Creato da KurdyM il 22/02/2008

Giacomattanze

Diario di borgo (tipo quando scopri che i capperi non crescono in mare)

 

 

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Lupi & mannari (quandocapitacheracconto) - 2

Post n°29 pubblicato il 20 Novembre 2012 da KurdyM
 

NORMOGENIA  

Dalle fessure sotto le persiane c’è un sibilo misto tra vento e brusio della strada piena. A scatti arriva l’avvicinamento assordante dell’elicottero, pare il piglio godereccio della mosca sulla merda: sorvola, osserva, spillucchera, riprende quota.

Il maestro non si scompone, anche se ormai fa fatica a stare seduto. I due giri stretti di nastro per fissare l’esplosivo gli bruciano fino all'inguine. Provando a girarsi o piegarsi, poi, arriva una fitta intercostale che spezza il respiro.

Guarda i suoi ostaggi, un po’ in disordine tra i banchi. I suoi scolari. Sono tranquilli, nemmeno stanchi. Rosalinda si fa le prove di trucco-giocattolo con la trousse regalatele per il compleanno. Alcieri, il gigante, sbuffa montando una sorpresina dell’ovetto di cioccolato.

Nel corridoio c’è una finestra larga, affaccia sulla piazzetta interna addobbata a campo da basket. Sporgendosi a guardare, si vede Pippo il bidello frantumato sull’asfalto. Una pozza di sangue dal cranio rotto, e il camice aperto sulla schiena come un mantello da batman o principe azzurro.

Tu insegni, ma non hai amore per i bambini
, gli hanno sempre detto. Ma quelli che lo hanno detto non li conoscono davvero, i bambini. Non li mai hanno sentiti, quei vigliacchi nani, quando chiamano ‘dracula’ un certo vecchio nel vicolo che sputa sangue, o ‘boccia’ lo zingarello pelato dell’aula accanto, superstite di un rogo. Non li hanno visti pisciare in aula o nei portoni, o godere dell’uso di dispregiativi come mongoloide, o storpio o negro.

Sotto la lingua, certi bambini, nascondono un cinismo schioccante come quella loro ammiratissima frusta di Zorro. Sono loro a mangiare i comunisti, non il contrario: il capitale lo imparano già per strada, chi ci mette il pallone fa le regole: è gol, non è gol, è palo, è andato alto, è andato basso, è andato rasoterra, da vicino non vale, da lontano non si tira. Verba volant e scripta pure, se spendo i soldi per un pallone. Manent due palle: diteglielo, al sindacato.

Fuori è sera, ormai. Il cielo si è fatto catrame, i vetri catturano i rimbalzi un neon moribondo.

La bomba, il telecomando. Il maresciallo, il megafono.

Ancora.

Dai banchi, in crescendo, arriva voce che si ha fame. Alla fine va a ufficializzarglielo Melacci, occhi chiari e una tinta di capelli sul rossobiondo stopposo. Dice: dieci-quindici pizze, è possibile di gusti differenti? Ma anche con la marinara, però?

In quella 5^ C più primitiva che elementare, Melacci gioca da anziano del gruppo. Ha quasi dodici anni e un dieci e lode per ogni materia. Eppure in seconda perse tre mesi per l’epatite: troppe assenze, non ci fu verso di promuoverlo. La direttrice parlò di necessaria progressione nell’insegnamento: una certa logica, disse, un certo percorso graduale, rafforzò, un certo bene anche per lui. Allora, quello lì, Melacci, la bocciatura da modernismo pedagogico non l’hai mai perdonata a nessun individuo scolastico. Neanche a lui, che figurarsi quant’era colpevole: stava una classe indietro, l’ha raccattato per strada. Fa niente: neppure lui gli ha mai perdonato di essergli piombato fra le palle.

Perché poi Melacci, Fabio Melacci, oltre ad avere un cervello esemplare è uno spettacolo già al solo guardarlo nella cattiveria con gli altri.

Ricorda quando gli arrivò in classe, il primo giorno organizzò subito le selezioni per il pollo di turno: si sedette di fronte ai compagni, uno per uno, intrecciando quattro righe per un tris. L’unico gioco senza vincitori, il tris: se si ha la stessa attenzione del proprio avversario è sempre un pareggio. Mancando invece quel minimo di furbizia o esperienza, eccolo là, dal tris s’individuava la vittima dell’anno. Colui che avrebbe portato in eterno lo zaino di Melacci, e avrebbe dovuto regalargli spiccioli, merende, doppioni di figurine panini.

Un solo squillo di cellulare, intanto, e risponde il maresciallo.

«Quindici pizze, di vari gusti» gli ordina subito lui. «Facciamo tre capricciose, tre bianche al cotto e tre marinare. E il resto tutte margherite. Le dovete far fare categoricamente da Il pino d’oro, qua sotto. Se arrivano da altrove le mando indietro, continuo a farli torcere dalla fame.»

Si sente l’altro prendere appunti, qualcuno gli sussurra chiedetegli questo o ditegli quello, e una voce di donna che arriva di botto e strilla ommo ‘e merda,  e la allontanano.

