l'urgenza dell'arte

James Joyce e la rivelazioe


Nell'epica della parola e della sua deificazione il vecchio J J mi ha aperto la mente e il cuore alla vita, alla scrittura. Nel calderone enceclopedico dell Ulysses, epopea dei diciotto stili, delle diciotto ore, delle diciotto diversidficazioni simboliche della realtà e della conoscenza, dove il Tutto nel Tutto si fa gioco sublime, inferiore solo al gioco del grandioso Hidalgo, del prode Cervantes De Saavedra, Don Chishotte. Più grande di Sterne, straripaante di questo vitalsimo della parola, inferiore solo al suo allievo, quel mistico e austero poeta delle ombre, Beckett. E ancora quella grandisoa Totalità, osessionante e spaesante che portò l'irlandese a quell'opera di magia chiamata Finnegan's Wake, dove npn v'era pace se non nella parola alchemica e piena dell'univereso da sé  sola e  insieme cicilicamente connessa alle altre tutte nell'alchmia di un druido che insngue l'arcobaleno. Un uomo tutti gli uomini. Morta questa fede epica nel corso del Novecento mi ha tuttavia  salvato. Avevo diciannove anni e voleo morire. Perché allora giurai a me stesso, sarei diventato uno scrittore o sarei morto. Sono passati dieci anni, ho pubblicato tre romanzi di fondamentale importanza, ce l' ho fatta, sono uno scrittore     . Andrea Foschini