Creato da geppinomonti il 18/07/2009
problemi e trasformazioni nel mondo globale
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Tutti vogliono la poesia, purchè non s'occupi di politica
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di Francesco Sasso
Diamo notizia della recente pubblicazione del romanzo L’ombra di quel che eravamo (Guanda 2009) di Luis Sepúlveda, opera che evidenzia la più viva rappresentazione dei problemi politici e le trasformazioni sociali della vita in Cile, utilizzando in modo ironico e disincantato i meccanismi del poliziesco.
Il romanzo si apre con la morte accidentale di un uomo vestito di nero con una pistola nella fondina. Il tizio è in strada sotto una pioggia incessante quando un vecchio giradischi, lanciato nel vuoto da una finestra, gli sfonda il cranio e l’uccide. L’assassino è una donna cilena che, durante una lite coniugale, ha cominciato a lanciar fuori della finestra gli oggetti prediletti del marito (giradischi, libri di letteratura sociale, dischi con i classici della canzone di protesta). Quest’ultimo, in gioventù, fu un invasato filocinese, ma con il passare degli anni, incalzato dalla delusione, si è trasformato in un indolente cultore di film americani con scarso amore per il lavoro.
In tutt’altra parte della città, tre ex perseguitati dalla dittatura, oramai anziani e disillusi, decidono di riunirsi dopo più di trent’anni in un garage in disuso a Santiago del Cile. Hanno un appuntamento con “Lo Specialista”. I tre compagni sono stati militanti di Allende e, successivamente, perseguitati politici costretti a nascondendosi in Cile o a fuggire in Europa.
Aspettano l’arrivo dello Specialista. Nel mentre, i tre iniziano a raccontare la propria vita mancata e ad evocare i comuni ricordi, mangiando pollo arrosto e bevendo vino rosso. L’incontro dei tre vecchi compagni, che ovviamente mette in risalto la decadenza fisica dei protagonisti e l’inesorabile fallimento esistenziale, favorisce lo scatenarsi del fondo “rivoluzionario” del loro animo.
Contemporaneamente, mentre Santiago del Cile è assediata dalla pioggia, nel suo ufficio l’ispettore Crespo viene informato da una giovane agente di polizia della morte di Pedro Nolasco Gonzàles, popolare anarchico cileno. E’ stato trovato in strada con il cranio fracassato e senza scarpe. La combinazione vuole, dice l’agente di polizia, che sulla stessa strada e nelle ore dell’omicidio, una coppia ha denunciato un furto nel proprio appartamento. L’indagine appare semplice. L’ispettore decide di andare a trovare la coppia.
E qui, com’è mio solito, mi fermo per non rovinarvi la lettura del romanzo.
Il romanzo è un poliziesco “mancato” (sin dalla prima pagina sappiamo chi è l’assassino). Abile lo spirito demistificatorio con cui lo scrittore cileno riprende scene da film americani, per esempio Le Iene.
Con L’ombra di quel che eravamo, Luis Sepúlveda ci offre un modello di come sia possibile scrivere romanzi leggeri e pieni di ironia senza abdicare al proprio ruolo di scrittore impegnato a denunciare l’ingiustizia e la corruzione in Cile.
f.s.
