PAROLE DI GIULIA ...

Sara -


Quanto è difficile, mi accorgo, accingendomi a descriverle – o tentare di descriverle – rivivere ora, a quasi cinquant’anni, le emozioni di un bambino. Ero allora un bambinetto di sei anni, quasi sette, che aveva appena finito la prima elementare. Erano i tempi del miracolo economico, lo sviluppo, la motorizzazione di massa. Mio padre, da tipico rappresentante della media borghesia impiegatizia, si era ritrovato a godere di un po’ di benessere in più dell’usato; e aveva da poco comprato la macchina, una Seicento color pervinca, di quelle che, alla fine degli anni Cinquanta cominciavano a scorazzare a frotte per le strade italiane, e all’inizio di luglio, finita la scuola, andammo in vacanza, per la prima volta nella storia della nostra famiglia, fuori regione, a Siusi, in Alto Adige.L’albergo e tutto il paese era infestato dai crucchi; saremmo stati gli unici italiani, se non fosse stato per la contemporanea presenza di una famiglia di ebrei romani, madre poco più che trentenne, due figli maschi preadolescenti e una bambina più piccola, della mia età: Sara.Ai miei occhi, Sara era la più bella bambina che avessi mai visto; il  che non significava molto, in realtà, poiché a quel tempo non avevo mai frequentato nessuno dell’altro sesso che non fosse mia madre o le mie zie. Tuttavia, penso che fosse davvero carina; quanto meno, se assomigliava alla madre, che era una donna giovane, bella ed elegante, sì da suscitare la malcelata ammirazione di mio padre e l’aperta gelosia della mamma.Piovve quasi per tutto il mese. Passavamo le giornate giocando a scacchi con i due ragazzi romani e il figlio dell’albergatore, un ragazzetto di carnagione bianca e rossa e dai capelli color stoppia, che non spiccicava una parola di italiano ed era francamente odioso. Sara non giocava, non ricordo se perché non era capace o perché preferiva guardarci.Essendo il più piccolo, perdevo più frequentemente di quanto vincessi, e mi vergognavo terribilmente quando lei si trovava ad assistere alle mie sconfitte. Lei però, sia che mi sentisse più affine per la vicinanza di età, sia che lo facesse per rivalità con i fratelli maggiori, faceva apertamente il tifo per me: mi consolava quando perdevo, esultava quelle poche volte che riuscivo ad essere vincitore.Ero sempre stato un bambino solo e sfigato; per la prima volta nella mia appena iniziata vita di relazione, mi sentii apprezzato da una bambina, un essere fino ad allora a me del tutto sconosciuto, ed in breve, ovviamente, me ne innamorai. Nonostante fossi già allora timidissimo e complessato, cercai di passare sempre più tempo con lei, trascurando il nobile esercizio intellettuale degli scacchi pur di godere di un’allegra compagnia femminile. A differenza di me, che, quando eravamo vicini, mi sentivo in continuo imbarazzo, Sara sembrava sempre a suo agio; era dotata di una incomparabile leggerezza dell’essere che la rendeva sempre gioiosa e che aveva un effetto rasserenante sul mio consueto umore melanconico.Dopo un po’, finimmo per stare sempre insieme. Decisi che era la mia ragazza e che da grandi ci saremmo sposati, cosa che preannunciai ai miei genitori, suscitando la loro crassa ilarità, che non fece altro che offendermi moltissimo e confermarmi ancor di più nel mio proposito. Con Sara, non parlai mai esplicitamente dei miei progetti matrimoniali, poiché mi sembrava naturale che avrebbe aderito non appena fosse stato il momento giusto per entrambi, a vent’anni o giù di lì.Le giornate passarono, lente e romantiche, e arrivò la fine delle vacanze. Il nostro rapporto era stato di amore totalmente platonico. Per parte mia, era già da un paio di anni che avevo imparato a masturbarmi, ma non associavo ancora la deliziosa sensazione che traevo maneggiandomi l’uccellino con la presenza nelle vicinanze di una qualche entità femminile. L’amore era per me, allora, e fu quella l’ultima volta, totalmente svincolato dalla voglia di raggiungere il piacere sessuale. Fu la stessa Sara, quella bambina angelicata e purissima, che mi svegliò alla vita dei sensi.Era l’ultimo giorno di vacanza, l’indomani saremmo partiti, noi per Genova, lei per Roma. Facemmo una passeggiata nel bosco umido di pioggia, tenendoci per mano. Quando fummo nel folto del bosco, lontani dall’albergo e da ogni presenza umana, mi disse: «Sai Franchino, eri così buffo, il giorno che sei arrivato in albergo, con il tuo cappottino e il berretto con le orecchie…» Il berretto con le orecchie, in effetti, era la passione di mia madre, a me dava molto fastidio e sapevo che mi rendeva totalmente ridicolo; tanto più in pieno luglio.Continuò: «Allora mi avevi fatto ridere, ma adesso ti voglio bene…»Il cuore mi era salito in gola, ma non mi venne in mente niente di carino da dirle.