Post n°183 pubblicato il 16 Febbraio 2012 da fulov
continua il concorso: In cucina con la Elliyna di Elliy - Writer Continuando a giocare in leggerezza siamo arrivati fino al dolce. Per partecipare dovrei fare un dolce, un ciambellone senza buco, beh a dire la verità non saprei nemmeno da dove iniziare, penso di aver bisogno dell'aiuto di un'esperta: La prodigiosa Maria Rosa Al mattino Mariarosa al Rincasando sul carretto Gallinella, Gallinella, Mucca bianca, mi vuoi dare Procurato il necessario Che fragranza! Che splendore! Ora ho capito come devo procedere, del resto se son capaci anche i bambini srà capace anche un cow boy vecchia maniera, almeno spero. |
Quando di sera nevica p.s. ho l'impressione che in questi giorni sia soprattutto la neve ad unire tutti gli italiani :)
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Questo blog ha partecipato e partecipa al supercalifragilistichespiralidoso gioco: In cucina con la Elliyna di Elliy - Writer con le seguenti stratosferiche pietanze, primo piatto "Bavette del cow boy, ricetta base: acqua, pasta bavette, pomodori pelati, carne in scatola, olio, origano e un pizzichino di peperoncino piccante (che fa tanto west!). Si raccomanda di tenere il cavallo fuori portata delle stoviglie, prima di sedersi a tavola slacciare gli speroni... Buon appetito! Commento dei commensali: secondo Filetti di Platessa Oceano Mare "Oggi cucino io, platessa!” con queste parole mi sono, senza via di scampo, iscritto al nuovo gioco della Elliyna bella. Ho fatto la spesa e all’ora fatidica mi sono preparato per questa prova. I filetti di platessa, quelli pescati nell’Atlantico, mi osservavano con sguardo glaciale… ma senza curarmi di loro ho proseguito in quello che era il momento clou della ricetta base: gettare i filetti nell’acqua bollente precedentemente salata. L’ho fatto con un po’ di apprensione ma quando ho avviato la musica (http://youtu.be/x5pRAg2Hlp4) mi sono sentito un cuoco competente e scrupoloso, in particolare quando, dopo pochi minuti, ho adagiato i filetti sul piatto che avevo precedentemente preparato. Condirli con olio, limone, prezzemolo e un po’ di pepe è stato uno spasso. E continua con... ?
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LA STRADA CHE NON PRESI di Robert Frost Due strade divergevano in un bosco giallo Poi presi l’altra, perché era altrettanto bella, Ed entrambe quella mattina erano lì uguali, Oh, misi da parte la prima per un altro giorno! Lo racconterò con un sospiro Robert Frost |
Dal Diario di Fulov Fuori, nel buio, si sentiva un coyote latrare, mi avvicinai alla finestra per scorgere la sagoma della bestia, inutilmente, se ne stava ben rintanato il vigliacco! Rabbrividendo per il freddo intenso tornai vicino al fuoco, avevo bisogno di riscaldarmi e di mettere qualcosa di buono nello stomaco, avevo passato l’intera giornata a cavallo nella prateria. Mentre l’acqua bolliva, mi versai un goccio di torcibudella, il freddo mi passò di colpo; di nuovo sentii il verso del coyote, più vicino questa volta, istintivamente portai la mano alla colt… “maledetto coyote” pensai e sputai nel fuoco sperando di non centrare la pentola che gorgogliava … dalla cassetta del cibo prelevai due grosse manciate di pasta che gettai nella pentola, era una pasta speciale che avevo trovato nell’emporio di Joe lo zoppo, vera pasta italiana: “italian macaroni” era scritto sull’etichetta . Mentre la pasta cuoceva cominciai a preparare il sugo, aprii una scatoletta di carne di manzo facendo leva con il coltello che usavo per scuoiare i bisonti, con lo stesso sistema aprii anche una scatola di pomodori, versai tutto nella padella che era sul fuoco, intanto cominciai a girare la pasta, pregustando la meritata pappata che avrei fatto di li a poco. Un nuovo ululato mi fece trasalire, di nuovo quel bastardo di