In memoriam

Post N° 22


PRIGIONIERI E TRADITI. DALL’ITALIACirca 600mila soldati italiani furono catturati dagli austro-tedeschi, soprattutto dopo Caporetto. Mentre fame e tubercolosi li falciavano nei lager, Roma era riluttante a inviare soccorsi. Un sesto di loro non tornò a casa Nella Prima Guerra Mondiale essere presi prigionieri poteva mettere al riparo dal rischio di farsi tagliare la testa da una mitragliata, ma condannava a mesi o anni di stenti, freddo e malattie, che troppo spesso risultavano mortali. La situazione era difficile soprattutto per i prigionieri italiani, o comunque dei Paesi dell’Intesa, perchè Austria e Germania non disponevano generalmente di cibo sufficiente per alimentarli in modo adeguato. Chiusi nel bel mezzo del continente europeo e circondati da nemici che erano padroni delle rotte oceaniche, gli Imperi Centrali morivano letteralmente di fame e faticavano a nutrire la loro stessa popolazione, figuriamoci i nemici catturati. All’inizio non ci si era posti il problema, poichè nell’agosto 1914 ci si aspettava che il conflitto sarebbe durato pochi mesi. Ci si rifaceva all’articolo 7 della Convenzione dell’Aja (1907), che era assai chiaro in proposito: il mantenimento dei prigionieri spettava al Paese ospitante. Il prolungarsi della guerra, e in particolare, dal novembre 1914, la recrudescenza dello stato di blocco contro gli Austro-Tedeschi, avevano però aggravato la situazione dei prigionieri. Nel 1915 la denutrizione nei campi di prigionia germanici era ormai preoccupante. Le famiglie e la Croce Rossa Internazionale inviavano pacchi privati, che però non erano sufficienti e comunque, non essendo coordinati, creavano problemi di distribuzione. Finalmente, dall’aprile 1916 la Francia e la Gran Bretagna compresero che le regole della Convenzione dell’Aja erano ormai superate in una guerra di massa in cui gli internati assommavano ad alcuni milioni. I governi di Parigi e Londra si decisero a finanziare e organizzare la spedizione nei lager nemici di derrate destinate ai prigionieri. Così salvarono la vita a migliaia di loro cittadini, nonchè, previo accordo con altri governi, a molti russi, belgi e serbi. Lo Stato italiano, invece, continuò ostinatamente a rifugiarsi dietro quel maledetto articolo 7, rifiutando per quasi tutta la guerra interventi diretti a sostegno dei nostri uomini e in pratica condannandone molti a morte.STRAGE DI INERMINon si saprà mai l’esatto ammontare delle perdite fra i nostri prigionieri, anche perchè vi è incertezza sulle stesse cifre dei sopravvissuti. Ma una cosa è certa: nei lager nemici gli internati del nostro Paese morivano in proporzione molto maggiore rispetto a quelli delle altre nazioni (esclusi i Russi, che erano stati catturati in più di due milioni ed erano quindi, oggettivamente, i più ardui da sfamare). Andiamo con ordine. Dal maggio 1915 al novembre 1918 gli Italiani catturati dal nemico furono circa 600.000. Di questi, oltre un sesto non tornò più a casa.  Qualcuno in verità aveva preferito stabilirsi in Austria, ma per la maggior parte erano morti a causa degli stenti, soprattutto edema da fame, e della tubercolosi, aggravata dalla denutrizione. Scendendo a dati più precisi, le fonti ufficiali austriache e tedesche parlano di 587.000 prigionieri italiani, mentre una relazione indirizzata nel luglio 1919 al generale Albricci fa ascendere il loro numero a 620.000. Fra loro, i morti sarebbero “solo” 50.000 secondo l’Austria. Ma Vienna, stando a quanto dichiarato dalla Commissione del Governo italiano sulle Violazioni dei diritti delle genti, avrebbe omesso dal conteggio i decessi avvenuti nei lager dell’Ungheria, della Boemia e della