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I barbari della porta accanto |
Data di pubblicazione: 30.11.2009 |
Autore: Magris, Claudio |
Un nuovo libro del fecondo Gian Antonio Stella, dedicati all'odio per l'Altro che è riemerso tra noi. Corriere della sera, 30 novembre 2009 |
Se tutti fossero come il signor Franz Liebhard, Gian Antonio Stella non avrebbe potuto scrivere il suo libro Negri froci giudei & Co . L’eterna guerra contro l’altro , ma il mondo sarebbe più vivibile. Nel 1917, il signor Liebhard si chiamava ancora col suo vero nome — posto che ne esista per ognuno di noi uno «vero» — ossia Reiter Róbert e scriveva, in ungherese, ardue poesie sperimentali su riviste d’avanguardia. Alcuni anni dopo scriveva, firmandosi Robert Reiter — ossia alla tedesca e non più secondo l’uso magiaro di anteporre il cognome — liriche in tedesco, un po’ meno ardite. Dall’inizio degli anni Quaranta, ha cominciato a scrivere — assumendo il nome di un amico minatore morto in un incidente, Franz Liebhard — tradizionali poesie, sempre in tedesco e in rima, che parlano di boschi, fiori e cieli stellati ed è divenuto un poeta della minoranza tedesca del Banato, in Romania (dalla quale proviene Hertha Müller, premio Nobel di quest’anno), oggi pressoché scomparsa. Come dice lui stesso, ha imparato «a pensare e a sentire in più popoli». Chissà come Franz Liebhard, Reiter Róbert e Robert Reiter si sopportavano a vicenda, se vivevano bene insieme o se si guardavano in cagnesco, come facevano, in quelle terre multietniche e multiculturali, ungheresi, tedeschi, romeni, serbi e così via, vicini di casa pronti a scannarsi alla prima occasione e convinti, ognuno, di essere l’unica nazionalità legittima di quei Paesi e in ogni caso la migliore. Ogni gruppo, ricorda Stella nel suo libro — che è un potente, ferocemente ilare e doloroso dizionario o prontuario universale di tutte le ingiurie, odi e pregiudizi nei confronti del diverso d’ogni genere — si ritiene superiore a tutti gli altri, che disprezza e respinge. I barbari, egli ricorda, sono dappertutto e la loro presenza illecita comincia dovunque davanti alla porta di casa; per i vecchi di Rialto gli unici veneziani autentici sono loro, che si considerano il centro del mondo, mentre già oltre il Ponte de la Libertà che porta in terraferma ci sono «gli altri» e sarebbe meglio che non ci fossero. D’altronde pure la Cina si è sempre considerata il centro del mondo e non solo i nazisti o i bianchi in genere, ma pure i neri loro vittime hanno elaborato teorie e miti di superiorità razziale e culturale; tutto ciò ha portato a violenze inenarrabili sotto ogni cielo e in ogni tempo, inflitte certo generalmente dai più forti, ma anche dai più deboli quando ne hanno avuta la possibilità. Persecutori e perseguitati sono talora le stesse persone, in momenti diversi e in rapporto a persone diverse; quasi all’inizio del libro Stella pone, con uno di quei caustici colpi d'ala di cui è maestro, la persecuzione feroce subita, da parte degli inglesi, dai boeri, peraltro conosciuti quali feroci segregazionisti e persecutori dei neri. Ogni popolo, ogni cultura, ogni angolo di rione, ogni chiesa si macchiano di queste turpitudini, in cui dalla comica stupidità all’efferata crudeltà il passo è talora breve; il diverso, deriso o anche massacrato, dimostra Stella, non è solo lo straniero ma può essere l’abitante della stessa provincia, che parla il medesimo dialetto ma con qualche sfumatura differente. Stella e Rizzo hanno scritto un celebre libro sulla casta dei politici; ogni gruppo si costituisce come una casta, chiusa alle altre. In un acutissimo saggio José Angel Gonzalez Sainz ha analizzato i meccanismi e i dispositivi con cui si creano nella testa delle persone i sentimenti e i modi di percepire gli altri, gli estranei. Lo stupidario del razzismo non basta; rischia di rendere il suo lettore compiaciuto della propria apertura di mente e della propria civiltà rispetto alle litanie dell’odio, della paura e della povertà di spirito e di non preoccuparsene troppo. Resta la domanda, posta dal titolo di un libro di Cernyševskij che era caro a Lenin: Che fare? Anzitutto, per fare realmente i conti con questo dramma, occorre sapere che nessuno è immune da pregiudizi verso l’altro, anche se non lo sa. I razzisti dicono che i neri puzzano e i liberali sanno