un cane selvatico… impugnai una delle racchette da neve appesa alla parete della capanna e scolai la pasta, la versai nella padella e cominciai a mescolare il tutto, aggiungendo dell’olio, del peperoncino messicano e un bel pizzico di origano che avevo trovato sull’altipiano. La pasta cominciava a colorarsi di un bel rosso bruno, era un colore che mi piaceva, mi faceva pensare alla sottana di Mary la Rossa che ballava il can can nel Saloon di El Paso… sono sempre stato un sentimentale… ma non era il momento di distrarsi, la cena finalmente era pronta! Misi il piatto in tavola, spostando la sella e gli stivali, stappai una bottiglia di quel vino che avevo rubat… preso a Durango e mi sedetti con l’acquolina in bocca, pronto a divorare quel piattone di pasta che avevo preparato. Ancora una volta senti l’ululato di quella bestia, vicinissimo, “figlio di un cane” urlai e mi alzai di scatto brandendo ‘Matilda’ la mia sei colpi nella sinistra e un forchetta, ancora immacolata, nella destra… mi girai, le bavette emanavano un profumo invitante… decisi di ignorare quel rognoso sacco di pulci che aveva deciso di rovinarmi la cena, riposi la pistola nel fodero, mi calcai ben bene il cappello in testa e mi tuffai, letteralmente , sulle mie bavette del cow boy!! |
Natale del '43 Per molti anni, a casa mia, si è festeggiato un doppio Natale. La nonna paterna,abruzzese e cattolica, preparava per tempo il presepe. Era un gran presepe affollato di pastori, mucche, asinelli, Re Magi e in mezzo la grotta ricoperta di muschio, dove tra Maria e l’asinello in un bel cestino c’era Gesù. Mia madre, lituana ed ebrea, attorno alla stessa data si concentrava sul rito della Hannuka, tenendo acceso il vecchio candelabro a nove braccia, unica eredità e ricordo del padre, rabbino di Kowno. La nonna abruzzese e la mamma lituana avevano dimenticato le preghiere della loro infanzia, ma della festa, si chiamasse Natale o Hannuka, amavano il rituale che la prepara e l’accompagna. E dunque, i vestiti bianchi delle bambine, la tavola preparata con particolare cura, i numerosi antipasti di pesce, la minestra con l’arzilla, il cesto con il torrone, i fichi secchi e i dolci fritti, le statuine da tirar fuori con cura dalle scatole in cui erano state risposte l’anno precedente, l’odore delle candele che dovevano rimanere accese per non so quanti giorni. La festa dunque, nel mio ricordo, aveva assai poco di religioso. Ma era una vera festa, un incontro di più generazioni, con i vecchi a capotavola e i bambini allegramente ammessi alla cena dei grandi (senza scambi di regali, però, che allora non usavano; o meglio, i regali per i bambini, contrariamente a quanto accade oggi, arrivavano solo un paio di settimane dopo e non li portava Babbo Natale ma la Befana). Poi, dopo l’approvazione delle leggi razziali e con la guerra, anche il nostro Natale inevitabilmente cambiò. La nonna abruzzese che preparava il presepe non c’era più. E le relative statuine erano andate perdute in qualche frettoloso trasloco. Ma mia madre aveva conservato con cura il candelabro del nonno rabbino e continuava ad accenderne le candele per Hannuka. Nel corso degli anni la cena diventava sempre più sobria, e i dolci sempre più rari. E non sempre c’era mio padre, che allo scoppio della guerra era stato richiamato alle armi. Comunque, era sempre Natale o Hannuka, che dir si voglia. Una serata nella quale si intrecciavano i ricordi e i propositi per il futuro. E tuttavia, se debbo ricordare un Natale particolarmente ricco di emozione e di speranza, la mia memoria va immediatamente al Natale del 1943. A settembre era stato firmato l’armistizio, ma la guerra non era finita. Roma, occupata dai tedeschi, era entrata nel tunnel della fame e della paura. E affamati e impauriti eravamo anche noi nella nostra casa dietro piazzale Flaminio