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Un blog creato da g1b9 il 10/01/2009

Sentimentalmente

Tutto ció che mi dá emozioni....

 
 

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Messaggi del 04/12/2017

I guai della vanità..

Post n°3754 pubblicato il 04 Dicembre 2017 da g1b9

Cari amici,non potendo scrivere in seguito ad un incidente,poichè mi dispiace lasciarvi senza una spiegazione,regalo  a  chi piace leggere un racconto bello,interessante ed utile, che ho copiato da "La Stampa".A tutti un saluto affettuoso.

 

No, non posso passarti lo zucchero: mi hai appena spezzato il cuore.
 

NATHAN ENGLANDER *


Una mia amica, più o meno della mia età, tornando nella sua città natale si è imbattuta al supermercato nel padre di uno dei suoi amici di quando erano ragazzi. Lo ha avvicinato e si è presentata: «Signor Boyer, sono io, Amanda, della classe di Darren, andavo a scuola con suo figlio». Il signor Boyer l’ha guardata e ha detto: «Sono io. Sono Darren. Sono io, quello della scuola». 
 
Questa storia mi piace perché mi fa orrore. Ho una paura al limite della fobia dei segni visibili dell’invecchiamento, un terrore innaturale che non riesco a dominare. Mia madre ha cresciuto me e mia sorella nell’insofferenza verso tutto quello che è apparenza, ingigantendo ai nostri occhi ogni poro e foruncolo, educandoci a un’autocritica che trasformò quasi in arte. Se ci fosse stato un simbolo che rappresenta la paura dei difetti fisici, sarebbe stato raffigurato sullo stemma della nostra famiglia, tenuto negli artigli da un’aquila.
 
Eravamo umili, io, mia sorella e mia madre. Non abbiamo mai osato pensare che chiunque, ovunque, potesse per un solo secondo pensare bene di noi. Non tolleravamo alcun favore dagli altri. Ci riesce tuttora molto male discostarci dagli insegnamenti di nostra madre. Ma potrebbe forse trattarsi di un narcisismo volto al negativo? La nostra famiglia raggiunse l’eccellenza in materia: mia madre ci insegnò a credere che gli altri avrebbero potuto perdere il sonno, sfiorare addirittura la follia, se avessero notato che i jeans ci stavano stretti perché eravamo ingrassati.
 
Mia madre ci ha insegnato una serie di mantra utili a sopportare le nostre sofferenze: «È sempre meglio apparire bene piuttosto che stare bene», oppure «Solo le persone con gambe molto belle dovrebbero indossare un paio di shorts» (credo che mia madre non se li sia più messi dal 1979). Da ragazzo provai a rivedere alcune delle sue massime, per renderle più adatte all’auto-tortura di un maschio. 
Per esempio, per anni ho limato una poesia: «Come il primo fiore di primavera, / i peli spuntano dall’orecchio di un uomo, / è il modo in cui la natura gli dice / che è giunto il tempo di morire». 
 
È un po’ grezza, lo so, ma rende l’idea, e aiuta a spiegare perché sono precipitato nel panico con i primi segni dell’età. Sono stato fortunato, ho conservato un aspetto giovanile più a lungo di molti altri. Quando ero sulla trentina, al caffè i ragazzi dell’università si fermavano a chiedermi cosa studiassi. Li guardavo con orgoglio e rispondevo: «Studio la Morte. Sono molto più vecchio di quanto vi sembri». Finché un giorno uno di loro disse, con quella voce con la quale ci si rivolge agli adulti: «Mi scusi, signore, mi potrebbe passare lo zucchero?». No, non posso passarti lo zucchero perché mi hai appena spezzato il cuore.
 
Più o meno nello stesso periodo cominciarono a succedermi altre cose. Mi svegliai ben riposato e in forma, mangiai yogurt greco e frutti di bosco a colazione, feci una lezione di yoga, presi una bella tazza di caffè e uscii ad affrontare il mondo sentendomi pieno di energia, con la testa piena di idee, pronto per un’altra splendida giornata. Mi imbattei in una conoscente che mi chiese con affetto: «Lavori tanto?». Sempre, risposi. «Si vede, dio mio, hai proprio un’aria stanca!». 
 
Nulla mi toglie il fiato più che sentirmi dire «hai un’aria stanca». Proprio quando mi sentivo alla grande. Volevo gridarle: «Stanco, stanco! Ho detto che lavoravo tanto, ma volevo dire che ho dormito come un bambino, dormo ben 15 ore a notte, Gesù, sono uno scrittore, dormo fino alle dieci, non ho nemmeno un lavoro nel senso stretto del termine!».
 
Tutti questi orrori, i «signore» e gli affondi mascherati da cortesia, si potevano spiegare e ignorare. Riuscii a tenere sotto controllo il mio salutare autoinganno fino a un incidente indimenticabile e incancellabile accaduto il 26 giugno 2007, dieci anni fa. Ricordo che era una giornata di sole, senza una nuvola. Rientrai dal caffè a casa, dove mi aspettava il seguente e-mail. 
 
«Nathan, amico mio, è brutto dirlo, forse ti ho visto in una mattinata sfortunata, ma mi è sembrato che negli ultimi 60 giorni tu fossi invecchiato. Sto per compiere 39 anni e, credimi, so quanto poco gentili suonino queste parole. Ho pensato però che ti poteva fare bene sentirle».
 
Sai quanto sono brutte queste parole, ma hai pensato? Ti farò pensare io! Ma intanto ho bisogno di soccorso. Sono qui, da solo, steso per terra, con il mio ego sanguinante, tra la vita e la morte. E cosa fa uno quando ha un’emergenza? Chiama l’ospedale.
 
