NOI CREDEVAMOIn cosa credevano i tre giovani meridionali protagonisti del film di Mario Martone, coprodotto dalla Rai e andato in onda sugli schermi televisivi da pochi giorni? A quale idea di nazione essi erano fedeli? Quale teoria politica seguivano? Cosa era veramente che spingeva loro a patìre le sofferenze delle carceri borboniche, ad adottare la fuga e la clandestinità come stile di vita, ad offrire il sacrificio della propria vita? Il processo risorgimentale italiano è un fenomeno assai complesso e che si presta a diverse interpretazioni, come quelle filosabaudiste, filomazziniane e filodemocratiche e ancora "meridionaliste" e "antimeridionaliste". Il regista Martone ha cercato di ricostruire, ma solo in parte a nostro avviso, attraverso le esperienze dei fratelli Domenico e Angelo e dell'amico Salvatore, le lotte portate avanti dai patrioti liberali italiani durante il XIX sec., per la liberazione dall’egemonia straniera e per l’ unificazione dell’Italia. Se la storiografia di impronta gramsciana (Gramsci, ricordiamo, definì il Risorgimento come una “rivoluzione mancata”) tende a ridimensionare il coinvolgimento delle masse nel disegno politico ideato e tenacemente perseguito dalle classi borghesi e da quelle aristocratico-illuminate, quella più recente è invece focalizzata sulla simbologia delle lotta risorgimentale e sulla rivalutazione del contributo fornito dai ceti meno abbienti. Così scrivono Paul Ginsborg e A. Mario Banti nel saggio Risorgimento (Storia d’Italia Einaudi, Annale 22, 2007): “Contrariamente a una tesi che trova tutt’ora i suoi sostenitori, e che considera il Risorgimento una questione che ha riguardato poche e ristrette élites, se non addirittura, un uomo solo al comando (il Cavour, per esempio) crediamo corretto, da un punto di vista rigorosamente analitico- sostenere che il Risorgimento è stato un movimento “di massa”…sostenere che il Risorgimento è un movimento politico “di massa” significa osservarlo dalla prospettiva da cui George Mosse ha studiato il movimento nazional-patriottico tedesco: entrambi sono declinazioni di una “nuova politica”, che nasce con la Rivoluzione Francese, e che… pone al centro dell’arena pubblica il popolo/nazione depositario principale della sovranità…”. Quali furono allora i valori risorgimentali? Quale la cultura dominante del periodo? I due autori proseguono osservando che la nuova cultura e il nuovo stile politico furono quelli dell’emozione e non della ragione, della razionalità. La cultura diffusa del periodo risorgimentale è basata su una serie di miti (es. la patria, ossia la nuova religione che affratellò il popolo italiano), di simboli, di allegorie che ebbe presa sull’opinione pubblica, che riuscì a smuovere le masse e spingerle alla partecipazione, alla lotta comune. Così il Banti: “Il messaggio fu così potente da convincere molti ad agire pericolosamente in suo nome, rischiando l’esilio, la prigione, la vita”.
NOI CREDEVAMO
NOI CREDEVAMOIn cosa credevano i tre giovani meridionali protagonisti del film di Mario Martone, coprodotto dalla Rai e andato in onda sugli schermi televisivi da pochi giorni? A quale idea di nazione essi erano fedeli? Quale teoria politica seguivano? Cosa era veramente che spingeva loro a patìre le sofferenze delle carceri borboniche, ad adottare la fuga e la clandestinità come stile di vita, ad offrire il sacrificio della propria vita? Il processo risorgimentale italiano è un fenomeno assai complesso e che si presta a diverse interpretazioni, come quelle filosabaudiste, filomazziniane e filodemocratiche e ancora "meridionaliste" e "antimeridionaliste". Il regista Martone ha cercato di ricostruire, ma solo in parte a nostro avviso, attraverso le esperienze dei fratelli Domenico e Angelo e dell'amico Salvatore, le lotte portate avanti dai patrioti liberali italiani durante il XIX sec., per la liberazione dall’egemonia straniera e per l’ unificazione dell’Italia. Se la storiografia di impronta gramsciana (Gramsci, ricordiamo, definì il Risorgimento come una “rivoluzione mancata”) tende a ridimensionare il coinvolgimento delle masse nel disegno politico ideato e tenacemente perseguito dalle classi borghesi e da quelle aristocratico-illuminate, quella più recente è invece focalizzata sulla simbologia delle lotta risorgimentale e sulla rivalutazione del contributo fornito dai ceti meno abbienti. Così scrivono Paul Ginsborg e A. Mario Banti nel saggio Risorgimento (Storia d’Italia Einaudi, Annale 22, 2007): “Contrariamente a una tesi che trova tutt’ora i suoi sostenitori, e che considera il Risorgimento una questione che ha riguardato poche e ristrette élites, se non addirittura, un uomo solo al comando (il Cavour, per esempio) crediamo corretto, da un punto di vista rigorosamente analitico- sostenere che il Risorgimento è stato un movimento “di massa”…sostenere che il Risorgimento è un movimento politico “di massa” significa osservarlo dalla prospettiva da cui George Mosse ha studiato il movimento nazional-patriottico tedesco: entrambi sono declinazioni di una “nuova politica”, che nasce con la Rivoluzione Francese, e che… pone al centro dell’arena pubblica il popolo/nazione depositario principale della sovranità…”. Quali furono allora i valori risorgimentali? Quale la cultura dominante del periodo? I due autori proseguono osservando che la nuova cultura e il nuovo stile politico furono quelli dell’emozione e non della ragione, della razionalità. La cultura diffusa del periodo risorgimentale è basata su una serie di miti (es. la patria, ossia la nuova religione che affratellò il popolo italiano), di simboli, di allegorie che ebbe presa sull’opinione pubblica, che riuscì a smuovere le masse e spingerle alla partecipazione, alla lotta comune. Così il Banti: “Il messaggio fu così potente da convincere molti ad agire pericolosamente in suo nome, rischiando l’esilio, la prigione, la vita”.