In memoriam

Post N° 1


EMILIO LUSSUda “Un anno sull’altipiano” L’8 giugno, gli austriaci, prevedendo l’offensiva, fecero brillare la mina sotto Casara Zebio, quella per cui noi avevamo passato la notte di Natale in linea. La mina distrusse le trincee, seppellì i reparti che le presidiavano, insieme con gli ufficiali di un reggimento che vi si erano fermati durante una ricognizione. La posizione fu occupata dal nemico. L’avvenimento fu considerato come un cattivo presagio. Il 10, la nostra artiglieria aprì il fuoco alle 5 del mattino. La grande azione che andava, per cinquanta chilometri, da Val d’Assa a Cima Caldiera, era iniziata. Sull’Altipiano, comprese le bombarde pesanti da trincea, non v’erano meno di mille bocche da fuoco. Un tambureggiamento immenso, fra boati che sembravano uscire dal ventre della terra, sconvolgeva il suolo. La stessa terra tremava sotto i nostri piedi. Quello non era tiro d’artiglieria. Era l’inferno che si era scatenato. Ci eravamo sempre lamentati della mancanza d’artiglieria: ora l’avevamo, l’artiglieria. I reparti erano stati ritirati dalle trincee e solo poche vedette le presidiavano. Il 1° e il 2° battaglione del reggimento erano ricoverati nelle grandi caverne scavate durante l’inverno. Il 3° battaglione era con tutte e quattro le compagnie allo scoperto, sulla linea dei due ridottini retrostanti. Le piccole caverne ivi esistenti erano occupate dagli artiglieri da montagna, che vi avevano la batteria, e dai nostri mitraglieri. L’artiglieria nemica controbatté, con i grossi calibri, le nostre batterie, ma non tirò sulla prima linea. Sulla nostra prima linea tirò solo la nostra artiglieria. Quello che avvenne non fu sufficientemente chiarito. Alcune batterie da 149 e da 152 da marina tirarono su di noi. I battaglioni che erano nelle caverne non ne soffrirono, ma il mio ebbe, fin dall’inizio, gravi perdite. Il maggiore Frangipane, ch’era rientrato da pochi giorni, fu colpito fra i primi ed io assunsi il comando del battaglione. La linea dei due ridottini, nei quali il mio battaglione aveva l’ordine di rimanere, fu rasa al suolo. Essi erano stati costruiti contro i tiri di fronte, non contro quelli alle spalle. La 9a e la 10a compagnia furono dimezzate. Il tenente Ottolenghi fece uscire i mitraglieri dalle caverne e, riordinatili all’aperto, gridava:- Bisogna marciare sulle batterie che tirano su di noi e mitragliarle! - Io lo vidi a tempo, accorsi e l’obbligai a riprendere il suo posto. Feci spostare di qualche centinaio di metri indietro le compagnie e ne informai il comando di reggimento. Il battaglione aveva già molti morti. Le barelle erano insufficienti a trasportare i feriti ai posti di medicazione. Mentre io facevo la spoletta fra i reparti, passò un colonnello d’artiglieria, seguito da due tenenti. A capo scoperto, la pistola in mano, fra gli scoppi delle granate, urlava:- Uccideteci! Uccideteci! -Io gli andai incontro e gli proposi di servirsi dei miei ufficiali per comunicare alle batterie l’ordine di spostare i tiri. Egli non riconobbe neppure che io ero un ufficiale. Non mi rispose e continuò a gridare frasi sconnesse. I due tenenti lo seguivano, muti, lo sguardo sperduto. Io cominciavo a perdere la calma. Il comando di brigata, per l’azione, s’era stabilito vicino, dietro il mio battaglione. Vi andai di corsa. Trovai il generale comandante della brigata, in fondo a una piccola caverna, seduto, con il microfono in mano. Gli raccontai affrettatamente quanto avveniva. Egli m’ascoltava, calmo fino all’abbattimento. Io parlavo agitato, ma egli restava indifferente. Nell’eccitazione, io mi lasciai sfuggire:- Signor generale, quante corbellerie, oggi, stiamo commettendo!-Il generale s’alzò di scatto. Io credetti volesse mettermi alla porta. Mi venne incontro e m’abbracciò, piangendo.