Sentimentalmente

Una lettera che merita i cinque minuti della lettura... Gli Italiani che mi piacciono


 Università, metodi all’altezza di comunità serie e civili Gentile Direttore, Le scrivo di getto, portata da un moto di indignazione che, però, non è un lampo di rabbia improvvisa. È, invece, l’espressione di un pensiero lungamente coltivato, nutrito quotidianamente nello svolgimento del mio mestiere. È anche l’espressione di un dolore, di frustrazione e disagio, come pure di voglia di fare e di speranza.   Sono un’accademica appena quarantenne in Diritto pubblico comparato all’Università di Macerata, formatasi in Italia e negli Stati Uniti, prima al Boston College, poi a Harvard, infine a Yale. Ho deciso di scriverLe dopo aver letto delle difficoltà che l’Università di Bari sta attraversando nel valutare se il divieto di assumere nello stesso ateneo i parenti fino al quarto grado dei docenti già in ruolo si estenda anche alle mogli e ai mariti. Come docente di un’università italiana, sento l’urgenza di non lasciare ai soli cronisti l’esclusiva dell’indignazione.  Uno dei miei mentori americani, al tempo in cui era preside della facoltà di Legge di Yale, rispose al Presidente degli Stati Uniti, che lo chiamava per caldeggiare l’ammissione del figlio di un senatore, che il preside non era coinvolto nelle procedure di valutazione delle candidature. Quando mi raccontò questo episodio, mi insegnò che l’orgoglio istituzionale del preside della Yale Law School non poteva essere inferiore neppure a quello del Presidente. Ricusare quella segnalazione significava, ancor prima che il principio di trasparenza e di equità, ribadire il senso di un mestiere - di professore -, l’indipendenza di una istituzione - la prima facoltà di Legge d’America -, il valore di una missione - la formazione della futura classe dirigente.  Forse si tratta di un aneddoto evocativo ma inutile per chi sia convinto che questo genere di orgoglio possa allignare solo nelle blasonate università americane. Qualcun altro liquiderebbe la storia dicendo che noi non siamo l’America.  Quello che so per averlo imparato, è che un’istituzione diventa grande e importante solo se crede che grande e importante è la sua funzione, solo se la comunità che la abita voglia svolgere nella pienezza della sua portata quella funzione al fine di restituire alla società una classe dirigente degna e capace. Questa è la responsabilità degli accademici e delle università in ogni latitudine. Nessuna legge può davvero imporla; se, però, essa venisse meno, sarebbe la stessa istituzione a venir meno, e il Paese a pagarne il prezzo.   Dov’è stato relegato questo senso di responsabilità, l’orgoglio dell’istituzione che si rappresenta - un’istituzione pubblica, mentre Yale è solo una fondazione privata! - nella vicenda di Bari, nelle parole del Rettore secondo cui «quella del Collegio dei garanti non è un’interpretazione univoca», sebbene il Presidente di quello stesso Collegio avesse richiamato l’interpretazione costituzionalmente più corretta del divieto imposto dalla legge, un divieto «irragionevole per gli affini entro il quarto grado e non per il coniuge»? Se dovesse prevalere l’interpretazione meno restrittiva, di chi sarebbe la responsabilità? Forse del legislatore, per la sua imperizia nel redigere la norma, o dell’interprete, incapace di riconoscerne la ratio?  Mi sono rivolta a lei, dottor Calabresi, come lettrice del suo giornale, il primo che legga ogni mattina. Ho avuto modo in questi anni di apprezzare lo sforzo intelligibile e assai meritorio di intercettare le generazioni più giovani. È a lei che mi è venuto di affidare questi pensieri, che tenevo a esprimere per un dovere di testimonianza in una sede diversa da quella in cui insieme ad altri cerco di portare il mio contributo per un’università migliore - per un’Italia migliore.  Sono felice del mio mestiere e di poterlo fare in Italia. Avevo la possibilità di trasferirmi negli Stati Uniti ma non l’ho fatto, anche perché questo Paese ha bisogno di buona volontà, e io volevo contribuire con la mia, nella convinzione che quello che conti non sia la modestia del proprio ruolo, quanto l’impegno di lasciare quello che si è trovato un po’ meglio di come fosse quando si è arrivati. L’Italia ha bisogno di una classe dirigente per il suo futuro e le università sono le istituzioni chiamate a formarla. La classe dirigente italiana del futuro ha bisogno di conoscenza e schiena dritta. Non basta insegnare il calcolo differenziale, il diritto tributario o la storia antica. Servono l’esempio, la pratica quotidiana del rigore, il rispetto della legge, qualità, coraggio e un po’ di fantasia. Sogno un’università così, fatta di esempi da imitare, di parole che ispirino i giovani e facciano loro venir voglia di essere migliori. Certamente lunga è la strada e assai complicata - e ho abbastanza esperienza di come vada il mondo accademico italiano per non farmi illusioni. Rivendico il diritto, però, di impegnarmi per un’università in cui aspirazioni come la mia - che è quella di tanti - non siano solo l’incanto degli ingenui, e considero un autentico privilegio poterlo insegnare nel mio piccolo. Benedetta Barbisan,  professore associato di Diritto pubblico comparato  dell’Università degli Studi di Macerata Spesso non ci rendiamo conto di come i nostri comportamenti e gli standard che accettiamo non siano all’altezza di comunità serie e civili. Troppo spesso ci arrendiamo o facciamo l’abitudine a metodi inefficienti e umilianti, ma grazie al cielo c’è ancora chi è capace di aprirci gli occhi.Mario Calabresi