Giacomattanze

Lupi & mannari (quandocapitacheracconto) - 1


Dove muoiono le ali(Ernesto Giacomino)Comparve dal nulla, nel buio.Comparve basso, forse anche un po’ zoppo, coi riccioli biondi sudati in fronte. Sudati a inizio maggio, come se nella testa avesse già il ferragosto. A guardarlo in faccia vedevi l’angelo nel presepe: solo, con più rughe e più giacca a vento. Azzurra, la giacca. Col cappuccio, taglia 50 o più, che magari era un giubbino ma gli andava a cappotto. E in mano una busta di nylon bianca, annodata stretta e preziosa come uno di quei sacchi del deposito di Paperone.«Ragazzi, oh, ragazzi» sibilò. Si guardava intorno veloce, il collo qua e là come un tergiscristallo.Ci avvicinammo io, Peppe Summa, i fratelli Bifanio. Altri tre invece trattennero il pallone e stettero a guardare.«Vado mica bene per la stazione, di qua?» Altro sudore, a gocce piene. «Eh? Vado bene?»«Sì, sì.» Questo ero io, subito, il saccente. Mi affacciai, gli indicai via Italia, vuota e illuminata come a casa mia quando s’aspettava un ospite. «Dritto per quella via là, guardate. In fondo c’è la stazione.»Il sorriso, poi. Il sorriso dell’angelo nel presepe.«Oh, ma io di là ci sapevo arrivare pure da solo. E’ che non ci posso andare, di là. Di là c’è uno che non voglio vedere. Capita anche a voi, no?»Vito Bifanio fece cenno all’imbocco opposto di via Gramsci. C’era più notte, da quel lato. E, invisibile, l’incrocio con via Pastore. Un gelo d’occhi, laggiù, a volerci guardare.«L’altra strada è quella» disse, con sufficienza. «Anche là sempre dritto.»«E’ facile. E’ la… parallela, no?» Sempre io, questo qua. Il saccente.Leggendolo nella figura si capiva che aveva difficoltà. I nervi come legati, avambracci in avanti ad ascelle tenute strette, una mano col tremolio gesticolante e l’altra con appesa la busta bianca. Come in certe interrogazioni di storia, con quel ballo dell’ansia a pelo di cattedra, e d’un minimo voltato verso chi può suggerirti. Fisso su Adriana della prima fila, per dire. Che non è che poi le si tiene sempre tutte a mente, certe date del periodo neoassiro.E se invece è altro? pensai io. Non sempre si vedeva, mi aveva spiegato mia nonna. Ma mai mettersi là a indagare meglio, con curiosità. Lei diceva ‘handicappati’, quasi a bocca stretta, quasi vergognandosene, e ci ficcava dentro una categoria larga dai malati di mente ai mutilati di guerra, o certi altri a cui capitava già di nascere proprio così, senza vedere o sentire o in difetto d’ossa.«Chi è il più grande, qua?» disse ancora lui, in un sottovoce balbettato che comunque rintronò nell’aria. La testa gli si scontornava nello spicchio di cielo di sfondo.Nel pienone di stelle, nemmeno mezz’ora prima avevo mostrato agli altri il carro piccolo e la stella polare.Il più grande era Mimmo Bifanio, ma non si fece avanti. Se ne stava appoggiato a un cofano di macchina, mezzo storto e puntato su un gomito, il pallone tenuto stretto sotto il braccio libero. Una volta, ricordai, con quella stessa faccia là aveva fumato da un mozzicone preso a terra.«Io» dissi allora. «Il più grande sono io.»«E mi ci accompagneresti, tu, alla stazione, per quella strada che non conosco?»«Ah, ma è facile, sempre dritto.»«Perdo il treno, mannaggia. Lo perdo. Mi ci accompagni, allora?»C’era un sorriso di sforzo, in quel suo non voler capire. Gli occhi traballanti e persi, a vederli da altrove, erano quelli del micio incappato tra i cani.Distese le braccia, di colpo; capii che i malanni non erano lì. Era, piuttosto, nel sentirlo consumato da una febbre lunga, come di malaria. Debole di mente, dai pensieri troncati. Una penna senza inchiostro a metà del dettato, con quel friggere dei graffi sulla carta dopo un palmo di righe leggibili.Non conosceva la strada, perdeva il treno. Non era capace, inutile insistere. Non in tutti si vedeva subito, diceva mia nonna. In parecchi, anzi, puoi solo percepire.M’incamminai d’un passo avanti, e alle spalle il fruscio ballonzolante della sua busta appesa al polso. Un morso di via Gramsci, il respiro di poca luce da qualche finestra accesa, il bivio.Via Pastore curvava a destra, le lampadine erano rade e alte, di traverso alla strada. La stazione era a trenta metri ma ancora invisibile. Intorno, ombre allungate sul biancogrigio dei palazzi in notturna.«E’ lì, vedete?» Mi fermai, misi il dito storto come a scavalcare un’ultima svolta che castrava la visuale.Non c’era più, al mio fianco.«Ah, sì» lo sentii. L’inizio di una traversa, un portoncino senza luce. Un’anta spalancata. Fece per entrare. «Debbo riposare, non ho fiato, mi stendo un po’ sulle scale. Vieni un attimo?»Dissi di no. Ma muto, incerto, solo scrollando la testa. Le gambe andarono da sole, si affacciarono sul portone a deglutire quel buio. A soffocarsene, prima ancora di averlo respirato.Ancora: «Vieni un attimo?»Tese la mano a prendermi, mi scansai, mi mancò per poco. Una sua unghia, per un attimo, s’incastrò ad alzarmi fili dal maglione di lana.Era pallido, senza più labbra, il collo gonfio. Sì, allora doveva stendersi. Me lo dissi a metà tra sollievo e coraggio, senza voglia di restare ma senza forza di scappare. Un uomo malato, eccolo là, sangue d’occhi e disperazione. Non in tutti si vede, in parecchi devi percepire.Avevo un altro attimo per capire meglio, allora. Lo avevo?Realizzavo di avere poco respiro, mandavo occhi in giro come a imbottirli d’aria. E così, sul porticato del marciapiede opposto, intuii la sagoma furtiva di Peppe Summa. In ombra, seminascosto da una colonna, la maglia finta del Milan col numero sette incollato col vinavil.Si vide scoperto, mi salutò e fece per correre.«Puoi andare, va’.» Di colpo, l’angelo del presepe si scostò dal portone. Un guizzo secco, come bruciatosi col legno in penombra. «Ho capito dov’è, la stazione. Grazie.»S’incamminò di fretta, a testa bassa, il collo serrato tra le spalle troppo piccole.Senza voltarmi me ne andai a ritroso su via Pastore, dritto da dove ero arrivato.«Vi seguivo» fu il ghigno di Peppe Summa, rincorrendomi. «Volevo essere là quando ti dava la mancia. Così dividevamo.»Dieci minuti dopo, in stazione, mia nonna mi teneva per mano parlando con un agente della Polfer.A ogni domanda risposi boh, forse, non ricordo.«Tu lo vedi, qui?»«No. Non lo vedo.»E dicendolo lo vedevo. Era al quarto binario, seduto sulla panca di marmo. Leggeva, la busta bianca di nylon serrata in mano come una reliquia preziosa.«No. Qui non c’è.»Tornammo a casa in silenzio; lei fumando, io saltellando da pinguino, per via del suo scialle calatomi tra gambe e collo.E magari era anche bello, per strada, che i nostri passi rompessero il niente.