che ci era stata ceduta da un amico collezionista d’arte, rifugiato altrove in una sua villa di campagna. In città i trasporti erano incerti. Incerta l’erogazione del gas e dell’elettricità. Più che incerta la distribuzione dei viveri. La città era come stranita, percorsa da notizie e voci sempre più incontrollabili e inquietanti. A piazza del Popolo, a Porta Pia, a Porta Maggiore stazionavano i carri armati tedeschi. Si diceva che gli ebrei del Ghetto, non si sapeva quanti fossero, erano stati cacciati, di notte, dalle loro case, e poi caricati sui camion verso destinazione ignota.Si parlava, sottovoce degli uomini arrestati dalle Ss, trascinati in una palazzina di via Tasso e lì torturati a morte. Si parlava delle razzie operate dai tedeschi che, all’improvviso, circondavano un palazzo per stanare i giovani renitenti alla leva, nascosti da settimane nelle cantine, nelle soffitte o in qualche appartamento dietro un muro. La città viveva nella fame e nella paura. E nell’attesa dell’arrivo degli Alleati. Piazza San Pietro era tagliata in due da una striscia bianca disegnata in terra che delimitava l’inizio dello Stato della Città del Vaticano. I tedeschi non potevano varcare quella striscia di confine e si facevano fotografare lì, sullo sfondo della basilica, con aria divertita e marziale. A Villa Borghese pascolavano le pecore e le aiuole di Roma (anche quella di piazza Venezia) erano state trasformate in miserabili «orti di guerra». Alle sette di sera scattava il coprifuoco. I portoni delle case si chiudevano. Si chiudevano le finestre dalle quali non doveva trapelare nemmeno una lama di luce. Le strade erano buie e deserte. Dopo le sette di sera potevano circolare soltanto i militari, fascisti o tedeschi, e i civili che avessero un permesso speciale, i tipografi, i medici, gli infermieri. Ma per Natale ci fu una novità. Il comando tedesco ordinò lo spostamento del coprifuoco dalle sette alle nove di sera. Per tre giorni, il 24, il 25 e il 26 dicembre, avremmo potuto godere di due ore di libertà in più. E noi ci godemmo quelle due ore di libertà in più andando alla ricerca di carrube e mosciarelle (le castagne secche che potevano essere masticate per ore) che avrebbero sostituito sulla tavola natalizia i dolci di una volta. La casa che l’amico collezionista ci aveva affidato era grande e bene arredata, conservava il ricordo di lontane feste e ricevimenti ai quali noi non avevamo partecipato. E all’improvviso ci venne in mente di festeggiare lì il nostro Natale del 1943. Chiamando a raccolta, per quella sera, i nostri amici più cari. Nonostante il freddo, la fame, la paura. Mia madre venne convinta a sacrificare, per l’occasione, un mastello di marmellata gelosamente conservato da tempo immemorabile. Le patate, nascoste da mesi in cantina, avevano messo i germogli e passammo un intero pomeriggio a ripulirle. La cena, decidemmo, doveva essere una vera cena, alla quale tutti avrebbero contribuito portando qualcosa: un mezzo chilo di pasta, una mezza bottiglia d’olio, una scatola di pomodori. Degli aranci. Del pane. Del formaggio. E vino, in abbondanza. E cena fu, come avevamo deciso. Non ricordo se mia madre accese anche quell’anno il candelabro a nove braccia che era stato del padre rabbino a Kowno. Ma ricordo la nostra allegria, la sicurezza con la quale tutti, un po’ ubriachi, brindammo abbracciandoci all’ultimo Natale di guerra. Non era solo una speranza. Eravamo sicuri che l’anno successivo non ci sarebbero stati più tedeschi a Roma. Era la nostra scommessa di adolescenti, impegnati da mesi a distribuire giornaletti clandestini e a scrivere di nascosto sui muri «abbasso i tedeschi». Ed eravamo sicuri di avere ragione, sicuri che alla fine avremmo vinto noi. Eravamo giovani... Il più vecchio tra noi, Maurizio Ferrara, aveva ventidue anni. E aveva