Strisciai fino al telefono e chiamai il medico che dirige la migliore unità di terapia intensiva di New York. Quando dico terapia intensiva intendo proprio quello, un reparto dove pazienti privi di conoscenza vengono intubati e attaccati al respiratore, con i monitor che fanno bip per segnalare che le macchine continuano a imitare per questi poveretti i ritmi che scandiscono la vita umana. 
 
Il dottore rispose alla mia chiamata. Era uno dei miei migliori amici (e abitava anche nel mio stesso condominio, e se avevo una domanda medica, mi spogliava sul pianerottolo e mi faceva la diagnosi attraverso il buco della serratura). Ed ecco che, in uno dei suoi rari momenti di pausa all’ospedale, si ritrovò ad affrontare un’emergenza, con me che urlavo al telefono «Sembro vecchio?». La sua risposta (con il bip dei monitor in sottofondo) fu inequivocabile: «No, non sembri vecchio. No, non sei invecchiato negli ultimi 60 giorni. Stai benissimo. Dimenticati tutto».
 
Suonò bene. Chiamai altre 5-6 persone che frequentavo da tempo per una verifica, e tutti mi risposero «No». Fu come svegliare una cellula dormiente di vanitosi, infiltrati nascosti tra noi, 37enni che non aspettavano altro che questa telefonata.
Eppure, nulla bastò a calmarmi. Il danno era fatto. All’epoca non avevo molta autostima, la mia anima si era rinchiusa in un nocciolo, stavo promuovendo da mesi il mio romanzo, volando di città in città, di Paese in Paese, una fatica che non posso raccontare. La vita sulla strada ti rende permanentemente vulnerabile: i critici criticano, i blogger bloggano, gli estranei ti avvicinano per dire la prima cosa che gli viene in testa. La domanda più bella venne fatta da un’anziana signora di Jacksonville, Florida. «Sì, signora», la incoraggiai, e lei domandò: «Perché non si fa la barba?». Quando arrivò quella lettera ero in effetti «stanco». Probabilmente avevo anche gli occhi gonfi, e la faccia ingrassata con la dieta degli alberghi e degli aeroporti, facendomi sembrare uno che iniziava la giornata con un secchio di vino.
 
Dopo l’arrivo di quell’e-mail sentivo il bisogno di un totem portatile e accessibile per tirarmi su. L’unica cosa a portata di mano, anzi, sempre in mano, era il libro che stavo promuovendo volando in giro. In copertina c’era una mia fotografia, un ritratto idealizzato, con luci professionali, che l’editore dava in pasto al mercato. Mi aggrappai a quella, il perfetto patto con il diavolo, il mio ritratto di Dorian Grey personale.
 
Si trattava di un gioco pericoloso, in un momento in cui la seduta di yoga quotidiana venne sostituita con la convinzione che, ogni volta che ti perdi una colazione in albergo, un piccolo grasso angelo coperto di marmellata perde le sue ali. La discrepanza tra l’autore e la foto dell’autore può crescere molto rapidamente. Una volta, a scuola arrivò una scrittrice che sembrava talmente diversa dall’affascinante donna sulla copertina del suo libro che non volevamo nemmeno farla parlare, fino a che non ci lesse un paragrafo ad alta voce per dimostrare che era davvero lei. La mia foto doveva però dimostrare che le cose (almeno all’apparenza) andavano bene. La mia foto viaggiò con me per tutto il mondo, fino a che ci ritrovammo, io e lei, nel Sud del Brasile, più di un anno dopo. La mia foto mi portò talmente lontano che potevo forse cominciare a stare tranquillo. Stavo partecipando con altri scrittori a un festival a Paraty, e mi sentivo più o meno contento. Quando salimmo su un taxi, la mia foto e io, per una corsa di cinque ore assieme a una scrittrice britannica, che potremo chiamare signorina Posh, eravamo brillantissimi. 
 
La sera, insieme ad altri scrittori, ci ritrovammo ad attenderla sulla piazza davanti al nostro albergo. La signorina Posh apparve finalmente, dopo essersi fatta la doccia e cambiata. Nel frattempo aveva letto tutti i materiali del festival, i volantini e gli opuscoli, con le relative biografie. Mi guardò con un sorriso. Voleva farmi un complimento, glielo leggevo negli occhi. «Avete visto questo libro?», chiese ai letterati presenti, attirando la loro attenzione su di me. «Avete visto la foto? In tutta la mia vita non ho mai visto una foto dell’autore più orrenda. Davvero, non è brutto, ma in questa foto... Voglio dire, guardate la sua testa, in realtà ha una forma normale. Ci vuole un vero coraggio», aggiunse, piena di ammirazione, «io non ce l’avrei mai fatta». E poi disse, rivolta a me: «È questo il modo giusto di affrontare la vita. Non dare importanza a queste cose. Non essere vanitosi».
 
Traduzione di Anna Zafesova 
 
* Nato a Long Island nel 1970, Nathan Englander è una delle voci più originali della short story americana. Ha sfiorato il Pulitzer nel 2012 con Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank, omaggio esplicito all’amato Carver, che dimostrava uno splendido talento nel raccontare il lato comico, grottesco, persino un po’ sacrilego della vita, e nel mettere a confronto l’individuo con il peso della memoria e della Storia. Tra le sue opere pubblicate in italiano, Per alleviare insopportabili impulsi (Einaudi) e Il ministero dei casi speciali (Mondadori). Nathan Englander pubblica 
sulla Stampa, in esclusiva per l’Italia, uno dei suoi racconti una domenica al mese.

 
 
 
 
 

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