SFIDE DI PENNA

ci troverete recensioni di film, giochi letterari e informazioni sui concorsi

Creato da ParafrasandoOblii il 19/02/2010
 
 
 

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Citazioni

In amore non può esserci tranquillità, perché il vantaggio conquistato non è che un nuovo punto di partenza per nuovi desideri.
Marcel Proust

Tutte le decisioni definitive sono prese in uno stato d'animo che non è destinato a durare.
Marcel Proust

L'esser contenti è una ricchezza naturale, il lusso è una povertà artificiale.
Socrate

Non esiste separazione definitiva finché esiste il ricordo.
Isabel Allende

Eravamo insieme, tutto il resto del tempo l'ho scordato.
Walt Whitman

La moda è una forma di bruttezza così intollerabile che siamo costretti a cambiarla ogni sei mesi.
Oscar Wilde

L'uomo stolto cerca la felicità lontano, il saggio la fa crescere sotto i propri piedi.
J.
Robert Oppenheimer

"...è uno strano dolore... morire di nostalgia per qualcosa che non vivrai mai..
." Baricco-Seta

La felicità è benefica per il corpo, ma è il dolore che sviluppa i poteri della mente.
Proust

Ti amo, ma la cosa non ti riguarda. Holderlin

 

 

Concorso di poesia San ValenZine

Post n°20 pubblicato il 13 Gennaio 2011 da ParafrasandoOblii
 

http://www.scripta-volant.org/index.php?option=com_content&view=article&id=364&Itemid=262

In occasione della festa di San Valentino, Associazione Aliantide / Scripta Volant organizza  San ValenZine.
Verranno scelte 5 poesie, di cinque autori differenti, che pubblicheremo in un’edizione speciale della nostra VolanZine.
Per questa occasione, le regole del concorso saranno “speciali”. Potrete pubblicare voi direttamente nel forum le poesie in concorso, insieme commenteremo le poesie in gara e il comitato di lettura Scripta Volant, sceglierà le vincitrici!

Genere: poesia;

Lunghezza delle poesie: massimo 18 righe;
Scadenza per inviare le poesie: 10 febbraio 2011;
Pubblicazione: Libretto VolanZine, distribuito in tutta Italia dal giorno di San Valentino!

 

Il termine per inviare la propria poesia per partecipare al concorso scadrà giorno 10 febbraio

REGOLAMENTO DEL CONCORSO

 1. “San ValenZine”  è un concorso per poesie, per partecipare al quale è sufficiente la registrazione gratuita al Portale Scripta-Volant.org.  E' un concorso aperto a tutti i cittadini italiani, di qualunque età purché maggiorenni.


2. Il concorso è gratuito e viene organizzato in occasione della festa di San Valentino.

3. Le poesie dovranno avere una lunghezza massima di 18 righe

4. Per partecipare al concorso dovranno inserire nel forum San ValenZine la propria poesia.  Ogni autore potrà partecipare con un solo componimento   

5. A insindacabile giudizio della redazione, potranno non essere ammesse poesie che abbiano un contenuto pornografico e/o offensivo, che verranno rimosse dal forum.          

6. Le poesie in gara potranno essere lette e commentate   entro il 10 Febbraio, da tutti gli iscritti al portale.

7. I partecipanti al concorso sono tenuti a leggere e commentare le poesie in gara. Sussiste comunque l'obbligo di commentare almeno cinque poesie, pena l’eliminazione dal concorso.

8. I racconti dovranno essere letti e commentati con assoluta lealtà e schiettezza. La redazione si riserva di eliminare quei commenti che siano in contrasto con questi requisiti. 

9. Le cinque poesie vincitrici  verranno pubblicato a cura della redazione in una VolanZine, distribuita in tutta Italia. 
CHIUNQUE PUÒ CONTRIBUIRE ALLA DISTRIBUZIONE: chi vorrà, potrà stampare anche solo 10 copie della VolanZine, piegarla (usando la guida che trovate qui: 
http://www.scripta-volant.org/doc/come-piegare-una-volanzine.pdf  ) e affidare al caso, alla magia del destino, il racconto vincitore. Noi della Redazione, ne distribuiamo ogni mese: durante eventi letterari o in giro per le nostre città!
Partecipando al concorso gli autori acconsentono a cedere a titolo gratuito il diritto di pubblicazione, riproduzione, diffusione e distribuzione al pubblico,  all’interno della VolanZine. A Scripta-Volant è riservata la scelta del tipo di veste grafica. Tale concessione si intenda valida per tutto il periodo di distribuzione. Concede, altresì, ove lo ritenesse necessario, il diritto di utilizzare estratti dal racconto a fini pubblicitari e promozionali, in qualsiasi modo e forma.


10.
Ogni autore dichiara che la propria poesia è un’opera originale di sua esclusiva paternità, che non viola alcuna norma di legge e/o diritti di terzi e in particolare, non ha né forme né contenuti denigratori, diffamatori o di violazione della privacy. In caso contrario, l'autore ne sarà l'unico responsabile. 

11. Partecipando al concorso, gli autori accettano tutti gli articoli del Regolamento.
  

 
 
 

Sesso incatenato (1928), il miglior film muto di Dieterle.

Post n°19 pubblicato il 12 Gennaio 2011 da ParafrasandoOblii
 

[Geschlecht in Fesseln - Die Sexualnot der Gefangenen, Germania,

Drammatico, durata 106'] Regia di William Dieterle.

«Mi faccia lavorare, non saprei come sostenere il dolore».

Il film racconta la storia di una novella coppia di sposi trovatasi ad affrontare la divisione, in seguito alla detenzione del marito. La carcerazione è causata dall'aggressione che l'uomo compie contro un altro uomo che stava insidiando la donna sul posto di lavoro. Elemento scatenante quindi risulta essere la gelosia nella sua forma brutale e spasmodica di irruenza. In seguito alla morte dell'uomo aggredito, l'aggressore (ovvero il marito in questione) viene condannato a tre anni di carcere. Durante un primo periodo di detenzione l'uomo entra in contatto con un altro uomo, il quale di lì a poco verrà scarcerato, che prometterà poi di aiutare la moglie del compagno di prigionìa, essendo la donna rimasta sola e senza alcun lavoro. L'uomo manterrà la promessa non appena libero. Uno dei temi centrali dell'opera risulta essere la sentita mancanza fisica del consorte espresso magistralmente sia dal punto di vista dialogico, nella frase «perché possiamo mangiare, bere, dormire e non fare quello?», sia visivamente nella disperazione dei protagonisti. L'uomo tenterà di esorcizzare la mancanza assumendo oggetti quali un fazzoletto, oppure il pane a forma di donna, come feticcio di un legame compromesso dalla imperativa distanza. Particolare anche il disegno che il marito crea sul muro del carcere generando un'immaginifica temporanea relazione con la moglie assente. Alla donna è, invece, dedicata l'intera scena in cui questa si dimena, correndo dall'uno all'altro capo della stanza, scorgendo il marito in pose e quotidianeità irreali, frutto del ricordo misto alla disperazione. Quelle piccole oasi costituiscono dei veri e propri ologrammi che si infrangono all'istante all'urtare della donna contro mura, porte e così via. Non trovando soluzione all'uno e l'altro sconforto i due si abbandonano al peccato: l'uomo tradirà la moglie con un compagno di cella; la donna con l'uomo che l'aveva aiutata. A questo punto del film è però evidente come i due, nonostante il sentimento che provano l'uno verso l'altra, si allontanino a poco a poco. Una scena mostra come nel corso dei tre anni la distanza nel momento di visita si acuisca fino a far perdere definitivamente la parola. Tant'è che si raggiunge il paradosso: la donna riesce finalmente a farsi concedere del tempo da sola col marito, tempo però che passa nel silenzio. E' a dir poco atroce, si evidenzia quanto le barriere mentali possano rinchiudere, ancor più di quelle fisiche, imposte dalla società. Prima il carcere non permetteva loro di toccarsi, di amarsi; poi nonostante la vicinanza e la permissione sono stesso loro a non tentare nemmeno un passo verso l'altro, in qualità di un rimorso albergante e di un senso di vergogna che prende piede massacrando ogni virilità. Eppure, quando la donna tornata a casa parlerà con l'altro uomo, alla domanda «se andassi da lui affinché tu fossi libera e diventassi mia moglie» lei risponderà «no, no, io amo lui, solo lui». Si evidenzia così come il momento di colpa, l'attimo di perdizione, non mutano quanto l'uno prova nei confronti dell'altro. I sentimenti non escono sconfitti dalla realtà dei fatti, come si vedrà bene nel finale, «Noi ci apparteniamo sia nell'amore che nella colpa». Tale senso d'appartenenza scaturisce però, ed è facile desumerlo, dalla scambievole peccaminosità dei due consorti. Entrambi, infatti, hanno tradito il loro sentimento, non solo uno, non solo l'altra. Alla fine risulta evidente che i protagonisti si perdonano a vicenda ma non riescono a perdonare se stessi, quindi la tragicità. Cosa ne sarebbe stato però di questo perdonarsi a vicenda se solo uno si fosse reso colpevole del tradimento? Fa quanto meno riflettere il fatto che il perdono dell'altro sia sempre agevolato dal proprio sentimento di colpa, magari passato, che permette una più facile comprensione della colpa altrui. E' vero perdono quello che si ottiene attraverso l'empatia, il riconoscersi nella colpa dell'altro, il redimere l'atteggiamento dell'altro perché anche noi un tempo abbiamo peccato? Come la fiducia non dovrebbe derivare dal perfetto comportamento del consorte, perché altrimenti sarebbe facile accordargliela; così il perdono dovrebbe ergersi al di sopra dell'orgoglio. Laddove non c'è orgoglio da recuperare, perché non è compresso l'equilibrio delle parti, in virtù del vicendevole sbaglio, allora non c'è perdono, ma comprensione.

