Mondo Parallelo

LA SCALA DI CRISTALLO


E così me ne sono andato, la testa china dopo aver salutato chi mi ha ricordato i primi anni della mia fanciullezza quando lei, “la maestra Rossi”, mi additava per farmi leggere sul sussidiario una poesia di Carducci o di Pascoli; sì, ricordo è passato tanto, tanto tempo, ma adesso che l’ho incontrata in un negozio di antiquariato, il tempo si è fermato con lei, insieme a quella pendola appena restaurata per chi nei suoi anni fieri e ricchi di storie, cammina curva e guarda sotto due occhiali spessi dinanzi a sé quasi a vergognarsi di alzare il capo. Per via, forse, del suo zoppicare in un modo strano e particolare, saltellando quasi sulla punta di un bastone intarsiato e ricurvo, vecchio forse più di lei… la maestra Rossi. Ricordo che non andava mai in chiesa: guardava il cielo muoversi in cornice nelle finestre aperte assieme alle rondini che si sfioravano appena, garrule frullando prima di fuggire lontano. Rapidi si stringevano i suoi occhi di mandorla, ormai opachi, per non far passare le lacrime: erano quelli gli ultimi giorni del suo ultimo anno, poi sarebbe andata in pensione. Salutava così le sue piccole donne e noi maschietti dai volti, i sorrisi, i sogni diversi che ora andavano via tutti assieme, sciogliendo ciascuno come trecce le sue ali nel sole d’una gioia, oppure nel sale di un dolore che non si faceva ancora sentire: poi dopo, chissà… E già il cielo era vuoto nel trionfo di maggio e neri presagi le rondini, per fortuna impigliate in quelle sue lacrime che nessuno avrebbe mai visto per portargliele via, lasciandola sola davvero. Un giorno, era ieri, che mi è rimasto fisso nel cuore. Sì, ho avuto chiodi, e schegge, e tavole sconnesse, e tratti senza tappeto, nudi, nel ricordo d’una nostalgia e una  tenerezza da togliermi il fiato. Le volevo bene, non so, forse io, bambino, leggevo la tristezza nei suoi occhi, o forse no, forse per me era una seconda mamma, qualcuno cui confidare le mie paure e i miei crucci. Io… le volevo bene. E poi negli anni a venire come lei mi disse tante volte di fare, sempre continuavo a salire, su per quella scala raggiungendo un pianerottolo, svoltavo un angolo, e, certe volte entravo nel buio dove non c’era la luce. E non volevo tornare indietro. Non ho sostato né mi sono fermato sugli scalini perché è faticoso andare e salire, poi di certo mi avrebbe sgridato, la maestra Rossi. “Non cadere, adesso, vai avanti”, mi dicevo: perché io continuo, ancora mi arrampico, lungo la scala della vita quasi fosse una scala di cristallo, e lei, col suo bastone, ha inciso parole di una dolcezza indescrivibile in ogni scalino. E non riesco, ora che sul marciapiedi mi confondo tra la gente, a non voltarmi indietro a guardarla per l’ultima volta, prima di vederla scomparire dietro la via con in mano la sua vecchia pendola incartata, che nelle sfere ha incisi, in caratteri di fuoco, anni di vita e di sogni che il tempo non ha mai potuto cancellare. La scala di cristallo sale, sale verso l’alto, e non vedo l’ultimo gradino; troppa nebbia forse lassù, troppo calore in un giorno di sole, troppe le cose affiorate alla mente, in un attimo solo, in cui bimbo mi vedo intento all’uscita di scuola a cogliere un fiore e a carpirne il profumo. Dolce ricordo nel passo d’una anziana signora, con in mano una pendola e un bastone ricurvo sotto il peso degli anni, il peso dei giorni rubati alle nuvole in cielo, al mattino sui banchi verniciati di nero come la notte di un giorno lontano, di fronte a una donna che, quella volta che avevo paura del tuono, mi prese per mano.   Giov@nni