapporti con sua moglie, donna bellissima. Il suo scopo è la ricomposizione di una frantumata unità familiare. Da questa unità, una volta raggiunta, egli si chiamerà fuori. Travis è un rabdomante nel deserto, un assetato cercatore d’acqua (sollievo, conforto, verità), un Ulisse impegnato nella sua Odissea esistenziale, e come tale destinato alla solitudine. La sua dimensione è il cammino. Un silenzioso cammino.

 
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