Slovenia. La Commissione italiana rilevò dal canto suo oltre 60.000 morti fra gli internati nell’Impero Austro-ungarico, più altri 30.000 sparsi fra Germania, Turchia e Bulgaria. Sfioriamo dunque i 100.000 morti totali, anche se la Commissione riportò testimonianze non confermabili riguardanti addirittura 150.000 decessi di Italiani catturati. Ancora nel maggio 1920, un’apposita Missione italiana si sarebbe recata a Vienna nel tentativo di stabilire una cifra esatta, solo per commentare che era “un’impresa impossibile”. Anche se non lo sapremo mai con precisione, possiamo comunque dare per assodata una cifra intorno ai 100mila morti, il che conferma la proporzione di circa un sesto sul totale degli internati. E’ un tasso di mortalità altissimo per dei prigionieri, soprattutto se confrontato con quello dei detenuti di altri Paesi. Di tutti i Francesi prigionieri in Germania, anch’essi aggirantesi sui 600.000 totali, ne morirono “solo” 18.000. Fra i prigionieri austro-ungarici detenuti in Italia, poi, i morti furono 14.000 su quasi 480.000. Sono tassi di decesso di appena il 3 %, circa, quando quello degli Italiani sfiorava invece il 17 %. Se consideriamo che i morti totali subiti dall’Italia nella Grande Guerra furono 600mila su 6 milioni di uomini mobilitati, vale a dire il 10%, ne conveniamo che, paradossalmente, per i nostri soldati c’era più probabilità di morire in prigionia che al fronte.
L’ALBA DI MAUTHAUSENFurono dunque più di mezzo milione i nostri soldati sparsi per l’Europa Centrale nei campi di prigionia o nelle squadre di lavoro che sostituivano gli operai nemici chiamati al fronte. Oltre metà fu catturata nel solo autunno 1917, a seguito della disfatta di Caporetto, ma anche prima di allora si trattava pur sempre della ragguardevole cifra di circa 200mila uomini, i primi dei quali fatti prigionieri fin dal “radioso maggio” 1915. Oltre che in Austria-Ungheria e Germania, alcuni finirono addirittura sul territorio di Stati alleati degli Austro-Tedeschi, come la Bulgaria o la Turchia. La maggior parte di essi, comunque, soffrì nei lager dell’Impero Asburgico, soprattutto a Mauthausen, in Austria, e a Theresienstadt, in Boemia. Definiti dagli Austriaci “Kriegsgefangenenlager”, “campi di prigionieri di guerra”, questi luoghi di detenzione si erano caratterizzati fin dall’inizio come delle baraccopoli recintate con filo spinato, secondo quello stile che di solito è associato al ricordo della Seconda Guerra Mondiale e delle dittature di Hitler e Stalin, ma che in realtà fu tipico di tutti i Paesi impegnati nei conflitti di massa del XX secolo. La Grande Guerra, con l’incessante cozzare fra armate ciclopiche, offriva prigionieri in quantità mai viste nelle guerre dei secoli precedenti, pertanto le vecchie prigioni dalle mura ammuffite non bastavano più. Fu così, ad esempio, che nacque il lager di Mauthausen, che 30 anni dopo sarebbe stato riutilizzato dal Terzo Reich. Sorto fin dal 1914 per ospitare prigionieri serbi, divenne dall’anno successivo il maggior punto di detenzione, ma soprattutto di smistamento, di Italiani. Era costituito da file interminabili di baracche, ciascuna ospitante fino a 250 persone su una superficie di soli 360 metri quadrati. Le frequenti infiltrazioni d’acqua e vento rendevano quei tuguri dei veri inferni di fango e gelo, con tutte le ovvie conseguenze sulla salute dei prigionieri, dalle infestazioni di funghi alle polmoniti. Non bastava la fame, si dormiva per terra, col solo “comfort” di un po’ di paglia. Non si aveva biancheria pulita e pochi vantavano una loro coperta. Il tutto era coronato da postazioni di mitragliatrici, e persino di cannoni, pronti a sparare in caso di