«Sei così tenero e dolce…» disse ancora «dammi un bacino» e appoggiò la bocca sulla mia. Ovviamente, non sapevamo baciarci davvero, ma quel contatto di labbra sembrò ad entrambi la cosa più deliziosa che avessimo mai sperimentato. Ci avviammo lungo il sentiero per tornare in albergo, ma dopo poco si arrestò.«Tu sei figlio unico… scommetto che non hai mai visto la passeretta di una bambina…»Io non solo non l’avevo mai vista, ma non sapevo neppure cosa fosse; per quanto ammirassi le bambine come esseri graziosi e belli da vedere, nessuno mi aveva ancora spiegato che fra maschi e femmine ci fosse qualche differenza anatomica. La guardai con aria interrogativa; lei capì subito che la sua ipotesi era ben fondata. Senza esitazioni, si tirò su la gonna e abbassò le mutandine. Mi apparve, in tutto il suo splendore, l’oscuro oggetto del desiderio di tutti i maschi del mondo, di ogni età, razza e colore, sotto forma di una timida passerina implume che occhieggiava in mezzo a due coscette bianche alabastro.Mi sorrise con aria birichina, mentre io restavo impalato a guardargliela, chiedendomi perché una porzione anatomica così inconsueta e quasi inquietante mi sembrasse invece, agli occhi del cuore, tanto affascinante.Comprendendo che mai e poi mai mi sarei mosso di lì di mia iniziativa, si avvicinò, mi prese la mano e se la appoggiò in mezzo alle gambe, direttamente sulla fighetta. Il suo calore mi trasmise una scossa che si ripercosse stranamente sul mio uccellino, che cominciò ad agitarsi sotto i pantaloni. Sara aprì la patta dei pantaloni e me lo tirò fuori; lo soppesò con gli occhi e con la mano, poi prese a menarmelo, così bene come io, da solo, non sarei mai riuscito a fare.Poiché io continuavo a starmene immobile, con la mano libera prese la mia e mi costrinse a strofinarla contro il suo minuscolo spacco. Ci toccammo per un po’, godendo quella nuova intimità; non posso dire che godetti veramente, in considerazione dell’età, ma certo non avevo mai provato sensazioni così piacevoli; e anche a lei la cosa non doveva dispiacere, visto che non accennava a smettere, ma continuava ad accarezzare e accarezzarsi come se non dovesse finire mai.Riprese nuovamente a piovere, in maniera così violenta da penetrare attraverso il fitto fogliame del bosco. Cominciammo a bagnarci e a malincuore dovemmo mettere fine al nostro gioco. Ci rimettemmo a posto i vestiti e scappammo via di corsa verso l’albergo, tenendoci per mano.Quando fummo nell’atrio, al riparo, mi disse: «Ti amo» e mi baciò di nuovo sulla bocca.«Torneremo l’anno prossimo» dissi io, «mi aspetterai?»Fece segno di sì senza parlare, mentre due lacrimoni le correvano lungo le guance; si divincolò e corse su per le scale. Andai anch’io nella mia stanza. Avrei voluto dire ai miei genitori che ero diventato uomo e che ben presto mi sarei sposato, ma poi, prudentemente, tenni per me la mia esperienza. L’anno dopo, andammo in vacanza al mare. Di Sara, non ho più saputo nulla.Sara fu il mio primo, delizioso incontro, del tutto innocente e platonico, con l’altro sesso. Avevo sei anni, e non l’ho più dimenticata. So dove abita e con chi. La Sarai di Roma, la ragazza del ghetto, ha trovato il suo faraone e non è stata restituita ad Abram. Ancora adesso, ogni volta che mi trovo a Roma, appena ho un attimo di tempo, vado in una sorta di pellegrinaggio davanti alla sua porta, in una stradina di Trastevere, presso al fiume, di fronte al ghetto, e rimango per un po’ lì, sotto la sua finestra, come un trovatore medievale che canti alla sua dama una silenziosa serenata. Anni fa, le mandai dei fiori e un biglietto con un appuntamento; ovviamente non venne,  né mi sarei aspettato di vederla; e vedendola, del resto, non la riconoscerei. Non so se lei ricordi il compagno di giochi di quella lontanissima estate piovosa,nei boschi dell’Alto Adige, il bambino un po’ ridicolo con il cappotto e il berretto con le orecchie… A ripensarci adesso, credo che fu il mio unico amore veramente innocente; non ho  mai nutrito fantasie sessuali su di lei, né allora, né dopo, in tutti questi anni. Solo ora, sulla soglia dei cinquanta, per aprire questo libro di fittizie memorie, arrischio di buttar giù due righe sul mio primo amore, augurandomiche il ricordo sia abbastanza rispettoso!