SFIDE DI PENNA

Sesso incatenato (1928), il miglior film muto di Dieterle.


[Geschlecht in Fesseln - Die Sexualnot der Gefangenen, Germania,Drammatico, durata 106'] Regia di William Dieterle.«Mi faccia lavorare, non saprei come sostenere il dolore».Il film racconta la storia di una novella coppia di sposi trovatasi ad affrontare la divisione, in seguito alla detenzione del marito. La carcerazione è causata dall'aggressione che l'uomo compie contro un altro uomo che stava insidiando la donna sul posto di lavoro. Elemento scatenante quindi risulta essere la gelosia nella sua forma brutale e spasmodica di irruenza. In seguito alla morte dell'uomo aggredito, l'aggressore (ovvero il marito in questione) viene condannato a tre anni di carcere. Durante un primo periodo di detenzione l'uomo entra in contatto con un altro uomo, il quale di lì a poco verrà scarcerato, che prometterà poi di aiutare la moglie del compagno di prigionìa, essendo la donna rimasta sola e senza alcun lavoro. L'uomo manterrà la promessa non appena libero. Uno dei temi centrali dell'opera risulta essere la sentita mancanza fisica del consorte espresso magistralmente sia dal punto di vista dialogico, nella frase «perché possiamo mangiare, bere, dormire e non fare quello?», sia visivamente nella disperazione dei protagonisti. L'uomo tenterà di esorcizzare la mancanza assumendo oggetti quali un fazzoletto, oppure il pane a forma di donna, come feticcio di un legame compromesso dalla imperativa distanza. Particolare anche il disegno che il marito crea sul muro del carcere generando un'immaginifica temporanea relazione con la moglie assente. Alla donna è, invece, dedicata l'intera scena in cui questa si dimena, correndo dall'uno all'altro capo della stanza, scorgendo il marito in pose e quotidianeità irreali, frutto del ricordo misto alla disperazione. Quelle piccole oasi costituiscono dei veri e propri ologrammi che si infrangono all'istante all'urtare della donna contro mura, porte e così via. Non trovando soluzione all'uno e l'altro sconforto i due si abbandonano al peccato: l'uomo tradirà la moglie con un compagno di cella; la donna con l'uomo che l'aveva aiutata. A questo punto del film è però evidente come i due, nonostante il sentimento che provano l'uno verso l'altra, si allontanino a poco a poco. Una scena mostra come nel corso dei tre anni la distanza nel momento di visita si acuisca fino a far perdere definitivamente la parola. Tant'è che si raggiunge il paradosso: la donna riesce finalmente a farsi concedere del tempo da sola col marito, tempo però che passa nel silenzio. E' a dir poco atroce, si evidenzia quanto le barriere mentali possano rinchiudere, ancor più di quelle fisiche, imposte dalla società. Prima il carcere non permetteva loro di toccarsi, di amarsi; poi nonostante la vicinanza e la permissione sono stesso loro a non tentare nemmeno un passo verso l'altro, in qualità di un rimorso albergante e di un senso di vergogna che prende piede massacrando ogni virilità. Eppure, quando la donna tornata a casa parlerà con l'altro uomo, alla domanda «se andassi da lui affinché tu fossi libera e diventassi mia moglie» lei risponderà «no, no, io amo lui, solo lui». Si evidenzia così come il momento di colpa, l'attimo di perdizione, non mutano quanto l'uno prova nei confronti dell'altro. I sentimenti non escono sconfitti dalla realtà dei fatti, come si vedrà bene nel finale, «Noi ci apparteniamo sia nell'amore che nella colpa». Tale senso d'appartenenza scaturisce però, ed è facile desumerlo, dalla scambievole peccaminosità dei due consorti. Entrambi, infatti, hanno tradito il loro sentimento, non solo uno, non solo l'altra. Alla fine risulta evidente che i protagonisti si perdonano a vicenda ma non riescono a perdonare se stessi, quindi la tragicità. Cosa ne sarebbe stato però di questo perdonarsi a vicenda se solo uno si fosse reso colpevole del tradimento? Fa quanto meno riflettere il fatto che il perdono dell'altro sia sempre agevolato dal proprio sentimento di colpa, magari passato, che permette una più facile comprensione della colpa altrui. E' vero perdono quello che si ottiene attraverso l'empatia, il riconoscersi nella colpa dell'altro, il redimere l'atteggiamento dell'altro perché anche noi un tempo abbiamo peccato? Come la fiducia non dovrebbe derivare dal perfetto comportamento del consorte, perché altrimenti sarebbe facile accordargliela; così il perdono dovrebbe ergersi al di sopra dell'orgoglio. Laddove non c'è orgoglio da recuperare, perché non è compresso l'equilibrio delle parti, in virtù del vicendevole sbaglio, allora non c'è perdono, ma comprensione.