 
 
 

Mangia, prega, ama

Io sono una di quelle persone che non si diverte a "distruggere", cerco sempre di
trovare lati buoni in qualsiasi cosa. Eppure, nonostante questa mia capacità,
devo arrendermi all'evidenza: posso salvare poco o niente di "Mangia, prega, ama",
film che ho visto ieri al The Space Cinema Moderno di Roma
in anteprima europa. Oltre la sfilata di celebrità, come sempre bellissima
Julia Roberts in abito nero ricamato; oltre le splendide ballerine stile indiano, proprio
riferendosi ad una delle parti del film dirette in India; oltre la scena della carbonara
a Roma e della pizza da Michele a Napoli, magistralmente dirette, c'è proprio poco da dire.
Il film ricalca la struttura dialettica del titolo, suddividendosi così banalmente in
queste 3 parti. Niente da dire se poi le tre parti fossero dignitosamente realizzate.
Invece, sono un susseguirsi di stereotipi (la vita romana, gli italiani del dolce far niente,
la bambina napoletana che fa i gesti agli stranieri, ecc. giusto per citarne alcuni)
e dialoghi così banali da far accapponare la pelle. La sensazione era quella di
una struttura narrativa incerta,fragile, voluta a forza fa rientrare nel trittico:
corpo, spirito, cuore. Salvabili solo i monologhi, riflessioni della protagonista,
forse a buon diritto estrapolati per intero dal romanzo. A parte queste,
nelle azioni, nella trama e nel rapportarsi dei personaggi le preoccupazioni, istanze
psicologiche, della protagonista sono labilmente visibili e questo non fa che accentuare
lo scarto tra quanto avrebbe dovuto esserci e quanto, invece, non c'è proprio. Flebili
persino i caratteri, senza alcuno spessore e dignità artistica, cosa che rende impossibile
l'immedesimazione e quindi una buona fruizione estetica del prodotto.
La cosa che più di tutte non ha proprio funzionato è stata l'intenzione di rendere
il film una commedia romantica "seria", non riuscendo ad essere né una commedia
romantica piacevole e scorrevole (pur nella banalità) e tanto meno una di quelle
commedie impegnate. Tant'è che ipotizzo non possa piacere a nessuna delle due
frangenti di pubblico. L'unica cosa seria del film è, infatti, la durata di ben due ore e mezza,
spese a vedere un film che non lascia assolutamente niente allo spettatore: né il puro
divertimento, né il classico sognare ad occhi aperti tipico dell'illusione di una classica
storia d'amore americana, ed assolutamente niente di riflessivo ed intensionale.

Un film di Ryan Murphy. Con Julia Roberts, James Franco, Richard Jenkins, Viola Davis, Billy Crudup.Titolo originale Eat Pray Love. Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 140 min. - USA 2010. - Sony Pictures uscita venerdì 17 settembre 2010.

 

 
 
 

The Road

Post n°17 pubblicato il 25 Giugno 2010 da ParafrasandoOblii
 

the_road

The Road è un film del 2009 diretto da John Hillcoat.

Il film è un adattamento cinematografico del romanzo di Cormac McCarthy La strada, pubblicato nel 2006 e vincitore del Premio Pulitzer nel 2007.

Protagonisti della pellicola sono Viggo Mortensen e Kodi Smit-McPhee

insieme alla sempre splendida Charlize Theron.

La trama si svolge in un contesto "apocalittico" di crisi della realtà sociale, avvenuta in seguito a fenomeni tellurici di vasta portata. I terremoti avrebbero provocato, oltre il progressivo disboscamento, un’estinzione della fauna terrestre; la qual cosa ha condotto a sua volta verso un diminuire improvviso del bene primario per l’uomo: il cibo.
L’evidente scarto quantitativo tra la popolazione richiedente e l’oggetto al centro dei desideri di sopravvivenza ha spinto una vasta frangente di invidui verso i limiti estremi della loro umanità. Laddove ogni istituzione soccombe sotto i colpi di una natura non incline a rinunciare alla propria esistenza in virtù di concetti astratti, si palesano degli scenari nauseabondi per l’uomo sociale che ha, casualmente o non, scelto la visione di questo film. Durante la strada, infatti, che li condurrà verso sud, l’uomo alla ricerca disperata di cibo scopre una cantina, proprio sotto la cucina di una casa apparentemente abbandonata. L’amara rivelazione è un tripudio di carni viventi mozzate di arti. Immaginate di essere cibo, che tutti gli altri siano cibo, organismi tenuti in vita col solo scopo di evitare la putrefazione. Dietro l’aspetto di mostro di un qualsiasi film dell’orrore, quasi come zombie, c’è l’uomo.
Sappiamo, anche grazie a numerosi studi filosofico-sociologici, che la realtà attuale è quasi del tutto occupata da istituzionalità. Dovunque ci giriamo scorgiamo fenomeni sociali come il matrimonio, il denaro, la proprietà, qualcosa che non ha di per sé un valore intenzionale ma lo acquista grazie ad un’assegnazione di funzione da parte della collettività. Immaginiamo dunque di vedere banconote lasciate alle strade, beni oggi di primo ordine considerati nulli; immaginiamo buona parte degli individui arrendersi alla paura di un’imminente processo inverso di transustanziazione, da uomo a cibo; intere famiglie, compresi i bambini (anzi soprattutto per i bambini), impiccarsi perché a quel punto la morte assume le tinte di un riparo accogliente, fuori di ogni terrore. Non è un caso che il film inizi proprio con l’affermazione che il tempo non esiste. Non c’è più alcuna posizione temporale, perché anche il tempo è un prodotto sociale e dove non c’è più posto per alcuna società il tempo cessa di esistere; lo spazio assume i connotati di un territorio da video gioco, in ogni momento qualsiasi cosa puo’ mutare in un’altra, qualsiasi cosa puo’ comparire e all’uomo non resta che muoversi di continuo, senza fermarsi, nel viaggio nomade di chi ha come solo scopo la sopravvivenza.
 Ecco, in questo contesto scorre il percorso interiore di un padre deciso nell’intento, oserei dire educativo, di preservare le possibilità di esistenza del figlio. Il presente è talvolta accompagnato da un passato, alle volte germoglio di pace fiorito grazie al ricordo; altre infinito riverbero di un lascito duro, l’addio di una madre e moglie arresasi al nulla. Al figlio che chiede continuamente quale sia la direzione, lo scopo, l’aspettativa, l’uomo risponde di voler andare verso la costa, sperando in residui di umanità.  Ma il padre, che un tempo era medico, sa di stare per morire, sa bene di dover fare l’impossibile per insegnare al bambino tutto quanto gli possa servire per resistere. Ad un certo punto del film, al bambino che si sveglia in preda agli incubi, il padre dice che è un buon segno, vuol dire che sta ancora lottando, laddove dietro un’incantevole sogno si celerebbe la resa.
“Noi portiamo il fuoco”, gli dice. Dove per fuoco si intende forse l’essenza dell’umanità vera, quella non corrosa dalla fame, un’umanità che si palesa tutta negli occhi di un’altra madre che accoglie, infine, quel bambino ormai solo, avvenuta la morte del padre. La fine fortunata del bambino, nell’aver trovato una famiglia pronta ad accoglierlo, nell’aver trovato finalmente i “buoni”, getta una pallida luce: la possibilità che il fuoco non si dilegui, che la fiamma non si spenga al sospiro mortale della società.  

 

 
 
 

COME IN UNO SPECCHIO

Post n°16 pubblicato il 31 Maggio 2010 da ParafrasandoOblii
 

come in uno specchio2

 

Il film che andiamo adesso ad analizzare è il primo di una trilogia che Bergman dedica al Silenzio di Dio.
“Come in uno specchio” (1961) ricevette l'Oscar come miglior film straniero e venne presentato al Festival di Berlino del 1962, ottenendo il premio dell'OCIC (Office Catholique International du Cinèma, organizzazione cattolica del cinema). Seguiranno poi “Luci d’inverno” (1962) e “Silenzio” (1963), l’ultimo desterà non poco scandalo.


Come in uno specchio

"Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia" (Prima lettera ai Corinzi, Capitolo 13, Verso 12, Paolo di Tarso)

Innanzitutto l’ambientazione fu ispirata da un sopralluogo all’isola di Fårö, nel Baltico. Il luogo, a differenza delle isole Orcadi da lui pure visitate ma che non riuscirono a soddisfarlo, affascinò tanto il regista da divenire sfondo non che emblema della tematica scelta. Con la sua natura presente ma nostalgica, l’isola riesce bene a fondersi con lo stato d’animo dell’uomo spinto al culmine dell’essere esistenziale che lo contraddistingue.

La storia narra di una famiglia colta nel doveroso assistere alla malattia di una donna: moglie, sorella e figlia. I personaggi riflettono, come in uno specchio, un amore che si fa dolore, filtrato dalle sfumature caratteriali dei tre. Il padre, scrittore famoso, combatterà l’avanzare del tempo che dilegua sempre più la possibilità di cogliere l’essenziale e lasciarsi andare ad esso. Il cruccio è quello d’aver perduto gli anni in una corsa forsennata verso tutto quanto alla fine non conta.