«E pure qualche coca cola e acqua frizzante» detta ancora. «Ma qua non ci deve mettere piede nessun altro se non un certo garzone della pizzeria: quello basso e tozzo, Pasquale. E’ l’unico che conosco. Nessun altro, se no faccio il botto.»

Il maresciallo non riattacca, non subito: vuole sapere dei bambini, se ne lascia andare almeno qualcuno. «L’acconto di ventimila lo hai avuto, no?» dice. «Metti in conto la buona volontà, duecentomila euro non è che si raccolgono per strada, un po’ di pazienza, stiamo operando.»

Sull’accenno ai ventimila lui ha una strizzata d’occhi, ricorda il momento in cui era sceso a prenderli Pippo il bidello. Poi è risalito, poveraccio, ha consegnato il pacco, ha annusato qualcosa. O qualcosa ha annusato lui. E’ finita male. Anzi, peggio.

Aspettando i viveri si crea un silenzio di massima, interrotto da qualche sussurro isolato. Il ticchettio dell’orologio sulla parete pare ingigantirsi al trascorrere del tempo. Dietro, oltre al sudore d’umido, c’è la cartina dell’Europa ingiallita sul nord-est. E nevicate d’intonaco, raccolte in un angolo di pavimento.

Passano altri venti minuti: squilla il cellulare, sta salendo il giovane con pizze e bibite. Si affacciano ad accoglierlo alla porta i due Rimatti, i gemellini spilungoni, e Teresella, una ragazzotta italo-canadese avviata all’obesità.
Il tempo si è messo sul brutto. Tuona, qualche goccia sui vetri. Lui immagina la strada che comincia a tappezzarsi di ombrelli colorati, pozze d’acqua, fari bassi di macchine in coda.

I ragazzi frattanto rientrano con le pizze e due buste piene di bottiglie. Spargono tutto alla buona  sui banchi, aprono i cartoni: questa a me, no, a me, chi ha detto coi funghi?, scambiamocene metà. Quasi un momento normale.

Melacci apre una coca da due litri e ci beve a canna. Anche con la bottiglia in bocca, però, continua a tenere d’occhio l’uomo seduto. Gli sorride; poi si passa lentamente una mano sul fianco, sulla tasca del grembiule da cui occhieggia l’antenna del telecomando. Pare dirgli, a sguardi: non ci provare, noi in due minuti saremmo fuori. E invece tu, bum, e addio maestro.

Ormai è legato a quella sedia da sei ore, lui. Da quel famoso un quarto all’una, da quando ha visto i suoi scolari alzarsi a grappolo, a campanella quasi suonata. Con otto, dieci di loro che correvano a immobilizzarlo, piazzargli l’esplosivo in pancia e legarlo alla sedia.

Ha capito qualcosa solo quando ha visto Melacci stringere in mano quel cellulare modificato, spiegandogli che era il telecomando. Sarebbe andato tutto bene, lo ha rassicurato, ora occorreva solo che chiamasse i carabinieri e fingesse di aver sequestrato la classe. Ventimila euro d’acconto su un riscatto immaginario facevano più di mille euro a cranio, e hai voglia a comprarci iPhone, Playstation e scarpe Nike di ennesima generazione. E quindi o li accontentava, lui, oppure l’avrebbero lasciato solo, e poi un bel click dalla distanza.

Scesi loro, tempo un minuto e il maestro avrà manette ai polsi e fucili puntati in testa. E schiaffi, pugni, calci. Flash di fotografi e sputi dalla folla. Soprattutto – e lì il sollievo gli slaccerà lo sfintere - gli artificieri scopriranno che quella non è una bomba, ma solo un vecchio hard disk di computer, coi fili penduli per renderlo più credibile.

Sbattuto in una volante, con la coda dell’occhio vedrà i barellieri trasportare il cadavere di Pippo il bidello, colpevole d’essersi accorto d’un paio di sorrisi fra i banchi mentre consegnava i soldi. Da Pippo il bidello poteva diventare Pippo il testimone: e no. Giù, addosso in branco, Melacci in testa, come i lillipuziani con Gulliver. Vetro frantumato, e un volo di dieci metri senza speranze.

Lo scarnificheranno per sapere dei soldi: dove sono, dove sono? gli urleranno nelle orecchie. Non lo immaginerà nessuno, nemmeno lui, che i ragazzi hanno preteso quella pizzeria e quel garzone perché già d’accordo sul dargli i ventimila da nascondere, in attesa del rituale della spartizione.

Ma questo succederà dopo, ora non può saperlo. Può solo continuare a sudare freddo, sperare, impallidire mentre loro si preparano per l’uscita: zaini, giubbotti, un tentativo istintivo di fila per due. Poi, in simultanea, come per un trillo invisibile di campanella, svaniscono oltre la porta.

Arrivederci, buonasera, ciao, si sente rinculare dal corridoio.

A presto.

Quello che rimane, per un attimo, è solo puzza d'aglio e sugo caldo.

(Ernesto Giacomino)

 

 
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