che anche i bianchi, per i neri, puzzano. È già qualcosa, ma non basta. Ognuno di noi ha dentro di sé, anche inconsapevolmente, il suo diverso da rifiutare o il momento in cui, magari per un attimo, rifiuta qualche diverso; occorre sapere che, almeno in qualche momento di caduta spirituale e intellettuale, anche noi riteniamo a priori qualcuno più puzzolente degli altri. È questo il peccato mortale che ci insidia e tranne qualche rarissimo santo — ma forse anche lui — ognuno è un peccatore. Credo che i miei genitori mi abbiano dato un formidabile vaccino contro ogni razzismo, proprio perché non mi hanno mai detto che non bisogna essere razzisti, così come non mi hanno mai detto che non si pranza in gabinetto, ma semplicemente col loro modo di essere — di lavorare, divertirsi, volersi bene, litigare, parlare — creavano un mondo in cui era impensabile essere razzisti o portarsi gli spaghetti al cesso. Tutto ciò vale più di ogni predica. Ma non sono sicuro che, se fossi ripetutamente derubato da qualcuno appartenente a un determinato gruppo, non mi lascerei andare stupidamente a un’indistinta ira verso tutto il suo gruppo. Solo se mi rendo conto di correre anch’io il rischio di rientrare nello stupidario dei fanatici posso combatterlo realmente; altrimenti cadrei anch’io nella loro presunzione di incarnare la civiltà contro i barbari e ciò vale ovviamente per tutti. Ogni convivenza, inoltre, è difficile; non a caso tanti matrimoni naufragano e non solo quelli fra bianchi e neri. Essa esige non solo il nostro rispetto dell’altro, del diverso arrivato fra noi (chi sono poi questi noi?), ma anche il suo rispetto nei nostri confronti. Se un mio vicino provenisse da una cultura in cui si passa la notte a far baccano, io avrei qualche problema e dovremmo fare entrambi uno sforzo, io di sopportare un po’ di più il chiasso e lui di farne un po’ meno. Ma soprattutto non si può ignorare la possibilità di conflitti reali tra sistemi di valori inconciliabili, fra i quali è inevitabile scegliere con decisione: rispetto a me, al mio sistema di valori, un nazista fautore della Shoah è indubbiamente un «diverso», ma in questo caso la sua diversità è inaccettabile e devo assumermi la dolorosa responsabilità di combatterla. La diversità, ha scritto Predrag Matvejevic, non è di per sé ancora un valore, né la mia né quella dell’altro, ma il suo valore dipende dal rispetto che essa ha — o non ha — nei confronti della dignità di tutti gli uomini. Non c'è da vergognarsi ma neppure da inorgoglirsi di essere «diversi» (da chi?). Chi è stato ingiustamente perseguitato tende inoltre a considerarsi tale anche quando non lo è più, sentendosi gratificato da tale qualifica. Ma in tal modo, osserva Glissant — grande scrittore nero discendente di schiavi — si rimpicciolisce e perde signorilità nei rapporti col mondo. L’uguaglianza, è stato spesso osservato, può essere pericolosa e totalitaria, può implicare il livellamento di tutte le civiltà, cultura e tradizioni costrette a uniformarsi a un unico modello, quello della società più forte; nel nostro caso, al modello occidentale. Ma proprio perché condanniamo le infamie commesse dall’Occidente — le guerre e le persecuzioni religiose, la tratta degli schiavi, il colonialismo, la Shoah perpetrata da una delle più grandi nazioni d'Europa — non possiamo abdicare a quei principi universali in base ai quali condanniamo quelle infamie. Ad esempio, nessuna cultura altra o diversa può farci deflettere dal principio della pari dignità di ogni essere umano a prescindere dalla sua identità etnica, culturale, sessuale o religiosa. Le minoranze, specie quelle nazionali, hanno bisogno di leggi che le tutelino ma senza ledere il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini. È sconcertante, ad esempio, che nel Québec, ha ricordato Charles Taylor, la legge 101 sulla scuola vieti sostanzialmente ai francofoni e agli immigrati di iscrivere i loro figli a scuole di lingua inglese, mentre lo consente ai canadesi anglofoni. Per evitare l’eterna guerra contro l’altro, una politica responsabile deve cercare di evitare il crearsi di situazioni di conflitto che esasperino i pregiudizi, i risentimenti, le paure e le conseguenti violenze. Domani, ad esempio, il numero di immigrati — ossia di nostri concittadini del mondo giustamente desiderosi di sfuggire a un destino