"Vedi Karin si traccia un magico cerchio intorno a noi, escludendo tutto ciò
che puo' compromettere i nostri intenti; ma quando la vita spezza il cerchio
questi intenti si rivelano meschini ed insignificanti. Così tracciamo subito un
nuovo cerchio, un nuovo riparo".
"Povero caro papà".
"Si, certo, povero papà costretto dalla vita a vivere nella realtà".

Pare quindi che la crudeltà della vita sia proprio questa, quella di tendere egoisticamente verso scopi inessenziali, vani. L’altro è vissuto come un ostacolo, qualcosa da fuggire, ecco perché il padre annuncia ad inizio film la sua volontà rinnovata di partire per un viaggio culturale.

"Dal mio animo vuoto sbocciò qualche cosa che non ho quasi il coraggio di nominare: un'amore per Karin, per Minus, per te", dirà poi al marito della figlia, confidandogli quindi, che nonostante il suo apparire egoista, c’era qualcosa, di gran lunga più grande di qualsiasi successo, che gli premeva, qualcosa che si era reso evidente in seguito ad un evento terribile: il tentativo di suicidio. Gesto culminante di un disprezzo di sé e della vita che lo aveva reso, e continuava a renderlo ogni giorno, un uomo indegno di ogni scelta. Affrontare la morte riesce quindi a scuoterlo dal torpore di un’esistenza spesa in un circolo vizioso che rifugge l'unico bene: l’amore.

Il marito è un medico, l’uomo di scienza perduto in un amore destinato alla fine, non una qualsiasi, la più terribile: una malattia che condurrà la donna amata a scegliere tra due vite, due realtà.
Così dirà la donna, Karin, ad un certo punto del film, rivolgendosi al padre.

"Non si puo' vivere in due mondi, bisogna scegliere.
Non ho più la forza di passare continuamente dall'uno all'altro.
Così non posso andare avanti".

C’è una porta che la donna continua ad attraversare, un varco tra i due mondi. In quel mondo esseri dal volto illuminato aspettano Dio, dicono che arriverà, sta già arrivando. L’attesa è amplificata anche da un udito più potente del normale, che costantemente la concede a delle voci. L’attesa di Dio è il nostro tempo, la nostra premura, eppure siamo costantemente rivolti ad altro, non udiamo le voci, perché siamo distratti da una realtà che prepotente fa soccombere l’altra ai nostri sensi.
Ad un certo punto del film, la donna assisterà all’apertura della porta: quello che dice di vedere è Dio, ma è un’immagine di Dio che potremmo sopportare, che genera grida e spasmi, è un Dio violentatore, un Dio gelido che striscia sul suo corpo per sedurla.

"Ho avuto paura, la porta si è dischiusa, ma il Dio che è entrato era solo un ragno. Si è avvicinato a me ed io l'ho visto in faccia, un viso ripugnante e gelido. Si è lanciato su me, voleva possedermi ma io mi sono difesa".

Questa è la sola parte che ha destato qualche perplessità in me, per l’incongruenza che, come vedremo, avrà nei confronti di un’altra visione di Dio (in senso non letterale), quella del padre. E’ possibile, sebbene si tratti di ipotesi, che questo Dio di cui parla in queste parti la donna sia un essere diabolico che non coincide con il Dio che noi intendiamo. Credo che però in realtà si voglia così mostrare come la vita possa in tutte le sue sfaccettature, e soprattutto in situazioni limite, convincerci o dell’inesistenza di Dio (dell’essere quindi affacciati al nulla), oppure del suo essere malvagio. Ed è infatti accertato che l’uomo, all’insorgere di alcune situazioni, non riesca a concepire l’esistenza di un Dio buono. Si chiederà infatti: “Se esiste, perché fa succedere tutto questo?”. Questa è una delle conseguenze principali del silenzio: nessuna motivazione, nessuna voce che infiammi il buio di verità consolatrice.

Il fratello, Minus, è un giovane ragazzino, tanto giovane da soffrire per una paternità che non si fa rispetto. Il rapporto tra Minus e la sorella sarà, invece, contaminato dall’insorgere della malattia in tutta la sua prepotenza, finendo nell’incesto. Eppure, nemmeno questo, riuscirà a scalfire l’affetto dei due fratelli, il loro amore ci colpirà, tra  scambievoli premure e sentimenti di colpa, per la forza in cui riesce comunque ad essere puro, oltre le degenerazioni della malattia, oltre l’abbandono.
 
Ad inizio film Minus preparerà insieme alla sorella un breve spettacolo teatrale, in onore dell’arrivo del padre. La fantasmagoria artistica racconta di una damigella morta e dell’amore per lei di un uomo che dice di essere un vero artista, uno di quelli che non porta a compimento niente. Lei, per aver prova del suo amore, gli chiede di seguirla nella morte. L’artista, interpretato da Minus, si lancerà in un monologo preannunciante la scelta tra la vita e l’amore.

"Affronto il supremo momento della perfezione e tremo di sublime gioia.
Io mi adagerò in seno all'oblìo e solamente mi amerà la morte.
Allora io vado, niente puo' fermarmi.
Ah ma dannazione che cosa sto facendo? Rinunciare alla vita? Per cosa?
Per l'eterna gloria, per l'opera d'arte perfetta, per l'amore? sto diventando pazzo.
Chi vedrà il mio sacrificio? La morte? Chi magnificherà questo mio grande amore?
Un fantasma? Chi mi onorerà? Gli spettri di un mondo a venire?
Già, questa è la vita. Ah potrei scrivere un poema sul mio incontro con la principessa o
dipingere un quadro o comporre un'opera, sebbene dovrei cambiarne l'epilogo e dargli un tono eroico. L'oblìo mi possiederà e solamente la morte potrà amarmi”.

Sembra che di fronte alla morte tutto perda di senso, ogni cosa decada. Persino l’amore ha bisogno di qualcuno che lo accolga, che lo consacri. Eppure, questa prospettiva così desolante verrà smentita proprio alla fine del film. Da notare quindi come i due poli dell’antitesi si collocano in posizione diametricalmente opposta: il giovane, ad inizio film, costruirà un’opera teatrale sul malessere dell’uomo che non riesce a rinunciare alla vita, nemmeno per l’amore. A fine film, il padre svelerà la sua verità al figlio.


"Quando nel relitto ero avvinghiato a Karin, tutta la realtà è esplosa. Capisci che voglio dire?".
"Si, capisco".
"La realtà è esplosa ed io ne caddi fuori. E' come in un incubo. Tutto puo' accadere papà, tutto".
"E' vero".
"Non posso vivere in questo nuovo mondo".
"Si che puoi, se avrai qualcuno su cui sostenerti".
"Chi secondo te, un Dio? Dammi una prova di Dio, non puoi".
"Si che posso, ma devi ascoltare bene ciò che ti dico Minus".
"Si, ho bisogno d'ascoltare papà".
"Posso darti solo una pallida idea delle mie speranze. Dio è la certezza che l'amore esiste come cosa concreta in questo mondo di uomini".
"Intendi un'amore particolare, è vero?".
"Ogni genere d'amore: il più elevato ed il più infimo, il più oscuro ed il più splendido.
Ogni specie d'amore".
"Anche il desiderio d'amore?".
"Il desiderio e la repulsione, miscredenza e fede".
"L'amore è una dimostrazione di Dio".
"Non so se l'amore dimostri l'esistenza di Dio oppure se l'amore sia
Dio stesso".
"Per te amore e Dio sono la stessa cosa allora?".
"Questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria ed alla mia disperazione".
"Continua papà".
"Di colpo la miseria è diventata ricchezza e la disperazione speranza. E' come essere graziati Minus, in punto di morte".
"Papà, se è vero ciò che dici, allora Carin è tutta circondata da Dio perché noi l'amiamo davvero".
"Sì".
"Questo puo' aiutarla?".
"Penso di si".

A questo punto è evidente che l’identificazione Amore e Dio è alla base del pensiero dell’autore e che solo questa puo’ salvare l’uomo dalla nullificazione totale e lenire le sofferenze della malattia e poi della morte.

Il dialogo finale si chiuderà con la gioia di un figlio che assiste alle parole del padre, quasi come fossero un’epifania, rivelazione di una qualche verità che generi conforto, non solo per il contenuto ma, principalmente, perché sente la sincerità di una comunicazione vera.
“Papà ha parlato con me” saranno le ultime parole.

 

Dunque c’è nel silenzio qualcosa, qualcosa che non possiamo udire se non vegliamo, qualcosa che si riflette nel mondo ed in noi, come in uno specchio, qualcosa che noi tutti chiamiamo amore.

come in uno specchio

 

 

 

 

 



 

 

 
 
 

IL SETTIMO SIGILLO

Post n°15 pubblicato il 30 Maggio 2010 da ParafrasandoOblii
 

Questa è la mia mano, posso muoverla e in essa pulsa il mio sangue. Il sole compie ancora il suo alto arco nel cielo ed io Antonius Bloch gioco a scacchi con la morte”.

