A R T E

Quel romanzo ci riguarda tutti...


Polvere siamo e polvere torneremo. In uno dei famosi scatti di Dorothea Lange, grande fotografa americana, è ritratta una fattoria di legno, il recinto, la stalla, il segnavento alto sopra il tetto; alle spalle della casa il cielo non esiste più, non esiste più la strada, tanto meno le coltivazioni. C’è solo una nuvola di polvere che avanza come un enorme organismo vivente: presto inghiottirà qualunque cosa. È il 1935. Le tempeste di sabbia che tra il ‘31 e il ‘39 colpirono Oklahoma, Texas, Kansas, Colorado e New Mexico possono essere considerate il più grave disastro ecologico che abbia interessato il territorio americano nel secolo scorso. Sono passate alla storia come Dust Bowl.
“Venne l’alba, ma senza giorno. Nel cielo grigio apparve un sole rosso, un fioco cerchio rosso che spandeva un po’ di luce simile al crepuscolo; e con l’avanzare del giorno il crepuscolo ricadde verso il buio, e il vento ululò e mugolò sul mais abbattuto”. Così si legge in “Furore”. Il grande romanzo di John Steinbeck ha appena compiuto ottant’anni. E da ottant’anni continua a essere letto, continua a farci riflettere, nonostante la linearità e la vena retorica per cui molti lo criticarono; nonostante il suo autore abbia preferito all’introspezione psicologica del singolo personaggio, la forza irresistibile dell’istinto collettivo. Furore – con la sua biblica intensità – racconta dei Joad, una famiglia di agricoltori dell’Oklahoma costretta a lasciare la propria fattoria e a mettersi in viaggio verso la California.
  Gli ottant'anni di Furore, quel racconto capolavoro dell'America profonda...