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SULLA STRADA, INCAZZATO A… MORTE


Ero in motorino, diretto in redazione, quando cominciarono a superarmi ambulanze e pattuglie della polstrada a sirene spiegate. E per un cronista, questo tipo di sirena ha lo stesso suono ammaliatore che dovevano avere le Sirene alle orecchie di Ulisse. Seguirle fu quasi automatico: ma quella volta me ne pentii di brutto. Arrivati sul posto dell’incidente, vidi una scena che non potrò dimenticare per tutta la vita: sull’asfalto c’era quello che restava di una ragazza di 18 anni e della sua bici. Era stata travolta da un camion, un tir il cui autista si teneva la testa fra le mani, circondato da poliziotti. Non vorrei passare per cinico, ma la scena era davvero da voltastomaco: gli infermieri e il medico dell’ambulanza cercavano di raccogliere dall’asfalto quello che restava della povera figliola, il cui corpo martoriato era diventato una sola cosa con il manto stradale bollente e poroso di quel pomeriggio estivo. I poliziotti tentavano di tenere lontani i curiosi inviperiti: qualcuno di loro avrebbe volentieri linciato il camionista. Io passai sotto il cordone grazie al solito poliziotto amico e mi avvicinai all’uomo per sentire cosa diceva agli agenti. Continuava a ripetere inebetito: “Non l’avevo vista, ve lo giuro, non l’ho vista”. Mi allontanai per chiedere la dinamica ad un agente che conoscevo come esperto di infortunistica. Mi disse che secondo lui, il camionista aveva girato improvvisamente a sinistra, senza mettere la freccia che risultava spenta, investendo la ragazza che si trovava alla sinistra del pesante mezzo, con la sua bici. Il tir le era passato sopra, martoriandola.Il camionista era tra lo spaventato e lo choccato: “Ma cosa volete da me? Io non ho fatto niente di male…”, gridava ai poliziotti. A quel punto persi la calma e mi diressi a grandi passi verso di lui: qualcosa mi era scattato in testa, volevo menarlo, punto e basta. Per me si meritava di verdersi ridotta la faccia come aveva ridotto quella povera ragazza. Per fortuna, il mio amico poliziotto se ne accorse e mi sbarrò la strada. Ma dovette accennare a tirare fuori la pistola dalla cintola dei pantaloni per convincermi a desistere. Per qualche secondo avevo perso proprio il lume della ragione. Ma era una delle prime volte che assistevo a scene come quella. Negli anni seguenti ne ho viste tante altre così e purtroppo ci si fa l’abitudine: ricordo due ragazzini in motorino uccisi da un ubriaco drogato che guidava contromano. Anche lì mi si scatenò dentro una rabbia sorda: ma ormai sapevo come uscirne senza usare le mani e senza lasciarmi coinvolgere emotivamente più di tanto: me la presi con un giovane collega di un altro giornale che mi seguiva e mi si era appiccicato addosso come una zecca. Non sapeva ancora muoversi autonomamente sulla scena del “delitto” e così mi veniva dietro. Volevo scacciarlo in malo modo, poi mi ricordai che anch’io facevo come lui,  quando ero alle prime armi.