Il settimo sigillo è un film diretto da Ingmar Bergman del 1957, trasposizione cinematografica di Pittura su legno, dramma in atto unico scritto dallo stesso Bergman per i suoi allievi dell’accademia di Malmö.
Siamo nel XIV secolo in Svezia, il cavaliere Antonius Bloch ed il suo fidato scudiere Jons tornano in patria, dopo aver passato gli ultimi dieci anni della loro vita a combattere una crociata (guerra probabilmente suggerita da qualcuno che poi ha pensato bene di non combatterla, come suggerito nello stesso film). Al loro ritorno la Svezia è assediata dalla Peste, che seminava terrore negli occhi del popolo arricchendo così, sempre più, le fila religiose attendenti l’apocalisse. Non a caso infatti il film inizierà proprio con una frase tratta dall’Apocalisse di Giovanni: “Quando l'agnello aperse il settimo sigillo nel cielo si fece un silenzio di circa mezz'ora e vidi i sette angeli che stavano dinanzi a Dio e furono loro date sette trombe”.
La tematica è quindi evidente e persino personificata.
La morte gira il mondo con una scopa, lambisce il suolo in cerca di morti, disse Neruda. Nel film la morte si trascina accompagniandosi ad una falce ed incorniciando il volto pallido in veste nera. Soltanto i morenti possono vederla, escluso un individio alquanto bizarro: un attore che si diletta a comporre canzoni con la lira e che continuamente dice alla moglie di avere delle visioni, per le quali non è creduto, anzi beffeggiato. Così è delicatamente trasposta l’ironia del vedere ciò che gli altri non vedono.
Uno dei personaggi principali, il cavaliere, incontrerà invece la Morte alla quale chiederà di prolungare l’evento invitandola ad una partita a scacchi.
Chi sei tu?
Sono la morte.
Sei venuta a prendermi?
E' già da molto che ti cammino a fianco.
Me ne ero accorto.
Sei pronto?
Il mio spirito lo è, non il mio corpo
”.
La speranza è quella di dare un senso ultimo ad una vita spesa “a far la guerra, andare a caccia, ad agitarmi, a parlare senza senno, senza ragione. Un vuoto... e lo dico senza amarezza e senza vergognarmi perché lo so che la vita della maggior parte della gente è tale, ma ora voglio utilizzare il respiro che mi sarà concesso per un'azione utile”. Tale motivazione l’ho estratta da un dialogo molto interessante che il cavaliere crede di fare con un prete in un confessionale, mentre, invece, era ancora lei, la Morte, ad ascoltarlo ed a rispondergli.
Ripercorrerò il dialogo delineando alcuni tratti fondamentali per celebrare in maniera adeguata la tematica del film.

Cavaliere: Vorrei confessarmi ma non sono capace perché il mio cuore è vuoto ed è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare. Mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e paura. Vi leggo indifferenza verso il prossimo, verso tutti i miei irriconoscibili simili. Vi scorgo immagini di incubo date dai miei sogni e dalle mie fantasie.
La Morte: Non credi che sarebbe meglio morire?


E’ necessario che la Morte possieda questa prospettiva, senta il suo compito come la scelta più adeguata, il supremo compimento; laddove il cavaliere rappresenta l’atterrimento umano di fronte l’autocoscienza rivelatasi nel suo essere nulla, o meglio vuota amenità, spazio in cui non trovano posto alcuno i sentimenti ed i valori che le conferirebbero senso e pregnanza.


C: E' vero.
M: Perché non smetti di lottare?
C: E' l'ignoto che m'atterrisce.
M: Il terrore è figlio del buio.


Eppure di fronte a quella consapevolezza, l’uomo non puo’ nulla, non riesce a liberarsi del ni-ente, se la prospettiva che si eleverebbe dinanzi è quella dell’ignoto.


C: Che sia impossibile sapere... Ma perché, perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse, preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli. Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? Che cosa sarà di coloro i quali non sono capaci, né vogliono avere fede. Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me in modo vergognoso ed umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore. E perché nonostante tutto egli continua ad essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi?


In pochi minuti si condensano la maggior parte delle domande che assillano l’uomo quando rivolge il pensiero a Dio.


M: Il suo silenzio non ti parla?
C: Lo chiamo e lo invoco e se egli non risponde io penso non esiste.
M: Forse è così. Forse non esiste.
C: Allora la vita non è che un vuoto senza fine. Nessuno puo' vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel nulla, senza speranza.


La possibilità che il vuoto non sia dimora di niente, che ogni singolo gesto si perda inesorabilmente, è una prospettiva che non si puo’ accogliere.


M: Molta gente non pensa, né alla morte, né alla vanità delle cose.
Anche volendo accogliere come motivo il divertissement, la distrazione dalle domande fondamentali, quella posticipazione dalla scelta che Kierkegaard tanto condannava; anche in questo caso arriverà il giorno...


C: Ma verrà il giorno in cui si troveranno all'estremo limite della vita.
M: Sì, sull'orlo dell'abisso.


E quale mai potrebbe essere la risposta dell’uomo alle sue paure improvvise, colte tutte in un lampo, nel breve spazio fuggente prima dell’ignoto.


C: Lo so, lo so ciò che dovrebbero fare. Dovrebbero intagliare nella loro paura un'immagine alla quale dare poi il nome di Dio.


Nel film sono rappresentate le diverse prospettive di reazione umana di fronte al paradigma della Morte. Dagli atti di fustigazione di coloro i quali credevano nella Peste come punizione di Dio per i peccati dell’uomo, alla fede vacillante ed interrogativa del Cavaliere (che forse è quella dello stesso autore)ed alla prospettiva disincatata dello scudiere.
Propio lo scudiere Jons sarà il protagonista di un altro importante dialogo. Mentre il cavaliere si reca al confessionale, Jons si ferma a parlare con un pittore. Splendida l’immagine della porta semichiusa, il cui fascio di luce ricorda una falce.


Jons: Che cosa dipingi?
Pittore: La danza della morte.
J: E quella è la morte?
P: Si, che prima o dopo danza con tutti.
J: Che argomento triste hai scelto.
P: Voglio ricordare alla gente che tutti quanti dobbiamo morire.
J: Non servirà a rallegrarli.
P: E chi ha detto che ho intenzione di rallegrare la gente, che guardino e piangano.
J: Invece di guardare chiuderanno gli occhi.
P: Ed io ti dico che li apriranno. Un teschio spesso interessa molto di più di una donna nuda.
J: Se li spaventi però...
P: ... li fai pensare
J: E se pensano si spaventano ancora di più e corrono a buttarsi in braccio ai preti.
P: O questo non mi riguarda.
J: Tu non pensi che al tuo lavoro eh?
P: Faccio vedere come stanno le cose, poi che ognuno decida.
J: Molti però ti copriranno di maledizioni.
P: Sicuro e se saranno in troppi passerò ad un argomento divertente,
devo pur vivere, fino a che non mi uccide la peste.


Al di là di alcune anticipazioni circa il punto di vista dello scudiere, è importante che l’Arte sia concepita come portatrice di Verità, la danza della morte sarà infatti il compimento effettivo della pellicola. Questa verità, anche se dura da digerire, è il compito dell’artista ed egli non puo’ esimersene.
Non proseguirò oltre, altrimenti vi svelerei fin troppo la trama.


Voglio solo concludere quest’analisi tenendo conto ancora una volta di quelle che, in linea di massima, sono le prospettive maggiormente assumibili nei confronti della morte: la fede ed il nulla. Il terrore del nulla si pone come crocevia che scandalizza l’uomo, una strada che spesso egli non vuole percorrere, alla quale rinuncia.
Assumendo la distrazione come unico scopo, però, l’uomo finirà per destituire la vita di qualsiasi senso, finché non gli resteranno che secondi per compiere qualcosa alla quale avrebbe dovuto dedicare l’intera vita. E’ abbastanza ovvio, infatti, che la metafora del giocare a scacchi con la morte, ci indica proprio l’impossibilità di rimandare l’evento a nostro piacimento, laddove, invece, possiamo (e dobbiamo?) assumere tale impresa come costante del nostro tempo.
Per l’uomo che sceglie la riflessione, sceglie di abrogare la superficialità, la strada della fede è difficile, scoscesa ed impervia. “La fede è una pena così dolorosa, è come amare qualcuno che è lì fuori al buio e che non si mostra mai per quanto si invochi”. Molti, come lo scudiero, la guarderanno con gli occhi di un adulto che vede le fantasticherie del bambino. Altri considereranno la fede la risposta più facile al terrore del nulla, qualcosa che possa lenire la paura negli animi.
Eppure, quel che sembra certo per l’autore, è proprio che dobbiamo esercitarci a morire, richiamando in quest’espressione il pensiero di molti filosofi.

Da non trascurare l'anticipazione di un tema che troverà largo spazio ne "Il Posto delle fragole": le fragole, la serenità di un momento, il ricordo. In questo film l'attimo di pace è vissuto al presente ed è il protagonisa che, mangiando le fragole, immagina un tempo in cui il presente sarà piacevole ricordo, assaporando così anzitempo l'intensa nostalgia che accompagna la memoria.

 
 
 

GIOCO CON PREMIO!

Post n°14 pubblicato il 28 Maggio 2010 da ParafrasandoOblii
 
Foto di ParafrasandoOblii

Facciamo un gioco, vi va? :p

Dovete scrivere un frammento contenente queste parole:

Selciato

Favore

gesto

equilibrio

Il frammento deve essere di massimo 200 parole.


Il premio consisterà in un ritratto fatto a mano da me, modificato poi al computer stile quello in alto. Ovviamente sarà necessaria una vostra foto o della persona alla quale volete regalarlo.

