IL LAVORO

LA "FASE 2" DEVE ESSERE LA RICONVERSIONE DELL' ECONOMIA


Il compito, la mission, del neonominato “doctor Wolf” Vittorio Colao e del suo team quasi tutto composto da manager e consulenti della grande industria è chiaro: accelerare il ritorno alla «normalità produttiva»: quella che ci conduce, in allegra compagnia con molti altri paesi, alla catastrofe climatica e ambientale prossima ventura. In gran parte la sua sarà mera opera di copertura, perché più di metà delle fabbriche ha già ripreso o non ha mai smesso di produrre. Ma per chi? E perché? Per fare fronte a ordini in corso; o per non perdere le commesse future; o per impedire che ce le porti via un altro; o per dimostrare che si è in grado di rispondere a futuri nuovi ordini, rispondono gli imprenditori.Non importa se si tratta di produzioni essenziali o no; se si vuole evitare una recessione, o ridurne la gravità, tutte le fabbriche sono essenziali. Tutto deve riprendere come prima, a costo di sacrificare salute e vita degli operai, delle loro famiglie, dell’intera comunità. Prima gli italiani? No, prima la produzione, il mercato, il profitto.Ma proprio le imprese e i settori oggi in prima fila nell’imporre che si lavori costi quel che costi saranno anche, tra non molto, le prime a fare ricorso alla cassa integrazione e a mandare a casa gli operai che oggi costringono a lavorare.Per la produzione di armi – F35, sottomarini e cannoni – forse il problema non si pone, perché i committenti sono lo Stato, che continuerà a indebitarsi per pagarle, e altri governi, che fino a che l’ultima goccia di petrolio sgorgherà dal sottosuolo ne useranno i proventi per armarsi fino ai denti.Poi, forse, si dovrà ridimensionare anche quel mercato di morte.Ma chi comprerà le auto del 2020 e del 2021, quando gran parte di quelle prodotte nel 2018 e nel 2019 sono ancora nei piazzali in attesa – a prezzi scontati – di un compratore? E chi mai riuscirà a risollevare in pochi mesi o pochi anni un mercato crollato dell’83%? Certo, con la fine dello lock-down ci sarà una corsa a riprendere in mano il volante: è quello che invitano il sindaco di Milano e quelli come lui, perché sui mezzi pubblici si viaggerà distanziati e loro non intendono potenziare il servizio e organizzare uno scaglionamento degli orari di ingresso e di uscita da fabbriche e scuole.Ma tra riprendere a guidare l’auto vecchia e comprarne una nuova il salto è grande. E dietro al mercato europeo dell’auto entrerà in crisi gran parte dell’industria meccanica e della siderurgia, imponendo, tra l’altro, ai lavoratori e ai cittadini (liberi e pensanti) di Taranto di trovare quello che in dieci e più anni Governo e sindacati non hanno avuto coraggio o capacità di cercare: un’alternativa occupazionale a un’impresa comprata solo per chiuderla e accaparrarsene il mercato.E la moda? Altro pilastro del cosiddetto «made in Italy», opera per lo più del lavoro di altri Paesi. Molti ci penseranno due volte prima di rinnovare il guardaroba: se ne è accorto anche Armani. E senza una «ricaduta» popolare, l’alta moda delle sfilate rischia la fine di tutte le altre forme di turismo di lusso e dei «Grandi eventi»: fiere, expò, grandi mostre, campionati, grandi gare, olimpiadi.Il Giappone ne ha già avuto un assaggio. De profundis, quindi, anche per l’aeronautica civile. E per le crociere, rivelatesi veri focolai di contagio (e per la cantieristica italiana, in gran parte votata a questo mercato). Ma anche per le vacanze esotiche: l’dea di ritrovarsi in mezzo a contagi, incendi, uragani, guerre, rivolte di popolo, impossibilitati a tornare a casa, farà scegliere mete più a portata di mano (e non è detto che sia un male).Reggerà forse il turismo religioso: c’è tanto bisogno di miracoli. Il problema maggiore riguarda però agricoltura e alimentazione e ha poco a che fare con il coronavirus, ma molto con la crisi idrica, i cambiamenti climatici e la mancanza di manodopera schiava (quella fornita dagli immigrati «clandestini», da sempre sfruttati, ma ora bloccati). Si rischia una vera e propria crisi alimentare (con supermercati semivuoti; e sarà sempre più difficile importare cibo dall’estero) che farà capire a tutti che times are a-changing.Insomma, correre ai ripari non vuol dire massacrare lavoratori e comunità per riattivare le vecchie produzioni, ma mettere in cantiere quelle nuove: impianti per le rinnovabili e l’efficienza energetica, ristrutturazione del già costruito, gestione accurata di risorse e rifiuti, mezzi di trasporto collettivi o condivisi, agricoltura biologica e di prossimità, riassetto idrogeologico dei territori e tutto ciò che è legato alla prevenzione: ce n’è abbastanza per impiegare e riqualificare eserciti di disoccupati.Gli operai delle produzioni «non essenziali» sono i primi a sapere che il loro posto è a rischio; per questo, quando possono, scioperano o si oppongono all’inutile apertura delle loro fabbriche. E se non lo sanno, è perché autorità e sindacati non gli hanno mai detto la verità. Gliela hanno nascosta per paura di dover cambiar tutto, a partire da loro stessi e dal loro ruolo.Ma se non lo fanno loro lo devono fare movimenti come Fridays for future ed Extinction Rebellion. Partendo da scuole e università, oltre che dalle piazze, per coinvolgere di lì famiglie, quartieri, istituzioni e sindacati. Senza mai rinunciare però all’azione diretta, e all’appoggio –o per denunciare e progettare – dei saperi di scienziati ed esperti. Ce ne sono molti in giro, disoccupati o non valorizzati, ma desiderosi di mettersi al servizio di una vera riconversione. Costruiamo insieme un futuro diverso.  Guido Viale  il manifesto