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Il realismo socialista tra ideologia e tradizione nazionale: la pianificazione culturale nell’ ex-Unione Sovietica (1920-1940)

Post n°212 pubblicato il 17 Ottobre 2011 da gabriellatiganisava

In concomitanza delle due mostre "I realismi socialisti " (Roma,  Palazzo delle Esposizioni, 11 ottobre-8 gennaio 2011 ), che purtroppo non ho ancora avuto modo di visitare ma che mi riprometto di farlo appena possibile, mi è sembrato interessante pubblicare un estratto della relazione presentata nel corso del seminario di "Storia dell'Europa Orientale", tenuto dalla professoressa Anna Di Biagio, da marzo a maggio 2011. Il seminario, molto impegnativo e articolato, dal titolo "Lo stalinismo prima e dopo la rivoluzione degli archivi", si è tenuto presso l'Università di Firenze, Facoltà di Lettere e Filosofia (Scienze Storiche). La relazione è centrata sulla produzione artistico-letteraria tra gli anni Venti e Quaranta (un arco temporale più ampio non è ancora scientificamente apprezzabile, poiché la documentazione più recente e aggiornata è ancora "ferma", dopo l'apertura degli archivi dell'ex-URSS, ad un peiodo non posteriore alla morte di Stalin, avvenuta nel 1953).

Per comprensibili ragioni tecniche e autoriali, la relazione non è presentata nella sua versione integrale, ma è comunque tutelata da un diritto di copyright*.

Il realismo socialista tra ideologia e tradizione nazionale: la pianificazione culturale nell’ ex-Unione Sovietica (1920-1940) *

Relatore: M. Gabriella Tigani Sava

PREMESSA

Una reazione molto comune tra coloro i quali sentono parlare di studi sul “realismo socialista” e sulla “cultura staliniana”, scrive Katerina Clark nella prefazione al saggio The Soviet Novel [1], è di stupore misto a commiserazione. L’argomento infatti non sembra apparire tra i più avvincenti poiché è opinione altrettanto diffusa che l’arte sovietica non sia stata nel complesso particolarmente interessante e fantasiosa, al contrario è in genere considerata uniforme e incolore.

“Arte di regime” oppure “arte fortemente ideologizzata” sono le definizioni più note del binomio realismo socialista, in riferimento alla produzione artistica, intesa in senso lato, che copre un arco cronologico abbastanza lungo e coincide con il regime staliniano. Arte “brutta” o, secondo la valutazione data dalle avanguardie russe, una vera “caduta nella barbarie”, quasi all’unanimità ritenuta dalla critica occidentale monotona e ripetitiva, con un unico motivo dominante, la figura di Stalin replicata all’infinito su muri, libri, quotidiani, posters e ritratti. Un’arte oggetto di giudizi non solo estetici ma anche etici, considerata come moralmente inaccettabile a causa del suo inscindibile legame con un periodo storico scomodo e da rinnegare poiché segnato da terrore, pulizie etniche e operazioni di massa e, quindi da consegnare all’oblio, alla damnatio memoriae.

Se nell’ex-Urss per molto tempo lo studio dell’arte staliniana ha rappresentato una sorta di taboo, in Occidente invece si è riacceso l’interesse degli studiosi soprattutto dopo la cosiddetta “rivoluzione degli archivi” seguita al crollo del comunismo, che, pur non avendo prodotto una rivoluzione storiografica[2]ha permesso di svelare un enigma, di ampliare in modo consistente anche la conoscenza della cultura staliniana, grazie alla maggiore disponibilità di documenti e all’utilizzo di nuove fonti, che nella fase pre-archivistica, non erano mai state considerate[3].

Negli anni Ottanta, alcuni studiosi, come la Clark e il Groys, si sono entrambi sottratti alla tentazione di etichettare il realismo socialista, cercando di rintracciare in esso una linea di continuità con i movimenti artistico-letterari che rientrano nel patrimonio culturale dell’ex- Urss. Katerina Clark nel saggio The Soviet Novel. History as Ritual[4], adotta un approccio interdisciplinare (funzionale, storico, antropologico, sociologico) alla materia sottoposta alla sua analisi, ossia la letteratura sovietica. L’autrice ricollega il realismo socialista a tutta la ricca e composita tradizione culturale nazionale, quindi alla letteratura del periodo zarista, alla letteratura religiosa, epica e popolare, espressione di un variegato e multinazionale Impero russo.

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NOTE

[1]“My interlecutor’s response is either to back out of the conversation or to mutter words of sympathy and amazement: “How do you ever manage to get through them!”(Katerina Clark, The Soviet Novel.History as Ritual,, Indiana University Press, Bloomington (IN), 1981, p. ix).

[2]Nicolas Werth, Storia della Russia nel Novecento. Dall’Impero russo alla Comunità degli Stati Indipendenti 1900-1999 (1° ed. 1993), Il Mulino, Bologna, 2000. Secondo il Werth, dopo la rivoluzione degli archivi, la storia dell’Unione Sovietica non appare più come un enigma, grazie alla liberazione della parola e della memoria.

[3] Si pensi per esempio alla scuola culturale che si avvale dello studio di nuove fonti, quali lettere, diari e memorie private, e anche degli svodki, vale a dire i resoconti forniti dalla polizia politica o dalle sedi locali al partito centrale.

[4].“What I have attempted here is an interpretative cultural history that uses the novel (and novella) as its focus because the novel is the privileged genre of Soviet Socialist Realism…I have done this by using a composite approach, involving methods from history, anthropology, and, to a lesser extent, literary theory”(Katerina Clark, The Soviet Novel, cit., p. xiii).



 
 
 
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