- Figliolo, è la nostra professione,- mi rispose. Seppi che egli inviava portaordini e fonogrammi, vanamente, da oltre un’ora. Io rientrai al battaglione, disperato.Nel settore del 2° battaglione avvenivano cose peggiori. Il maggiore Melchiorri s’era installato in una piccola caverna, accanto alla grande caverna in cui era ricoverata la 5a compagnia. Il tiro dell’artiglieria lo aveva molto impressionato. Coloniale, egli non aveva mai assistito, in Africa, ad una simile forma di guerra. I suoi nervi non poterono resistere. Si era già bevuto, da solo, una bottiglia di cognac e aveva mandato in giro tutto il comando del battaglione per trovarne una seconda. Egli attendeva la bottiglia, quando, dalla caverna della 5a compagnia, arrivò il rumore d’un tumulto. La caverna della 5a era, fra tutte le altre del reggimento, la peggio scavata. Era stata una delle prime ad essere costruita e i minatori non erano ancora sufficientemente pratici. Era lunga orizzontalmente, ma non abbastanza scavata in profondità. Poteva contenere un’intera compagnia, ma era quasi a fior di terra. In grado di resistere a un bombardamento di piccoli calibri, non lo era per gli altri calibri. Forse, lo era anche per gli altri, ma quelli che vi stavano dentro avevano l’impressione che non lo fosse. Quella mattina, i nostri 149 e 152 l’avevano particolarmente presa di mira. Alcune granate scoppiate all’imboccatura avevano ucciso dei soldati e il capitano comandante della compagnia. Intere batterie avevano continuato a tempestarla di colpi. La compagnia infine, stordita da un martellamento ininterrotto, soffocata dal fumo degli scoppi, priva del suo comandante, non seppe resistere. Ai soldati sembrava che la volta dovesse crollare da un momento all’altro e schiacciarli tutti. Essi volevano uscire all’aperto. I soldati gridavano- Fuori! Fuori! -Il maggiore Melchiorri sentì le grida e mandò ad informarsi. Quando seppe che i soldati volevano uscire dalla galleria, egli fu assalito da un impeto d’ira. Gli ordini dati esigevano che i reparti non si muovessero dai posti loro assegnati prima dell’ora fissata per l’assalto.- Noi siamo di fronte al nemico,- gridò il maggiore, - ed io ordino che nessuno si muova. Guai a chi si muove! -
La seconda bottiglia era arrivata e il maggiore dimenticò la 5a compagnia. Il bombardamento continuava. Non passò molto tempo. La compagnia si gettò fuori dalla galleria e si riordinò, all’aperto, in un avvallamento laterale non battuto dall’artiglieria. Il maggiore credette trovarsi di fronte ad un ammutinamento. Ne era convinto. Una compagnia, poco prima dell’assalto, con le armi alla mano, a pochi metri dal nemico, rifiutava d’obbedire. Per lui, non v’erano dubbi. Bisognava quindi reagire immediatamente con i mezzi più energici e punire la sedizione. Furibondo, uscì dalla sua caverna. Mise la compagnia in riga e ordinò la decimazione. La 5a compagnia ubbidiva agli ordini, senza reagire. Mentre l’aiutante maggiore conteggiava i soldati e ne designava uno ogni dieci per la fucilazione immediata, la notizia si sparse per gli altri reparti del battaglione e accorsero vari ufficiali. Il maggiore spiegò loro che egli intendeva valersi della circolare del comando supremo sulla pena capitale con procedimento eccezionale. Il comandante della 6a compagnia era fra i presenti. Era il vecchio comandante della 6a all’azione dell’agosto, il tenente Fiorelli, che, guarito dalle ferite e promosso capitano, aveva ripreso il comando della sua compagnia. Egli fece osservare che il reato di ammutinamento di fronte al nemico non esisteva e che, anche se il reato fosse stato compiuto, il maggiore non avrebbe avuto il diritto di ordinare la decimazione senza il parere del comandante del reggimento. Le considerazioni del capitano irritarono il maggiore. Egli impugnò la pistola e gliela puntò al petto.