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FOTO DA VERGOGNARSI


Uno degli episodi della mia carriera professionale di cui più mi vergogno avvenne quando facevo i cronista di nera. Il mio caposervizio mi chiese di trovare la foto di un ragazzino che era morto annegato in una vasca di liquami, in campagna, mentre giocava: la sua palla era finita nella profonda pozza e lui, per riprenderla, si era sporto troppo, cadendovi dentro. Sapeva nuotare, ma evidentemente le esalazioni provenienti dal liquame lo avevano stordito impedendogli di reagire. Avevamo avuto dalle forze dell’ordine i particolari della notizia, ma ci mancava l’immagine del bambino defunto. E, chissà perché, i direttori, capiredattori e capiservizio sono tutti convinti che una notizia strappalacrime debba necessariamente essere corredata dalla foto della vittima, affinché i lettori guardandolo in faccia, negli occhi, possano identificarsi con il dramma, con il dolore provato dalla sua famiglia nel perderlo. Gli inquirenti non fornivano immagini: il bambino era ovviamente minorenne e andava tutelato, così come la sua famiglia. E nessuno dei colleghi aveva il coraggio di andare a disturbare la famiglia del morto per chiedere un’immagine. Anche perché il fatto era accaduto da poche ore e si sa in quale prostrazione sono padri e madri che hanno perso un figlio da poco. Insomma, occorreva un collega con il pelo sullo stomaco, che non andasse troppo per il sottile, che non avesse remore a rigirare il coltello nella piaga del dolore altrui. Fui “prescelto” io, che pure non credevo e non credo di avere le “doti” richieste dal caso. Mi recai così nel casolare della famiglia colpita dal grave lutto. Mi sedetti di fronte alla madre del bambino, appena tornata dall’obitorio dell’ospedale. Notai subito che era un’abitazione povera ma dignitosa e anche che c’era una gran quantità di crocefissi e immagini sacre. Doveva essere una famiglia molto religiosa: una di quelle famiglie che riesce a vivere anche momenti come quello con una serenità che ad altri manca. Mentre la madre mi raccontava cosa era accaduto, non potei non ammirare quella donna che pur straziata era capace di ricondurre alla volontà divina anche la morte di un figlio. E istintivamente mi venne da volerle bene, da partecipare al suo dolore. Dovetti forzarmi non poco quindi per arrivare al vero motivo della mia presenza lì: la foto del suo bambino. Ero pronto a sciorinare il solito discorsetto che facevo ai parenti delle vittime degli incidenti stradali: “Se pubblichiamo la sua immagine sarà un modo per rendergli omaggio, per ricordarlo ad amici e conoscenti, perché il suo volto resti nella memoria della gente”. Ma non ce ne fu bisogno: quella madre non mi chiese perché. Non mi chiese spiegazioni: non ce n’era bisogno. “Guardi, guardi com’era bello – mi fece mostrandomi una scatola piena di fotografie di famiglia – prenda quella che vuole”. Il suo orgoglio di madre era per lei un sentimento a cui aggrapparsi nel dolore: la consapevolezza di aver messo al mondo un essere così ben fatto, anni prima l’aveva resa felice. E oggi le dava la forza di continuare a vivere, oggi che la felicità era sparita per sempre.Io ne presi un paio, la ringraziai e mi allontanai in fretta: un po’ per non scoppiare a piangere con lei e un po’ perché mi vergognavo come un ladro. Lei voleva far vedere a tutto il mondo com’era bello quel figlio perduto; io volevo solo una foto per corredare il mio articolo, per essere considerato più bravo dei miei colleghi agli occhi dei capi e per sapere intimamente di essere così cinico da poter chiedere una cosa così inutile e stupida ad una madre a cui era appena morto il figlio. Per vendere qualche copia di giornale in più.Quella volta, nel mio piccolo, mi sono davvero sentito come uno di quei giornalisti dipinti come farabutti in tante pellicole cinematografiche e serial televisivi: quelli che per una notizia in esclusiva farebbero fuori la madre. Ecco, io la “mia” madre l’avevo appena fatta fuori.