Naturalmente la giuria consiste in me medesima.

Good luck!

 
 
 

Seconda stella a destra

Post n°13 pubblicato il 28 Maggio 2010 da ParafrasandoOblii
 

Seconda Stella a Destra
II Edizione
Scadenza iscrizione: 30 Maggio 2010
Organizzato da:

Associazione Ancestrale

Indirizzo:

via Verdi

60019

E-mail:

info@ancestrale.it

Internet:

http://www.ancestrale.it
Indirizzo spedizione degli elaborati:

A mezzo Email

Bando completo:
bando2010.pdf
Sezione A

Racconti genere Fantasy, Horror o Fantascienza brevi inediti

Tema:

Scheletri nell’armadio

Copie:

1, allegato email

Lunghezza:

lunghezza massima 4 pagine formato A4

Opere ammesse:

Ogni autore potrà partecipare con un solo racconto inedito

Quote di partecipazione:

L’adesione è gratuita.

Premi:

I tre migliori racconti saranno pubblicati nel sito web dell’associazione come PDF, al vincitore regaleremo un attestato.

Notizie sui risultati:

L’organizzazione si riserva un mese dalla scadenza del concorso per pubblicare I nomi dei vincitori, divulgherà i nomi degli autori e i titoli dei racconti premiati, entrò il giorno 30 giugno 2010.

Giuria:

Gabriele Boldreghini, Michele Pinto e Sergio Sarnari

Altre note:
  • Importante: Allegare alal email consenso alla partecipazione da aggiungere alla fine della email: Autorizzo l’associazione Ancestrale ad utilizzare il racconto allegato nell’ambito del II° concorso letterario “Seconda stella a destra”, e ne autorizzo la pubblicazione in caso di vittoria.
Tutti i risultati:
Seconda Stella a Destra II Edizione

 
 
 

CONCORSO POESIA DEL MARE

Post n°11 pubblicato il 28 Maggio 2010 da ParafrasandoOblii
 

"Poesie dal Mare" è il primo concorso di poesia dedicato al mare organizzato dal Comando Generale delle Capitanerie di Porto.

L'iscrizione è gratuita e il bando completo è on line sul sito ufficiale: http://guardiacostiera.it/poesiedalmare/

Tutti i nostri lettori e autori sono invitati a partecipare numerosi, iscriversi è semplice ed è possibile inviare la propria poesia direttamente dal sito.

Ci teniamo a dare visibilità a questo concorso poiché uno degli organizzatori, nonché Vice capo Redattore del bimestrale Notiziario della Guardia Costiera, è Marco Di Milla, uno storico autore e amico di Aphorism.it

Tirate fuori la vostra miglior poesia dove il mare è protagonista e... in bocca al lupo! :)

 
 
 

PREMIO LETTERA D'AMORE - X EDIZIONE 2010

Post n°9 pubblicato il 28 Maggio 2010 da ParafrasandoOblii
 

CONCORSO INTERNAZIONALE LETTERA D'AMORE - DECIMA EDIZIONE ANNO 2010

Il Comune di Torrevecchia Teatina e l'U.N.I.C.A. (Unione Comuni Area Urbana Chieti-Pescara) con l'organizzazione dell'Associazione Culturale “AbruzziAMOci” bandiscono la decima edizione del Concorso Internazionale “Lettera d'amore”, la cui cerimonia di premiazione si terrà a Torrevecchia Teatina (Chieti) nel mese di giugno 2010.

REGOLAMENTO

SEZIONE A

Art. 1. Si partecipa stilando in qualsiasi lingua (se straniera o in dialetto, si deve accludere la traduzione in lingua italiana) un testo in prosa, inedito, configurato come lettera d'amore, della lunghezza massima di 3 cartelle (1800 caratteri per cartella) in 3 copie ben leggibili aggiungendo le dichiarazioni e le notizie richieste all'art. 2.
Art. 2. Non è dovuta alcuna tassa di iscrizione o partecipazione. Ai testi bisogna accludere un foglio contenente le generalità del partecipante (nome, cognome, indirizzo, età, numero di telefono, curriculum, e-mail) unitamente alla dichiarazione di autenticità del testo e all'autorizzazione alla pubblicazione gratuita della lettera, e all'adesione a tutte le norme del concorso.
Art. 3. Il termine ultimo per l'invio dell'elaborato, da effettuarsi al seguente indirizzo: Concorso Lettera d'amore c/o Associazione Culturale “AbruzziAMOci”, Via G. Leopardi n.2, 65015 Montesilvano (Pe), è fissato al 31 maggio 2010 (farà fede il timbro postale di partenza). La giuria, il cui verdetto è insindacabile, è composta da: Vito Moretti, Massimo Pamio, Massimo Avenali.
Art. 4 Saranno assegnati i seguenti premi: Euro 500,00 al primo classificato, Euro 250,00 al secondo, Euro 200,00 al terzo; altri premi ai segnalati. I vincitori dovranno ritirare personalmente il premio nella cerimonia, altrimenti lo stesso non sarà assegnato. I testi potranno essere pubblicati dall'Organizzazione.
Art. 5 Solo i vincitori e i segnalati saranno avvisati tempestivamente. I risultati verranno resi pubblicamente noti tramite la stampa e il sito internet: www.noubs.it. Gli elaborati non saranno restituiti. La partecipazione al premio comporta l'accettazione di tutte le norme del presente regolamento. E' tutelata la legge sulla privacy. L'Organizzazione non risponde della mancata ricezione dei testi.
Art. 6 La lettera d'amore consiste in una composizione in prosa mirata all'espressione del sentimento d'amore rivolta a un destinatario qualsiasi (persona reale o immaginaria, animale, oggetto, luogo o paesaggio).

SEZIONE B

Narrativa o saggistica edite avente per tema l'amore
Si partecipa a questa sezione con un libro di saggistica edito o un libro di narrativa edito aventi per oggetto o per tema principale l'amore, in tutte le sue forme. Il libro deve essere stato pubblicato negli ultimi 3 anni, a partire dal 1 gennaio 2006 fino al marzo 2010. Il libro in 5 copie deve essere inviato al recapito postale dell'Associazione riportato all'articolo 3, entro e non oltre il 31 maggio 2010, specificando su una copia del libro i dati dell'autore (compresi numero telefonico ed e-mail).
All'autore sarà assegnato un riconoscimento da parte dell'Organizzazione.
Il vincitore dovrà ritirare personalmente il premio durante la cerimonia, altrimenti lo stesso non sarà assegnato.

Per info: www.noubs.it, noubs@noubs.it oppure 0871.348890.

 
 
 

TIM BURTON, la diversità come tramite tra realtà e fantasia

Post n°8 pubblicato il 28 Maggio 2010 da ParafrasandoOblii
 

"Big Fish" è spettacolare per la dimensione che riesce a creare, come un mondo sospeso tra la realtà e la fantasia, un mondo dove la linea del tempo si contorce su se stessa e genera strane antinomie. Con scene come quella della piazza di fiori o quella della vasca (giusto per nominarne due), questo film riesce ad entrare nell'animo di chi, se guarda un oggetto, non vede per forza solo quello. C’è il famoso detto, chi grida “A lupo, a lupo” quando poi c’è davvero il lupo non viene creduto, così il protagonista, da abile racconta favole, diventa un troppo grande racconta frottole.

Il figlio, stanco di ascoltare ogni volta le stesse bugie, non trova più il volto del padre, perso nell’eroe che credeva che fosse da bambino e l’uomo smascherato dalla maturità e dalla ragione. E’ un padre senza volto, ogni suo ricordo un romanzo di avventura e febbricitante entusiasmo che, riesce così, a colorare una vita altrimenti comune. Al figlio che tenta, invano, di svegliarlo, di riportarlo alla cruda, grigia verità di una vita senza giganti, né streghe, l’uomo risponde con quelle espressioni di bambino che, forse vuole dirci Burton, dovremmo conservare tutti.

Il problema è che se un bambino crede a babbo natale ispira tenerezza, mentre, se ci crede un uomo adulto muove pietà e compassione, se non disprezzo. Così il protagonista accumula i rancori del figlio, per una bugia troppo lunga, per un babbo natale con la barba finta che continua a dirsi vero.

Burton vi fa perdere però in quel mondo fantastico, dal quale non vorreste più tornare, per poi mescolarlo alla realtà, amalgamarlo con una destrezza che solo una mente geniale puo’ avere. Alla fine, quando tutto sembra urlare contro il sogno e maltrattare la favola, è proprio lei che si presenta nel mondo con fare disincantato e tu capisci allora che è l’ineliminabile, amata, parte di te.


Altro assoluto capolavoro "Edward mani di forbice". Sembra una vera e propria opera di letteratura questo film: dove alla parodia di una società chiusa nei confini di qualche villetta a schiera ed una sala parrucchiere, si aggiunge una netta satira sul disagio sociale, sui diversi, i reietti che cercano di trovare un posto in una piccola media borghesia annoiata dal solito chiacchiericcio.

Da sottolineare le tinte burlesche, forti e vivaci, che colpiscono lo schermo per evidenziare il disagio di chi non sa vestire quei panni di evidente ipocrisia. Edward riesce ad adoperare le dure lame con così tanta leggiadria che il motivo di diversità lo rende per qualche istante centro di quel mondo, durerà poco.

