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“DROGA” DOPPIO ZERO


Questo “caso” vede protagonista uno dei poliziotti più intelligenti che io abbia mai conosciuto. Oggi fa il questore ed è un alto funzionario molto stimato al Ministero dell’Interno. Quando l’ho conosciuto io, circa 20 anni fa, era il capo della Squadra Mobile di una città di medie dimensioni, ed aveva un rapporto speciale con la stampa. Non che soffiasse notizie che i magistrati inquirenti non volevano dare, ma ti metteva sulla giusta strada per capire. Non che anticipasse le conclusione delle sue indagini, ma ogni volta che era arrivato ad un buon punto, teneva una conferenza stampa, al termine della quale immancabilmente pregava i giornalisti presenti di chiamarlo se avessero il minimo dubbio, prima di scrivere boiate nel loro pezzo. Naturalmente lo faceva anche per mettersi in mostra: ci teneva soprattutto ad essere trattato bene da quelli che finivano sul tavolo degli alti papaveri del Ministero dell’Interno. E lui sembrava conoscere alla perfezione come era composta la “mazzetta” (il pacco di giornali) che leggevano a Roma.Insomma, alla fine appariva sui giornali più lui di sindaco, prefetto e vescovo messi insieme. In quel periodo io ero passato da un giornale della capitale ad un altro, più piccolo, che apriva una redazione nella città dove operava il nostro poliziotto. Negli anni precedenti il nostro personale rapporto si era consolidato: ci fidavamo l’uno dell’altro, c’era reciproca stima.Qualche giorno prima dell’uscita del nuovo quotidiano, un lettore di un altro giornale, chiese per lettera che fine faceva la droga che veniva sequestrata dalle forze dell’ordine: si tratta di tempi in cui i sequestri erano all’ordine del giorno. Così al nostro poliziotto – ottimo public relation man, come detto - venne in mente di organizzare una “distruzione” pubblica della droga, davanti agli obbiettivi dei fotografi dei giornali. Quando? Proprio la vigilia dell’uscita del primo numero del mio nuovo giornale. L’appuntamento era per le 8 del mattino (ora invero antelucana per qualsiasi giornalista e fotoreporter) all’inceneritore dei rifiuti speciali posto all’interno dell’ospedale cittadino: davanti alla “bocca” della grande fornace, il capo della Mobile si sarebbe fatto fotografare mentre gettava nel fuoco alcuni sacchetti di eroina e cocaina. Tutti i cronisti erano avvertiti, così come tutti i fotografi. Non doveva mancare nessuno, la foto doveva finire in prima pagina.Alle 7.50 io ero, assonnato ma puntuale, davanti all’ospedale, in attesa del “mio” fotografo. Alle 8 erano arrivati tutti, ma non lui. Il poliziotto propose a tutti di aspettare ancora un quarto d’ora. In realtà aspettammo mezz’ora, ma del fotografo nessuna traccia. A quel punto si decise di procedere. Io non sapevo più che pesci pigliare: già mi vedevo di ritorno in redazione dove il caposervizio mi avrebbe interrogato sulle foto. E io avrei dovuto rispondergli: non ce le ho… Il giornale sarebbe uscito – il primo numero! – senza la notizia del giorno. Praticamente una disfatta. All’epoca non c’erano ancora i cellulari. Cercai una cabina telefonica: trovai miracolosamente un gettone in tasca e feci il numero di casa del fotografo: “Prontoooo…”, rispose una voce assonnata. “Carlo (non è il suo vero nome) – urlai - ma che minchia fai ancora lì?”. “Perché, che ore sono?”. A quel punto tirai giù una serie di bestemmie che i vetri della cabina tremarono. Lo mandai a cagare, lui, la sorella, la madre, la nonna e anche il cane, se lo aveva, e spaccai la cornetta della cabina contro il ricevitore. Il grandissimo stronzofigliodiputtana  non si era svegliato e ora ero nella merda fino ai capelli. Speravo ancora nella benevolenza dei colleghi che supplicai di cedermi una foto. Coalizzati contro i nuovi arrivati, gli altri giornalisti opposero un secco no. Non se ne parlava nemmeno: se ne andarono ridacchiando. Chiamai i capi dei loro giornali, che conoscevo, ma anche questi nicchiarono. Anche il poliziotto si scusò, ma non poteva restare tutto il giorno ad aspettare un solo fotografo. Già mi faceva male il sedere per la solenne inculatura che stavo per prendere, quando mi venne un’idea tra il geniale e il folle. Mentre stavo tornando mestamente in bicicletta in redazione, mi trovai a passare davanti ad un supermercato. La lampadina si accese. Non avevo il coraggio di confessare nemmeno a me stesso cosa stavo tentando di fare: mi diressi come un automa verso il reparto paste e farine. Comprai due chili di “doppio zero”, non prima di aver chiesto al commesso quale era quella più bianca, più raffinata. Lui mi rispose appunto la doppio zero, ma dovette pensare: “Cosa vuole fare questo qui, sniffarsela?!?...”