- Lei taccia - gli rispose il maggiore - taccia, altrimenti si rende complice dell’ammutinamento e responsabile dello stesso reato. Io solo, qui, sono il comandante responsabile. Io sono, di fronte al nemico, arbitro della vita e della morte dei soldati posti sotto il mio comando, se infrangono la disciplina di guerra. -Il capitano rimase impassibile. Calmo, chiese più volte il permesso di parlare. Il maggiore gl’impose il silenzio. La selezione era stata ultimata, in mezzo alla 5a, e venti soldati, distaccati dagli altri, attendevano. Il maggiore ordinò l’attenti ed egli stesso si mise nella posizione d’attenti. Il fragore dell’artiglieria era assordante e dovette urlare per farsi sentire da tutti. Egli parlava solenne:- In nome di Sua Maestà il Re, comandante supremo dell’esercito, io maggiore Melchiorri cavalier Ruggero, comandante titolare del 2° battaglione 399° fanteria, mi valgo delle disposizioni eccezionali di Sua Eccellenza il generale Cadorna, suo capo di stato maggiore, e ordino la fucilazione dei militari della 5a compagnia, colpevoli di ammutinamento con le armi di fronte al nemico. -Il maggiore era ormai esaltato e non ascoltava che se stesso. Ma lo stato d’animo in cui egli si trovava non era quello degli ufficiali presenti, né della 5a compagnia, né dei venti designati alla morte. Mai, nella nostra brigata, era stata eseguita una fucilazione. Questa decimazione appariva un avvenimento così precipitato e straordinario da non essere neppure considerato possibile. Ma non è necessario che tutti credano al dramma perché questo si svolga. Il maggiore Melchiorri si trovava al centro del dramma, protagonista già travolto. Il maggiore ordinò che il capitano Fiorelli, con un plotone della sua compagnia, prendesse il comando del plotone d’esecuzione.- Io sono - rispose il capitano - comandante titolare di compagnia, e non posso comandare un plotone. -- Lei dunque si rifiuta di eseguire il mio ordine? - Chiese il maggiore.- Io non mi rifiuto di eseguire un ordine. Faccio solo presente che io sono capitano e non tenente, comandante di compagnia, non di plotone. -- Insomma - gridò il maggiore puntando nuovamente la pistola sul capitano - lei eseguisce o non eseguisce l’ordine che io le ho dato? -Il capitano rispose: - Signor No. - - Non lo eseguisce?-- Signor No. - Il maggiore ebbe un attimo d’esitazione e non sparò sul capitano. - Ebbene- riprese il maggiore - ordini che un plotone della sua compagnia passi in riga.-Il capitano ripeté l’ordine al sottotenente comandante il 1° plotone della 6a. In pochi minuti, il plotone uscì dalla caverna e passò in riga. Il sottotenente ricevette dal maggiore, e lo ripeté ai suoi soldati, l’ordine di caricare le armi. Il plotone aveva già i fucili carichi. Di fronte, immobili, stupiti, i venti guardavano. Il maggiore ordinò di puntare.- Punt! - ordinò il tenente. Il plotone si mise in posizione di punt.- Ordini il fuoco- gridò il maggiore.- Fuoco!- ordinò il tenente.Il plotone eseguì l’ordine. Ma sparò alto. La scarica dei fucili era passata tanto alta, al disopra della testa dei condannati, che questi rimasero al loro posto, impassibili. Se vi fosse stato un concerto fra il plotone e i venti, questi si sarebbero potuti gettare a terra e fingere di essere morti. Ma, fra di loro, non v’era stato che uno scambio di sguardi. Dopo la scarica, uno dei venti sorrise. L’ira del maggiore esplose irreparabile. Con la pistola in pugno, fece qualche passo verso i condannati, il viso stravolto. Si fermò al centro e gridò:- Ebbene, io stesso punisco i ribelli!-Egli ebbe il tempo di sparare tre colpi. Al primo, un soldato colpito alla testa stramazzò al suolo; al secondo e al terzo, caddero altri due soldati, colpiti al petto. Il capitano Fiorelli aveva estratto la pistola:- Signor maggiore, lei è pazzo.-Il plotone d’esecuzione, senza un ordine, puntò sul maggiore e fece fuoco. Il maggiore si rovesciò, crivellato di colpi.