Un regista come Burton sa come una società del genere al primo errore sa radiarti e confinarti nella tua improvvisa unica via d’uscita, la solitudine. Il solo sentimento che resta, leggera e allo stesso tempo tragica melodia di fondo, è l’amore: unica tensione che sa accogliere la diversità e farne motivo di dolcezza. Memorabile la scena finale di lui che scolpendo il ghiaccio genera arte e fiocchi di neve che ricoprono la città, attutendone le tinte violente in sottile nostalgica meravigliosa malinconia. L’ultimo poetico regalo all’amata, la neve, i resti della diversità che sanno essere velo che coprendo svela la possibilità di una sola briciola di verità in un universo di menzogne.

 
 
 

INTO THE WILD

Post n°7 pubblicato il 28 Maggio 2010 da ParafrasandoOblii
 

Sublime la scena finale, il suo sguardo che vede quello che vuole vedere, una finestra di cielo azzurro nel vuoto di una solitaria libertà. Non so se c'è una risposta, so però che possiamo chiederci perché ci ostiniamo a cercare dove non c'è, a rincorrere false sembianze di felicità.

Possiamo chiederci perché l'uomo continua a costruirsi alibi vigliacchi e finti scopi per nascondere una bellezza che c'è, è lì, e noi non sappiamo guardarla.

Io penso che chi abbandona la civiltà, non abbandona l'uomo, piuttosto abbandona quegli alibi e quei fini. C'è una piramide di letame che l'uomo adopera per tentare di scalare l'invisibile ed arrivare al cielo. Poi ci sono uomini che scavano nel letame perché forse hanno capito che è lì sotto la verità. La bellezza è nell'essere umano in quanto tale, nei suoi occhi che possono guardare il mondo e cambiarlo. Quando tutto non risponde all'immagine che vorresti, un'altra immagine, un fantasma dell'inadempiuto futuro si affaccia nella tua mente e ti propone fantastiche verità. C'è chi le coglie e ne fa il suo mondo, la sua realtà, inoltrandosi nel selvaggio. C'è chi invece si abbandona alle abitudini e sogna nell'inerzia di un divano che prende le forme del corpo.

Ci sono uomini che sfidano se stessi, in realtà non stanno cercando di vincere la natura selvaggia con i suoi accidenti atmosferici, in realtà stanno cercando la bellezza dove non c'è l'uomo. E' l'identità che cerca l'identità senza l'altro, senza lo scontro di sguardi che l'altro presuppone. Ma una volta trovata, una volta di fronte la bellezza, di fronte la verità, vorrebbe correre, gridare a tutti che l'ha trovata, che è lì. Vorrebbe dire a tutti di vederla, di smettere di cercarla dove non c'è. Da sempre il saggio, l'uomo che trova la verità, come nel mito della caverna di Platone, tenta poi di trasmetterla agli altri. Come il grido di gioia di un successo, come la telefonata all'amico per l'esame vincente, come il pianto di commozione sulle spalle dell'altro, così la bellezza della verità deve per sua natura traboccare, esternarsi, perché la bellezza, che è verità, è che la verità è bellezza.

Che il mondo è bellezza, che l'uomo ha nel mondo il suo paradiso di verità e bellezza, questa è la verità. Per natura questa verità deve specchiarsi negli occhi dell'altro. Perché se il mondo è bellezza l'uomo può essere bellezza solo essendo uomo, custodendo il suo posto nella natura. Se l'identità non è altro che una non alterità l'uomo è uomo solo davanti il sorriso o il pianto di un altro. Se l'uomo che è bellezza è uomo solo con l'uomo allora non è nella solitudine la bellezza. Tutti i tramonti e i cieli sconfinati che si perdono nell'orizzonte della natura selvaggia sono bellezza che si perde, che non si specchia, che non è verità, laddove non c'è uomo che osservandola senta il bisogno di condividerla.
"La felicità è reale sono quando è condivisa"

 
 
 

IL CURIOSO CASO DI B. BUTTON

Post n°6 pubblicato il 28 Maggio 2010 da ParafrasandoOblii

C’è una bellissima canzone di Roberto Vecchioni che dice “Vorrei essere tua madre per guardarti senza voglia, per amarti di altro amore…”. Questo film ci mostra un amore insolito, un amore che riesce ad oltrepassare l’erotismo sconfinando in un oltre che vince la normalità, vince il quotidiano crescere insieme. Lui nasce vecchio e morirà giovane, lei nasce giovane e morirà vecchia. La fine e l’inizio si intrecciano, si confondono, l’una diventa l’altro e l’altro l’una.

Come due passeggeri di treni diversi fermi per pochi istanti alla stessa stazione così i protagonisti si ameranno, con la consapevolezza di un futuro in cui l’altro sarà assente. L’impossibilità di amare si trasformerà in un altro tipo di amore, un amore che abbraccia la diversità.

Lei lo amerà ancora, anche quando sarà un bambino, anche quando non ci sarà più niente in lui dell’uomo che ha amato, lei lo prenderà tra le braccia e lo amerà. Lo cullerà come una mamma in un amore che si farà dolcezza, stringerà al seno un bambino che è lo stesso uomo virile e forte che l’ha resa madre. Lui l’amerà anche quando lei perderà la linea del corpo, amerà le sue rughe, le sue calze da donna matura, i capelli legati.

Lui è stato un vecchio bambino incompreso, disadattato, non amato dai genitori, lui sa dove sta andando lei, sa a cosa va incontro. Lei è stata come tutti i bambini irrequieta, dipendente dagli altri, lei non può non capire a cosa lui va incontro. Entrambi custodiscono la fine dell’altro, così si comprendono come nessuno potrebbe mai, così si amano come nessuno potrebbe mai.



Nel film c’è anche una storia particolarmente bella di un orologiaio che perde il figlio in guerra e che costruisce un orologio che invece di andare avanti va indietro.
Lo fa perché dovrebbe essere così, dovrebbe andare davvero indietro il tempo, il treno camminando come un gambero sui binari gli riporterebbe il figlio soldato partito per la guerra e lui potrebbe vivere, studiare, lavorare, sposarsi, avere dei figli, lui potrebbe amare. Solo andando in dietro lui può sperare di riscrivere un futuro ingeneroso.

Così va all’indietro anche la vita del protagonista, partendo da un futuro infelice, fatto di cecità e artrosi e calvizia e tutto quanto attende inesorabilmente l’uomo, migliorando poi lentamente, avvicinandosi progressivamente alla perfezione della pelle di un bambino, sogno dei chirurghi plastici affannati a ricostruire l’uomo. Incolliamo quello, tiriamo quell’altro… l’uomo diventa un fantoccio nelle mani di altri uomini, fino a situazioni paradossali.

Almeno il bambino non è abbastanza maturo per soffrire la dipendenza dall’uomo, sofferenza che è direttamente proporzionale all’età.
Un anziano, invece, in cui brilli ancora un minimo di coscienza e riflessione, quell’anziano che deve sentire l’urina bagnargli i calzoni, quell’anziano è uno spaventapasseri, un fantoccio ridicolo e solo, che va solamente verso il nulla, nella consapevolezza che ci sta andando.

Così molti uomini preferirebbero vivere al contrario, come dice Woody Allen, nascere al contrario.
Qui è tutto sbagliato
La vita dovrebbe essere vissuta al contrario.
Tanto per cominciare si dovrebbe iniziare morendo, e così tricchete tracchete il trauma è già bello che superato.
Quindi ti svegli in un letto di ospedale e apprezzi il fatto che vai migliorando giorno dopo giorno.
Poi ti dimettono perchè stai bene, e la prima cosa che fai è andare in posta a ritirare la tua pensione, e tela godi al meglio.
Col passare del tempo, le tue forze aumentano, il tuofisico migliora, le rughe scompaiono.
Poi inizi a lavorare, e il primo giorno ti regalano un' orologio d'oro.
Lavori quarant'anni finchè non sei così giovane da sfruttare adeguatamente il ritiro dalla vita lavorativa.
Quindi vai di festino in festino, bevi, giochi, fai sesso e ti prepari per iniziare a studiare.
Poi inizi la scuola, giochi con gli amici, senza alcun tipo di obblighi e responsabilità, finchè non sei bebè.
Quando sei sufficientemente piccolo, ti infili in unposto che ormai dovresti conoscere molto bene.
Gli ultimi 9 mesi te li passi flottando tranquillo e sereno, in un posto riscaldato con room service etanto affetto, senza che nessuno ti rompa i c......i.
E alla fine abbandoni questo mondo in un orgasmo

 
 
 

INLADN EMPIRE di D. Lynch

Post n°5 pubblicato il 28 Maggio 2010 da ParafrasandoOblii
 

Parte prima: ripresa e decadenza di una tradizione

Il fatto che L’impero della mente, opera colossale di Lynch, si apra sul chiaroscuro di un buio incerto, fatto di venature di grigio e intermittenti immagini impure, mi ha condotto all’istante in un crescendo di ansia e mistero, inspiegabile, proprio perché suspance che non conosce alcun antecedente. Quell’aprir-si e chiuder-si iniziale sembra quasi suggerire il movimento delle palpebre nella fase rem del sonno, evidenziandomi così l’idea, già sottesa dal titolo, di un viaggio irreale e mistico che ha inizio una volta varcata la soglia di una comunicazione diversa. “Grigio giorno d’inverno in un vecchio hotel”, la più longiva trasmissione della storia annunciata da un altrove radiofonico e disturbato. Soffermandosi: il quando, “la più longiva”; il dove “regione del baltico”, sono collocazioni spazio-temporali così lontane da costituire quasi un’indeterminatezza. Il caro buon vecchio “c’era una volta” è qui richiamato e sostituito da una situazionalità originaria che sembra dettata e riferita da quella testina percorrente. Si odono Voci incomprensibili ed ecco che compaiono i primi personaggi della storia: un uomo e una donna senza volto. Perché senza volto? Cos’è un volto? Volto è ciò attraverso cui identifichiamo noi stessi e gli altri. Cosa significa non dare un volto a questi personaggi? Significa lasciarli nella determinabilità. Se il volto è il medium attraverso il quale identifichiamo l’altro e, così, lo distinguiamo da noi, allora il non-volto è lo strumento che permette l’eliminazione di quello iato tra me e l’altro, ovvero lo strumento della più completa identificazione. E’ nella comprensione dell’ essere- altro che si fonda l’empatia di una vera fruizione estetica. Così Lynch entra nell’artistico, facendo uso della tradizione, proprio per stravolgerla dal suo interno e mostrarci così, non tanto l’accadere fattuale della storia, ma proprio i meccanismi di fruizione di quella, i modi della nostra mente e non.

