Racconti a pezzi

6 - Bagheria


10 agosto 2007. “Il nome Bagheria pare che venga da Bab el Gherib che in arabo significa porta del vento. Altri dicono invece che Bagheria provenga dalla parola Bahariah che vuol dire marina. Io preferisco pensarla come porta del vento perché di marino ha molto poco, Bagheria”. D. Maraini, “Bagheria”.Il girovagare di ieri, concluso con una lauta cena a casa di amici di Gigi, ci ha convinto ad essere più pigri quest’oggi. Domani ci rimetteremo in viaggio, decidiamo allora di prendercela comoda e andiamo un po’ a zonzo per le vie di Bagheria. In fondo, soggiornare in un luogo è anche viverlo nella sua quotidianità. L’unico obiettivo dichiarato della giornata è una visita a Villa Cattolica, dove riposano le ceneri di Renato Guttuso e si possono ammirare alcune opere del celebre pittore e scultore sicliano. Parcheggiamo poco distante da Corso Umberto I, vicino a Via Trabia, facendo attenzione a non finire tra le grinfie del posteggiatore abusivo che Gigi ci ha raccomandato di evitare. Gironzoliamo a piedi per un po’ e risaliamo il corso fino alla Chiesa di San Pietro. Rispetto a Cinisi, la vita per le strade è molto più movimentata, fuori dalle case di Corso Butera i vecchi, seduti sulle loro seggiole o sui gradini di qualche uscio sono molti di più, spesso raggruppati in capannelli fatti di gobbe, più o meno pronunciate, denti ingialliti dal tabacco, coppole (poche) e bastoni. Mi piacerebbe proprio sapere cos’avranno da dirsi per tutto il tempo che passano lì fuori, ogni giorno. Ora però sono indaffarato a tener testa all’andatura indiavolata di Giò, che entra ed esce da tutti i negozi di abbigliamento che incontra, come se dovesse recuperare i suoi week end di shopping recentemente mancati. Ci vediamo con Gigi per una granita, poi ci offre un passaggio a Villa Cattolica in auto. Anche se non è molto distante da dove ci troviamo adesso, accettiamo. Lungo la strada osservo un po’ incuriosito uno spiazzo grande quanto un campo da calcio, tutto asfaltato, chiuso da cancelli. Sulla superficie danzano, mosse dagli sbuffi di vento, cartacce e buste di nylon. Sembra la scena di quel che resta in un piazzale dopo un concerto o una grande manifestazione. Chiedo a Gigi. Mi dice che una, forse due volte alla settimana, ci fanno il mercato, poi rimane così, come lo vediamo adesso.A ridosso di Villa Cattolica, in tempi passati, hanno costruito uno stabilimento, sembra una vecchia fornace o qualcosa di simile. Al momento di entrare, il colorito scuro e vecchio dello stabilimento stride con il bianco dei muri della villa, distolgo lo sguardo e mi avvio con Giò alla biglietteria. Vorrei poter fare come Dacia Maraini, quando, di questa città, scrive “cerco di immaginarla com’era prima del disordine edilizio degli anni cinquanta, prima della distruzione sistematica delle sue bellezze”. Ma lo sforzo di immaginazione non mi riesce, forse perché non è giornata, o forse perché sono arrivato l’altro ieri e me ne vado domani, e questo sarà solo uno dei posti, in cui mi sono fermato un po’ di più nel corso del viaggio e nient’altro.Raggiungo Giò che sta aggiungendo la cenere della sua cicca alle ceneri di Guttuso. Fa sempre più caldo. Ci sediamo all’ombra del corpo centrale dell’edificio a godere della brezza calda che si appena levata. Le foglie delle palme, guardiani del monumento funebre, rumoreggiano come cicale, inizio a capire il perché di quel nome, Porta del Vento.Dopo un po’, le dico, andiamo? Fa cenno di sì con la testa e ci incamminiamo verso il centro. Nella calura di mezzogiorno non serve parlare. Siamo entrambi d’accordo, che accettare l’invito di Gigi sembra l’unica cosa saggia da fare per il pomeriggio, una bella pennichella e poi a mollo a Santa Flavia, dalle parti dei “carabinieri”, dove il mare è più tranquillo, soprattutto in giornate come queste, con il vento che fa increspare le onde.(Continua)