appena compiuto i vent’anni Maria Antonietta Macciocchi, responsabile delle donne comuniste dalla nostra zona che mi aveva ordinato «se ti fermano mentre hai l’Unità in borsa, devi mangiarla» (per fortuna non mi è mai successo). La più giovane era mia sorella Giulia che, a tredici anni, aveva avuto il compito di cucire, per il giorno della liberazione, una quantità di coccarde tricolori. La Resistenza era per noi un’avventura, un gioco, una sfida. Dalla quale eravamo sicuri di uscire vincitori (la bella sicurezza di essere nel giusto che pian piano, negli anni della maturità,avremmo perduto). Così un Natale di freddo, di fame, di paura si trasformò (e tale è rimasto nella mia memoria) nel più bel Natale della mia vita, di amicizia, di festa e di speranza. All’alba, appena possibile, uscimmo tutti assieme. Arrivammo fino al Pincio. Faceva un gran freddo e i nostri cappotti erano miserabili. Sotto di noi la piazza era vuota. Eravamo ubriachi e felici. Sicuri di avercela fatta. E, dopotutto, avevamo ragione. Su quella piazza, solo qualche mese dopo, vedemmo arrivare i primi carri armati inglesi e americani. |
Capita, ogni tanto, che impegni vari mi tengano lontano per un po' dal blog fino a che la voglia di ritrovare contatti e persone è più forte della mancanza di tempo e della stanchezza, allora si torna, ed è piacevole trovare nel proprio spazio tracce del passaggio degli amici. E' quello che è accaduto negli ultimi giorni: tornando nel mio spazio ho trovato la notifica di vari messaggi da leggere e con curiosità ed entusiasmo ho aperto la pagina dei messaggi ricevuti e... Purtroppo ho poco tempo su Internet, quindi mi scrivete un po' adesso! Mi sono interessato a voi e mi piacerebbe conoscerti meglio! Se siete tanto interessati a comunicare con me, non si può più comunicare e riconoscersi via e-mail: Scrivete alla mia e-mail:k*****@***. Aspetterò per la Sua lettera. K Oppure: Ciao! Profili di navigazione sul sito, ho notato che sul tuo profilo. mi è piaciuto molto come ti descriveresti e vorrei parlare con voi e dare un occhiata più da vicino. Forse è destino, e tu sei la mia metà, se mi interessa la tua risposta alla mia lettera, potete scrivermi a ev***@****.com Aspetterò per la tua lettera. Evg*** Ma anche: Ciao, ciao. Lei mi interessa, e voglio conoscerti. Io sono una ragazza solitaria e in cerca di amicizia e forse amore. Il mio nome Marina, 32 anni e io sono vedova. Ho anche un figlio piccolo, che e di 4 anni. Non imbarazzare questo fatto? Spero di no. Ti prego di scrivermi alla mia email:m****@*** Attesa risposta.
E perché no: Sono molto felice su questo pianeta! Finalmente ho trovato))) il tuo profilo e molto come me! Scrivi a mia posta a*****))) Detto che questo tipo di contatti non rientra tra i miei interessi, di solito elimino immediatamente questi messaggi, senza perderci tempo e senza pensarci due volte, solo che in questa occasione mi sono, spassionatamente, scappate tre parole:
E che p...e!!
P.S. A dire la verità ho trovato anche dei saluti veramente graditi... Evviva!!!
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Oggi fono ftato dal dentifta. Avevo un po’ di timore prima di andarci ma poi è paffato. A dire la verità mentre il dottore interveniva fui miei denti, mi fono affopito, forfe per effetto dell’aneftefia. A un certo punto mi ha fcrollato e mi ha chiefto fe era tutto a pofto. Ho rifpofto di fi, non avvertendo neffun fegnale. Quando però lui ha detto: “Ficuro?” ho penfato che forfe c’era veramente qualche problema, ma fe ci foffe ftata qualche complicafione me ne farei accorto. Comunque alla fine mi fono fiftemato, ho pagato, falutato e tornato a cafa. Adeffo fono paffate alcune ore ma ho come l’impreffione che qualcofa non vada per il verfo giufto, ma non faprei...
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