Parte seconda: tra visibilità e nudità

Il fatto che compaiano i sottotitoli recanti il dialogo tra i due personaggi,“Le scale sono buie”, “Non riconosco questo corridoio, dove siamo?” , può condurci a diverse interpretazioni. Lynch potrebbe averlo fatto per farci sentire la voce dei protagonisti come qualcosa di lontano, di chiamato all’esistenza. Non rinuncia però a consegnarci il contenuto del dialogo e con esso il senso. “Le scale sono buie”, soffermiamoci. Le scale, potrebbero essere simbolo di un cammino. Buie, potrebbe essere il connotato che conferisce difficoltà a questo cammino. Non voglio però cercare simboli anche laddove non potrebbero esservi, quindi andiamo avanti. Seconda interpretazione: l’assenza di voce potrebbe essere avvicinata a quella del volto, cioè avente le medesime ragioni, di cui prima. Ed ecco perché l’inquadratura unisona marcante le due assenze. Il tutto è come se ci preparasse lentamente a denudarci insieme alla protagonista, a trasportare noi stessi in quell’oblio dei sensi, miscela di godimento estatico e paura (uno espresso in versi, l’altra in segni linguistici), sottomissione e volontà. Lynch ci spoglia così di ogni distanza, così che le lacrime della s-velata sconosciuta colpiscano più profondamente, ovvero nel profondo. Non è un caso che ci venga mostrata prima senza volto, completamente nuda, e in seguito come persona, avvolta nelle lenzuola, nonostante manchi stavolta un tu che la guarda. Da chi si copre? Dal nostro sguardo. Lynch l’ha chiamata all’esistenza singolare e quindi al pudore di uno sguardo vulnerabile. Con le spalle rivolte a noi che la osserviamo lei fissa il televisore, vuoto, anzi non vuoto, colmo di interferenze. E’ come se con questa inquadratura il regista ci volesse far sentire ancora più presenti, dietro di lei, nella stanza stessa. Si susseguono svariate immagini alla rinfusa all’interno dello schermo. Lei le vede, eppure non sono visibili. Come se le interferenze le ricordassero degli avvenimenti, come se il vuoto evocasse la sua vita e chissà quale paura.

 
 
 

STALKER di Tarkovsky

Post n°4 pubblicato il 28 Maggio 2010 da ParafrasandoOblii
 

Un intellettuale e uno scienziato, chiamati "Scrittore" e "Professore”, si avventurano nella "Zona", un luogo isolato da un cordone di sicurezza governativo, in cui nessuno osa spingersi.
Viene mostrato e descritto come uno spazio privo di quelle leggi che ordinano la nostra conosciuta realtà, tutto è sconvolto. Si dice che in questa zona vi sia una stanza nella quale si avverano i «desideri più intimi e segreti».
I due quindi si fanno guidare da un individuo, uno stalker, per raggiungere la stanza. Fondamentali sono i dialoghi fra i tre uomini, in particolar modo la diatriba tra lo scrittore e il professore.


Scrittore-A: Lei di che cosa si occupa? Chimica?
Professore-B: No, sono un fisico.
A: Noioso anche questo: la ricerca della verità, si nasconde e voi scienziati la cercate ovunque, scavate
un po’ qua e un po’ la. Scavate in un posto e ualà l'atomo e formato da protoni. Scavate in un altro posto
ed eureka! Il triangolo a b c è uguale al triangolo a1 b1 e c1. Per me è molto diverso. anch'io scavo cercando la verità ma nel frattempo le succede qualcosa, si modifica, e così io al posto della verità trovo un gran mucchio di... o pardon non dirò di che.


Inizialmente sembra che lo scrittore si sia avventurato per cogliere l’ispirazione, poi si smentisce.

A: Quello che le ho detto prima professore è tutto una balla. Me ne frego dell'ispirazione e poi come potrei dare un nome esatto a quello che voglio o anche come potrei sapere che in realtà non voglio quello che sto cercando e potrei aggiungere che io davvero non voglia quello che non voglio. Sono tutte cose impercettibili. Basta dargli un nome e il loro significato scompare come una medusa al sole. Le ha mai viste lei? La mia coscienza vuole la vittoria dei vegetariani nel mondo ed il mio subconscio langue per una fetta di carne saporita. Ed io cosa voglio, io?
B: Ma il dominio del mondo.

Si palesa qui la distanza tra le due menti, due modalità differenti di leggere la realtà, si scontrano a più riprese nel corso del film.

A: Supponiamo pure che io entri in quella stanza, divento un genio e torno nelle nostre città dimenticate da Dio, mi segue? Ma l'uomo scrive soltanto perché si tormenta, perché dubita e perché deve continuamente dimostrare a se stesso e agli altri che davvero vale qualcosa. Ma se sapessi con certezza di essere un genio perché dovrei continuare a scrivere? Me lo sa dire il perché?

Evidente è una concezione dell’arte come generata da un disagio, da un tormento, dalla situazione esistenziale propria dell’uomo. Tolto questo tormento la paura è che svanisca l’Arte, che non abbia alcun senso scrivere. Difatti questo orribile presagio è seguito da un’apologia enfatica dell’artistico, del creare disinteressato, contro tutto quanto c’è di scientifico tecnologico, rappresentato dal professore.

A: In ogni caso tutta questa vostra tecnologia, tutte queste fabbriche e marchingegni e tutto questo agitarsi affannosamente per poter lavorare di meno e mangiare di più, non sono che stampelle, protesi. L'umanità invece esiste per creare, per creare opere d'arte. Questo per lo meno è disinteressato, a differenza di tutte le altre azioni umane. Grandi illusioni, fantasmi sfuocati della verità in assoluto. Ma lei professore mi sta ancora ascoltando?
B: Ma di quale disinteresse sta parlando? Con tutta la gente che muore ancora di fame, ma dove vive? Nelle nuvole?
A: E questa sarebbe la vostra aristocrazia del cervello? Voi non sapete pensare in astratto.

B: Spero che non presuma di insegnarmi qual è il vero senso della vita? E nello stesso tempo a pensare.
A: Sarebbe inutile, lei sarà forse professore ma è ignorante.

Quello che inizialmente non si comprende è il motivo che spinge invece lo scienziato, il fisico.
Il terzo individuo, lo stalker, non ha mai visitato la stanza, il suo intento non è di realizzare i suoi desideri. Lo scrittore ipotizzerà una motivazione:
Te ne freghi tu della gente.Tu guadagni soldi sfruttando la nostra angoscia. Sì, la nostra angoscia, e non è neanche una questione di soldi. E' perché tu qui te la godi, sei signore e padrone. Tu, verme pidocchioso decidi chi deve vivere e chi deve morire. Sceglie, decide. Finalmente sono riuscito a capire perché voi stalker non entrate mai nella stanza. Ma perché? Qui vi ubriacate di potere, di segreti, di autorità. Quali altri desideri ci possono essere?”.

Importantissimo il dialogo che seguirà in cui si mostrerà tutta la fragilità dello Stalker e l’intuitività dello scrittore che coglierà un elemento fondamentale.

No, non è vero, non è vero. Lei si sbaglia. Uno stalker non puo' entrare nella stanza, uno stalker per se stesso non puo' chiedere niente, niente. Ricordatevi del porcospino”.


Il porcospino era il maestro dello stalker. Il Porcospino decise di entrare nella stanza con lo scopo di esprimere il desiderio di resuscitare il fratello, morto per colpa sua nel cosiddetto "tritacarne", il passaggio più difficile della zona, ma la stanza, che avvera i desideri più intimi e profondi, invece di ridare la vita al fratello donò al Porcospino enormi ricchezze.
Sì, si sono un verme, non ho combinato niente e nemmeno qui posso fare niente. Perfino a mia moglie non sono riuscito a dare niente. Non ho amici e nemmeno posso averli ma non toglietemi quello che è mio, mi hanno già tolto tutto là, dietro quel filo spinato. Tutto quello che ho è qui, qui nella zona. La mia felicità, la mia libertà, la mia dignità, tutto qui. Io porto qui solo quelli come me, gli infelici, i disperati, quelli che non hanno più niente in cui sperare e io posso capire, posso aiutarli, nessuno puo' farlo ed io invece sì che posso. Ecco è tutto qui quello che ho, niente altro”.