orribile — potrebbe divenire così grande da rendere materialmente impossibile l'accoglienza, al di là di ogni stolido e crudele pregiudizio; se tutti i dannati della terra arrivassero in Italia, non sarebbe fisicamente possibile accoglierli tutti e sarebbe una tragedia. Sul nostro futuro — sul futuro dell’umanità — incombe la minaccia di questa tragedia. Nessuno, credo, è così geniale da sapere come stornarla. Nel frattempo, un modo di arginare l’eterna guerra contro l’altro sarebbe quella di considerare come «altri» tutti, compresi noi stessi. Potremmo prendere esempio da un’anziana donna del Banato di cui ho parlato in un mio libro, nonna Anka. Questa donna, figlia di quella terra multiculturale straziata dall’odio di tutti contro tutti, parlava male di tutte le nazionalità della sua terra, compresa quella che considerava più sua, la serba. Diceva peste e corna di tutti i diversi e di tutti gli altri, ma sapendo di essere anche lei una diversa, un’altra e di meritare alcune di quelle strapazzate. Aveva ragione, perché siamo tutti dei lazzaroni e in questo riconoscimento della comune miseria ci può essere più concreta fraternità che nei bei discorsi politicamente corretti in cui tutti, i diversi e i non diversi, vengono elogiati come brave persone. |
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Pierfrancesco Prosperi, Gianfranco De Turris e l'immaginario islamofobo
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Conoscere il nemico dall' interno del suo ambiente più riservato; conoscere l' altra verità, quella che non si vede stando da questa parte. È ben noto che l' informazione è l' arma più efficace, ma il caso di cui stiamo per parlare è sui generis: l' informazione proveniente dal più stretto entourage del nemico viene raccolta dopo la morte di lui. Si tratta appunto del Dossier Hitler fatto allestire da Stalin sulla base della lunghissima e non certo spontanea confessione di due aiutanti di campo di Hitler, Linge e Günsche, catturati dopo il suicidio del Führer (il cui corpo proprio essi bruciarono) e dopo l' arrivo dei russi a Berlino. I due parlarono nel 1948-49, dopo essere stati a lungo «torchiati»; e le loro parole furono messe per iscritto da una commissione sovietica accuratamente selezionata. Il tutto fu denominato «Operazione Mito». Ne venne fuori un documento (oggi Doc. nr. 462a Sez. 5, Indice generale 30, dell' Archivio di Stato russo per la storia contemporanea) riservato unicamente a Stalin. È uscito quasi contemporaneamente in Germania (Verlagsgruppe Lübbe) e in Italia (Il dossier Hitler, traduzione di Andrea Casalegno, Utet Libreria, pp. 625, euro 24). Documento tanto più significativo, in quanto, molti anni dopo, Linge pubblicò in Germania un libro che trattava, non senza varianti, la stessa materia (Bis zum Ende, Monaco 1980). Perché Stalin volle questo documento? Non certo per assicurarsi che Hitler fosse davvero morto. È interessante il nome dato all' operazione: «Mito». Parola molto significativa, che taluni credono, a torto, che significhi «cosa non vera». Si trattava di distruggere, guardandolo da vicino, il «mito», che tanto a lungo aveva vigoreggiato, di Adolf Hitler. Un «mito» che aveva consentito a Hitler di contare sull' appoggio della maggioranza dei tedeschi, fino all' ultimo. Ma distruggere quel mito, presso chi, se il lettore del dossier era uno solo, cioè Stalin medesimo? Credo che questo dimostri quanto Stalin stesso temesse e prendesse molto sul serio (com' è giusto) il peso dell' avversario. Altro che la figura comica del Grande dittatore di Chaplin, che, pure, Stalin apprezzava. Viene in mente la equilibrata e strettamente politica descrizione data da Molotov della figura di Hitler. È in un passo delle Memorie (uscite nel 1986) curate in forma dialogica dallo scrittore Tchuev. Dice Molotov al suo intervistatore: «Esteriormente Hitler non aveva nulla di straordinario. Era un uomo molto compiaciuto di sé, si può dire infatuato di se stesso. Beninteso non era affatto come lo si rappresenta nei libri o nei film. Si calca la mano sull' aspetto fisico, lo si rappresenta come un pazzo, un maniaco, mentre non era affatto così. Era molto intelligente, ma limitato e reso ottuso per l' appunto da questa sua alta considerazione di sé e dall' assurdità della sua ideologia. Ma con me non sragionava affatto. Durante il nostro