Mondo Parallelo

IO GRIDO


Io grido come avessi i piedi nella sabbia di fuoco. Il calore mi condiziona le braccia. La luce che è troppo aggressiva mi costringe ad abbassare lo sguardo. Tanta è la vita che mi accoglie che mi chiede presenza e movimento. Io grido, ma voi non mi ascoltate, voi sensazioni recondite e lievi che specchiate la mia debolezza. Amo i vostri confusi girotondi, vi prego di lasciare ch’io vi segua. La voce implora e il passo è lento, non vi girate quando mi arresterò. Volano i passeri con direzione precisa e dove si fermano è lì che devono andare. Se ondeggiano è per motivi di danza. Nient’affatto gelosi e più rotondi e grigi di tanti altri colorati uccellini. Convivono e si incrociano trillando. In uno spazio che appartiene anche a gazze e piccioni dai bianchi e neri colori. Più grossi loro, tanto che le ali fanno sentire lo schiaffo nell’aria. Dove andranno a morire tutti poco per volta, uno ad uno cadendo nel silenzio. Mi confondo tra i viandanti e il sorriso delle donne con il loro hijab che copre i capelli e lascia scoperto il volto, e poi sento lontane avanzare altre voci. Noi nel cammino lenti e perplessi, i nostri visi in alto e in attesa. Siamo e non siamo su un preciso suolo. Abissi d’aria sconvolgente azzurra, manti di nebbia a dire tristezza. A proteggere chi ancora pensa e vive. C’è forte parentela fra pazzia amore allegro, morte e innocenza. Mani si allacciano esitanti nell’andirivieni di coppie, le più varie, le più ignote. Si cerca di capire tante cose, magari da dove veniamo, ma tutto resterà senza risposta. Scende veloce il carro umano, scende su spazio ridotto e brillano parole. Trilla il bambino, come uccellino trilla. Lascio il mio silenzio e corro tra le case invadenti, lungo le strade intricate di Istanbul. L’aria mi avvolge, difesa trasparente ed alimento primo. Mi fascia, ancora per quanto? Lasciammo i giochi, li lasciammo? Il canto acuto entrò nei polmoni. Abbiamo ora sguardi come sospiri. E lei, avvolta nel suo nero manto ci guarda cavalcare la vita, e aspetta. A volte penso a quando non mi rendevo conto di chi mi passava accanto e mi carezzava con lo sguardo. Adesso mi mancano i suoi sorrisi. E quando sono triste non riesco a trattenere un sospiro e un pensiero di tenerezza che mi prende improvviso e mi chiedo perché qui dentro non riesco a liberare uno spazio per accoglierli. Mi piace di te ricordare un bacio a fior di labbra, tra il colore profumato di cielo di un velo azzurro, come un petalo di rosa che morbido si posava tra le mie; e le palle d’argilla bagnate della lettiera del gatto lanciate di sotto il roseto e viscide di sotto le scarpe quando camminavo in giardino o tagliavo l’erba. E non c’era verso di dire che mi dava fastidio perché sorridendo non si può essere ascoltati. E poi quante volte i silenzi erano così forti che mi sedevo al pianoforte per colmarli di note. Le rose sempre più alte, pieni i gambi di spine fin oltre il terrazzino. Ogni cosa che ti apparteneva aveva la semplicità di un fiore fatto di soli petali bianchi. Poi quante volte la tua indifferenza cozzava con il mio orgoglio, quante volte il nodo nel petto si scioglieva e poi si faceva più stretto fino a farmi male. Quante volte ogni giorno dicevo: “Domani non voglio, domani non ci sarò per te”, e poi venivo vinto dalla dolcezza; quante volte non capivo se il tuo dire era verità o bugia, se allargando le braccia per mimare un “quanto” era solo un modo di prendermi in giro. E quelle giornate intere senza un ciao, senza un’iniziativa che desse adito a un che di positivo da chiamarsi sentimento. E come ghiaccio parole mai dette e come fuoco farfalle dagli occhi, poi un velo di pioggia a bagnare il mio viso; poca, salata, amara come quella di un mare agitato. Onde, lì sulla riva, incessanti nel loro andirivieni, battiti d’un cuore racchiuso tra pareti di vetro: difficile scalfirle ma fragili e leggere. E l’orecchio sul petto posato a sentirne gli impulsi, e le tue dita tra i capelli che accarezzavan piano, io, gli occhi chiusi, a cercare fredda la tua mano. Momenti veloci, "ormai passati" dicevi, d’un giorno qualunque più bello di un altro, più dolce di ieri e mai pago del nuovo a venire. Come strali di frecce qui in mezzo al petto, parole dette in uno strano dialetto, ma tanto non occorreva capire perché nella mente il loro nitido suono si poteva sentire. Cosa poi volessero dire non potrei giurarlo; magari era un modo per dire "mi manchi" o quant’altro. E’ bello far proprie parole che non ti appartengono, o che non hanno il senso che tu credi, magari l’opposto, ma in quel momento, non era il caso di fare domande. Certo non lo saprò mai, ma forse ho sbagliato a concedere troppo la mia fiducia e ad aprire il mio cuore, incosciente, non dando ascolto ai richiami della mia mente e del razionale, o forse proprio per non voler esser razionale davvero. Poi quelle notti a pensare, chissà cosa e perché, non passavano mai, mai! E cento e mille volte la sveglia proiettava sul soffitto un’ora che non esisteva per il sonno che non arrivava. Irrequietezza inconscia, non l’ho mai capita, non saprò mai cosa turbava un sonno che mai voleva arrivare per paura d’essere prigioniero d’un sogno fatto di fumo. Non lo saprò mai. Certo, non lo saprò… mai. Giov@nni