Scrittore-A: Tu secondo me sei semplicemente folle, tu non hai nessuna idea di cosa succede qui. Perché, perché secondo te si è ucciso il porcospino?
Stalker-B: E' venuto nella zona per uno scopo suo ed ha ucciso il fratello nel tritacarne per denaro.
A: Fin qui tutto è chiaro ma perché poi si è impiccato? Perché non è tornato nella Zona e stavolta non per i soldi ma per suo fratello? Si è pentito?
B: Non lo so, voleva, ma dopo pochi giorni si impiccò?
A: Qui capì che non si realizza qualsiasi desiderio ma solo i desideri più nascosti, i più segreti. Non quelli urlati a squarciagola. Qui si avvera solo ciò che incarna la tua natura, la tua essenza, di cui non sei coscientepur portandola dentro di te ma che comunque ti domina sempre. Non hai capito niente calzone di cuioia. No, il porcospino non è una vittima dell'avidità. Si trascinò qui in ginocchio implorando la grazia per il suo fratello ed ottenne una montagna d'oro, perché era questo che desiderava nel suo intimo. Date al porcospino ciò che è del porcospino, coscienza, tormenti spirituali, tutte cose inventate dal cervello. Lui lo capì e si impiccò. Non andrò nella tua stanza, perché non voglio vomitare in faccia a nessuno lo schifo che ho dentro di me, neanche in faccia a te, per poi impiccarmi come il porcospino. Meglio crepare alcolizzato nella mia puzzolente stamberga, ma tranquillo e in silenzio.

A mio avviso lo scrittore non ha compreso, per lo meno inizialmente, ciò che muoveva davvero lo Stalker, però ha ben compreso cosa ha mosso il Porcospino. In quella attenta analisi pessimistica della realtà dell’uomo, su cosa muove veramente la coscienza, c’è però un fondo, un barlume che si è acceso nella mia mente.

Lo scrittore conosce la sua natura, sa che abbandonandosi ad essa getterebbe in faccia all’umanità tutto il suo marcio e lo farebbe per un suo profitto personale, ne trarrebbe giovamento, chissà forse ricchezze. Eppure, sia lui che il porcospino, reagiscono a questa situazione, in un modo o nell’altro.

Banale è ricordarvi che il tutto va letto metaforicamente. Vorrei però sottolineare ancora l’importanza di questo passo. Per quanto l’essere umano sia per natura costretto nei suoi desideri più nascosti a fremere per ricchezze ed egoismi, c’è qualcosa che gli fa ripudiare tutto questo, che gli fa disprezzare la sua natura, che lo fa reagire contro essa, facendolo rinunciare a dei beni per sé. Nel nostro quotidiano spesso denunciano la falsità di comportamenti coscienziosi, cauti, oserei dire delicati. La denunciamo perché non ci sembra conforme alla nostra natura. Ebbene, personalmente credo che questa sia la grandezza dell’essere umano, la possibilità di ergersi al di sopra dell’egoismo che lo connatura, la ribellione direbbe Camus.

Oltre questo, ho letto in questo film anche una chiara matrice religiosa. C’è un riferimento ad un passo biblico in cui Gesù si accompagna a due uomini che conversano sulla vita e non si accorgono di lui, che è Lui. Non è un caso che questa citazione avvenga per bocca dello Stalker, è come se si sentisse un inviato, con la vocazione di raccogliere tutti i miserabili sotto la sua miseria e con un’attenzione sofferente alla preghiera, al credere che ha abbandonato le nostre menti.

Stalker-A: E pretendono pure di essere intellettuali, questi scrittori, scienziati... non credono più a niente. L'organo con il quale crediamo gli si è atrofizzato, tanto non ne hanno bisogno. Dio mio che gente.
Moglie dello Stalker-B: Sta calmo, sta calmo, non è colpa loro, non bisogna arrabbiarsi, vanno compatiti.
A: Tu non li hai visti, hanno gli occhi vuoti. Pensano soltanto a come tenerealto il loro prezzo, a come rendersi più cari, a farsi pagare tutto, anche ogni moto dell'anima. Pensano di avere una missione da compiere, una vocazione, e che si vive una sola volta. La gente così puo' credere a qualcosa? Nessuno crede più, non soltanto quei due, nessuno. Chi puo sopportare la... o Signore, e la cosa peggiore è che non serve a nessuno, a nessuno serve quella stanza. Tutti i miei sforzi sono inutili.

Anche il monogo della moglie, a fine film, affonda in una somiglianza con Cristo. L’essere disprezzato, allontanato dalla società, il condannato a morte, l’errabondo che però si fa amare. La difficoltà di abbracciare un simile individuo, l’infinita amarezza della fede, eppur felice.


Moglie dello Stalker: “La gente rideva di lui e lui era così smarrito poverino. Mamma mi diceva è uno stalker, un condannato a morte, un eterno carcerato. E i bambini? pensa ai bambini degli stalker. E io, io non volevo nemmeno discutere. Ma io lo sapevo benissimo che era un condannato a morte, un eterno carcerato e anche dei bambini. Ma che cosa potevo farci, io ero sicura che insieme a lui sarei stata bene. Sapevo che avrei avuto tante amarezze, ma è meglio una felicità amara che una vita grigia e noiosa. Beh questo devo essermelo immaginato dopo. Allora egli si avvicinò a me e disse semplicemente queste parole: ti prego, vieni con me. Andai. E non me ne sono pentita e non ho mai invidiato nessuno, mai, in nessun momento della mia esistenza. Il destino è fatto così, così è la vita, così siamo noi. E se nella nostra vita non ci fosse dolore non sarebbe meglio, sarebbe peggio. Perché allora non ci sarebbe la felicità e la speranza. Ecco”.

Questo film riflette la religiosità di Tarkovski, i dubbi, i tormenti, la pericolosità di un percorso silenzioso. Lo Stalker annuncia la difficoltà del viaggio per giungere alla stanza, ma non si intravede nessun pericolo effettivo, è solo nei loro occhi, nelle loro paure. E’ l’uomo, nel suo essere costituito in quanto tale, ad essere in pericolo perché è uomo, soggetto ai fremiti della sua natura.


Cristo venne e disse: “Venite tutti a me voi che siete affaticati ed oppressi ed io vi ristorerò”. Come fece ben notare Kierkegaard, quale sorpresa che quell’invito esca dalla bocca del più miserabile, di chi più di tutti sembrerebbe aver bisogno di aiuto. La scelta è di credere o meno, il bivio spalancato sul precipizio dello scandalo, che proprio quell’uomo miserabile sia Dio, che Dio sia quell’uomo, ultimo tra gli ultimi. La scelta ti spinge a specchiarti in lui, nella tua decisione vedere te stesso, a leggere la tua anima, i tuoi più segreti ed intimi desideri. Tutto quindi non poteva che sboccare nella decisione finale, entrare o meno, umiliarsi per credere?

Il Professore ha portato con sé una bomba e vuole distruggere la stanza per prevenire l'uso indiscriminato e devastante dei suoi poteri: “Finché questa piaga rimarrà aperta a qualsiasi canaglia non avrò pace".
Ecco il vero motivo, distruggere la possibilità, lo specchio, per evitare che a riflettersi siano gli orrori della natura umana. Eliminare il bivio, estirpare la fede che viene concepita come la responsabile dell’orrore conseguente alla scelta. La decisione verrà abbandonata. Eppure i due uomini non riusciranno ad entrare nella stanza, a rapportarsi con il credere.

La sofferenza dello Stalker sarà grande per questo, lui che tanto ha sacrificato la sua vita, tutto, per condurre i miserabili alla stanza, lui soffrirà perché tutti infine lo abbandoneranno, tutti si scandalizzeranno, nessuno avrà fede.

Amo gli occhi tuoi amica mia,
il loro gioco splendido di fiamme.
Quando li alzi all'improvviso
e con un fulmine celeste
guardi veloce tutto intorno.
Ma c'è un fascino più forte,
gli occhi tuoi rivolti in basso
negli attimi di un bacio appassionato
e fra le ciglia semichiuse del desiderio
il fumo e fosco fuoco.


Al termine la splendida poesia di Fëdor Ivanovič Tjutčev, Dull flames of desire, a sottolineare la commistione del desiderio, del basso, con l’amore.
(Curiosità: la poesia è stata ripresa dalla cantante islandese Björk nell'omonima canzone)


Alla fine la figlia paralitica dello Stalker, ammalata per via della Zona, mostrerà le sue capacità paranormali sposatando alcuni bicchieri posti su di un tavolino e facendone cadere uno. Il tutto sarà seguito dai sussulti dell’ambiente al passare forse di un treno. L’abile regista ci ricollega così all’inizio, dove tutti sono dormienti, compresa la bambina, ed il treno passa, il tavolino trema, eppur il bicchiere non cade. Forse ci suggerisce che l’uomo possiede qualcosa in più, qualcosa che gli permette di agire sul circostante, e sulla sua stessa natura; qualcosa che invoca una scelta e che puo’ cambiare le sorti degli eventi portando ad una, seppur miserabile, vittoria. Non a caso l’evento è accompagnato dall’ Inno alla gioia.


Queste le musiche: Bolero di Maurice Ravel, Tannhäuser di Richard Wagner, Sinfonia n. 9 di Ludwig van Beethoven.

Durata: 2.35.00

 
 
 
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