. Ce l’aveva scritto in faccia.Due corsie più in là mi fiondai sui sacchetti da freezer, quelli trasparenti. Ruppi di nascosto un paio di confezioni: dovevo controllare che fossero più simili possibile ad altri che avevo visto poco prima… Andai alla cassa. Pagai. Uscii e mi diressi al primo bar che trovai. “Il bagno?” chiesi implorante al barista. Mi chiusi dentro e cominciai a confezionare le mie “dosi”. Mi sentivo come uno spacciatore che ha appena acquistato una grossa partita e la sta tagliando più velocemente possibile: il parco-buoi dei tossici non aspetta, se non ce l’hai tu, vanno da altri.Scacciai quei pensieri del cazzo e poggiai su una mensolina il frutto del mio “lavoro”: due sacchetti in tutto e per tutto identici a quelli bruciati poco prima dal Capo della Mobile. Piccola, piccolissima differenza: dentro c’era farina, non droga. Avete presente il disegno doppio della Settimana Enigmistica? Solo un occhio attento può riconoscere i particolari differenti. All’occhio distratto del lettore medio, non sarebbe “saltata” alcuna differenza. Era questo il mio piccolo complotto. Ma dovevo ancora fare i conti con l’”Oste”.Dieci minuti dopo ero in Questura, nell’ufficio del Capo della Mobile. “Che vuoi ancora?”, mi interrogò seccato. Non dissi una parola. Mi sedetti e tirai fuori dalle tasche del cappotto i due sacchetti. Li lasciai cadere sulla sua scrivania. “Cos’è sta roba?”, fece sconcertato. “Droga…”, risposi”. “Droga?! Quale minchia di droga? (era meridionale come me)”. “L’ho sequestrata poco fa alla Standa” risposi con il massimo della naturalezza possibile”.Mi guardò come se fossi una “margherita” fumante appena uscita dal deretano di una grossa vacca che l’aveva fatta nel suo ufficio. Stava cominciando a sbuffare come un toro infuriato, quando la lampadina si accese anche a lui. “Farina?!?.....”. “Già – ammisi a metà tra il soddisfatto e l’impaurito - … ma è doppio zero!!!”. La battuta non era piaciuta: “Non fare il coglione con me”, cominciò a strepitare. Pausa. Pausa lunghissima. Lui stava in silenzio, la testa fra le mani. Io non dicevo niente ma lo guardavo evidentemente con l’occhio di Bambi quando sta per essere divorato dal Re Leone. “Scordatelo – tuonò – io queste stronzate non le faccio, nemmeno per te che sei un amico”. Avevo due strade: supplicare in ginocchio leccandogli le scarpe, oppure tentare di fare il duro. Pensavo mi venisse spontanea la prima scelta, invece scattai in piedi e mi misi a fare l’Humphrey Bogart di “è la stampa bellezza, e tu non puoi farci niente!”.“Ascolta – dissi con voce calma ma decisa – sono disperato. Non posso tornare al giornale senza la foto del giorno. Perdipiù sono incazzato come una mandria di bufali con il nostro fotografo. Quando torno al giornale lo ammazzo con queste mani e tu ti ritrovi un altro omicidio fra le palle. Tu ora fai poche storie. Ti rimetti il cappotto, saliamo insieme su un’auto della Questura, andiamo in ospedale, ti metti in posa con questi due sacchetti della Madonna e li lanci nell’inceneritore davanti alla mio fotografo. Altrimenti non apparirai mai sul mio giornale e ogni volta che posso ti darò contro!”. Il poliziotto farfugliò che ero matto, che volevo fargli passare un guaio, ma mi vide così deciso che dopo qualche minuto cedette. Allora chiamai il fotografo e lo minacciai di una morte atroce se non si fosse fatto trovare entro dieci minuti all’ingresso dell’ospedale con due, non una, macchina fotografica: visti i precedenti, meglio andare sul sicuro.Il Capo della Mobile ridacchiava sotto i baffi quando incenerì due chili di ottima farina, immortalato dal fotografo del mio giornale. Gli dissi che gli dovevo la vita e che ero in debito con lui. Mi mandò a quel paese e se ne andò bestemmiando per il tempo che gli avevo fatto perdere. Restammo io e il fotografo, al quale naturalmente non avevo detto niente della farina: lui aveva fotografato droga, non occorreva che sapesse. Mi chiese, stupito, come avessi fatto a convincere il poliziotto a bruciarne un altro po’ e dove l’avessimo presa. Mi inventai una storia così assurda che non sto neanche a raccontarvela, ma che lui si bevve come un chinotto. Del resto, chi avrebbe potuto immaginare che la verità era ancora più assurda di qualsiasi frottola?“Tutto bene?”, mi chiese il caposervizio al mio rientro. “Quella testa di cazzo del fotografo – risposi con l’aria di chi rimedia ai guai prodotti da altri – fotografo che spero tu voglia licenziare quanto prima, è arrivato come al solito in ritardo. Ma grazie ai miei buoni rapporti ce l’abbiamo fatta, abbiamo le foto”. Il giorno dopo, quando i capi degli altri giornali videro che avevamo anche noi la foto, saltarono sulla sedia e fecero delle sonore litigate con i loro fotoreporter: credevano che ci avessero venduto la foto sottobanco. In effetti sarebbe stata l’unica soluzione possibile. Nessuno sospettò un falso clamoroso. Qualcuno mi “minacciò” di svelare come avessi fatto, altrimenti mi avrebbe denunciato al sindacato, all’ordine e altre amenità. Naturalmente non successe niente e io tenni duro, custodendo il segreto fino ad oggi. Se leggeranno questo libro, qualcuno di loro senz’altro esclamerà: “Lo sapevo…”.Lunga vita a te, poliziotto bruciatore di farina: fossero tutti come lui…