primo incontro è stato quasi sempre lui solo a parlare e io lo spingevo a parlare ancora di più. Il resoconto più esatto dei nostri incontri è quello di Berezkov: invece nella letteratura corrente si è dato largo spazio alla psicologia fantasiosa». Questo brano fu valorizzato sul Corriere nell' ambito di una importante recensione di Vittorio Strada (uscita il 9 dicembre 2001), il quale tracciò, in tale occasione, un mirabile ritratto di Molotov. Di Hitler e della sua cerchia Stalin sapeva certamente non poco grazie al lavoro dei suoi servizi di informazione. (Lo stesso vale in direzione contraria: era l' efficientissimo Gehlen, poi divenuto capo dei servizi di Bonn, a dirigere la «sezione sovietica» dei servizi d' informazione del Terzo Reich). Eppure, nonostante le quasi leggendarie spie sovietiche, che erano riuscite ad infiltrarsi persino nella rappresentanza diplomatica tedesca a Tokio (è il caso di Richard Sorge), Stalin volle sapere molto altro su Hitler, e da testimoni vicinissimi al Führer. Lo squilibrio tra le parti di cui si compone il volume ci fa capire che cosa veramente interessasse a Stalin. Delle complessive 381 pagine di testo, ben 320 comprendono il periodo della guerra, dallo scoppio nel settembre ' 39 al suicidio di Hitler. Ai sei anni precedenti, 1933-1939, sono dedicate soltanto le prime 64 pagine. Ma è soprattutto il periodo della guerra contro la Russia che lo interessa (pp. 110-381). È come se Stalin avesse cercato a posteriori di capire dove l' avversario avesse fatto una mossa falsa, quando esattamente Hitler avesse incominciato a perdere. Nella ricchissima serie di testimonianze interferisce certamente la selezione dei fatti voluta dall' unico lettore, cioè da Stalin stesso. Sintomatico il silenzio sul patto Molotov-Ribbentrop (23 agosto ' 39), che infatti viene citato solo per incidens quando si parla dell' attacco tedesco (22 giugno 1941). In alcuni casi le rivelazioni non sembrano potersi considerare con sospetto, visto che non riguardano il campo talvolta «minato» delle scelte politico-diplomatiche dello stesso Stalin. È il caso ad esempio della ostilità di Hitler verso l' intervento in guerra dell' Italia nel giugno ' 40. «Ciò che soprattutto indignò Hitler - dichiarano i due aiutanti di campo - era che l' Italia, che si era mantenuta neutrale per sei mesi, adesso improvvisamente volesse entrare in guerra a tutti i costi. Per non dover dividere il bottino con Mussolini, Hitler dichiarò che per il momento non aveva bisogno dell' Italia poiché la Francia era ormai ai suoi piedi. ( ) Hitler era molto preoccupato di quali fossero gli ulteriori obiettivi segreti di Mussolini» (pp. 89-90). Un altro punto dolente è la fuga di Rudolf Hess in Inghilterra (maggio 1941). Tutti i dettagli che i due aiutanti di campo forniscono vanno nella direzione della intesa con Londra tentata tramite quel «folle volo» (pp. 107-108). C' è la esclamazione di stizza di Hitler contro il duca di Hamilton, che «fa addirittura finta di non conoscere Hess»; c' è la conferma dell' esistenza di un memorandum segreto con le condizioni per una pace con l' Inghilterra («Hess l' aveva redatto e Hitler l' aveva approvato»). Nella postfazione (p. 416) i due curatori, Eberle e Uhl, trovano che nel tardivo volume di Linge (1980) le cose sono presentate diversamente: ma in realtà la variante indicata è trascurabile. Di grande interesse sono le condizioni offerte da Hitler in quel modo singolare a Londra: «L' Inghilterra avrebbe dovuto lasciare mano libera alla Germania nei confronti della Russia sovietica, mentre la Germania avrebbe garantito all' Inghilterra il possesso delle sue colonie e il predominio nel Mediterraneo» (p. 107). Un bel colpo all' Italia. La carta giocata col volo di Hess (che non trovò «sponda» in Inghilterra e che perciò dovette esser fatto passare per pazzo) era abile: Germania e Inghilterra arbitri dei destini mondiali e unite nel proposito di cancellare l' Urss. Ma l' Inghilterra di Churchill non era più quella di Chamberlain. E il gioco fallì. Rudolf Hess MISSIONE Il gerarca nazista volò in Inghilterra con alcune proposte di pace rivolte al governo britannico Benito Mussolini DISPETTO Il Führer era indignato con il Duce, che entrò in guerra solo quando la Francia era già sconfitta
Canfora Luciano
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