rivolta degli internati. Questo, però, era il trattamento riservato alla truppa. Per gli ufficiali, che costituirono solo il 3 % di tutti i prigionieri italiani, la cattività era, al confronto, assai lussuosa. A Mauthausen gli ufficiali italiani disponevano di 9 baracche ben riscaldate e isolate termicamente con doppie pareti e pavimento sollevato. All’interno, letti in ferro, gabinetti, docce, cucina, sala mensa e perfino illuminazione elettrica. A Theresienstadt gli ufficiali prigionieri dormivano invece in una grande e confortevole caserma, completa di cappella e sala di lettura. In base alla grandezza delle camerate dormivano da 5 a 20 per stanza, ma gli ufficiali di grado più elevato godevano di una “camera singola” tutta per loro. PAZZI DI FAMEAnche gli ufficiali, in verità, soffrirono in alcuni periodi per la mancanza di cibo, soprattutto all’inizio del 1916 e poi ancora nel febbraio-marzo 1917 e nell’inverno 1917-1918, ma si trattò di episodi. In genere la dieta degli alti graduati non scendeva al di sotto delle 1600 calorie giornaliere, livello già di per sè basso, ma praticamente doppio rispetto a quello dei soldati. Per la truppa i lager erano noti come le “città dei morenti”, in cui la fame faceva letteralmente impazzire. Si sa di italiani che frugavano fra i rifiuti alla ricerca di lische di pesce e torsoli, o che per sedare lo stomaco ingoiavano erba, terra e carta. Le calorie assunte ogni giorno erano a malapena 900. D’altra parte basta citare il tipico “menù” per rendersene conto. Al mattino un goccio di caffè d’orzo, seguito a pranzo e cena da una “minestra” che era semplice acqua bollita con foglie di rape o cavoli. La parte più sostanziosa della dieta era costituita da una patata e da una fetta di pane integrale che si aggirava intorno ai 100 grammi. Un paio di volte la settimana poteva arrivare un’aringa e un piccolo pezzo di carne, non sempre, diciamo così, “freschi”. Eppure, nonostante fossero ormai ridotti a scheletri ambulanti, indossanti abiti laceri e zoccoli di legno, i prigionieri italiani venivano spesso assegnati alle cosiddette “Arbeiter Kompanien”, le compagnie di lavoro, che contavano dai 200 ai 300 prigionieri l’una e che venivano spedite fuori dai lager ad assolvere alle più svariate mansioni, dallo scavo di miniere al taglio degli alberi. Nelle compagnie di lavoro veniva concesso un po’ più di cibo, ma solo la minaccia delle bastonate spingeva a compiere sforzi sovrumani. Spesso accadeva che più del 10 % dei prigionieri non tornasse da queste missioni che potevano essere le più bizzarre, come ad esempio, nel gennaio 1916, spaccare la coltre di ghiaccio che copriva il Danubio. Una Arbeiter Kompanie di italiani mandata a costruire una ferrovia a Toblach perse in 6 giorni 225 uomini su 350. A Tolmino, scavando trincee, ne morirono in meno di tre mesi ben 630 su 750. Di un gruppo di 500 deportati nella Serbia occupata dagli Austriaci sopravvissero solo in 4, meno dell’uno per cento. La maggior parte dei decessi avveniva nella cattiva stagione, quando il freddo completava la spettrale opera della fame. In certe notti invernali, soprattutto nel 1917, si toccarono in Europa Centrale punte minime di 30 gradi sottozero. In tali casi imperava la diarrea, che spingeva molti internati a uscire dalle baracche nel gelo della notte per recarsi alle latrine. Purtroppo molti di questi venivano ritrovati il mattino seguente morti assiderati. Quale orrore, sopravvivere ai proiettili in trincea per finire a crepare di freddo nel cesso di un lager!     
E LO STATO ITALIANO  SE NE FREGO’Tutto ciò, lo ribadiamo, accadeva ai prigionieri italiani mentre a quelli inglesi o francesi giungevano regolari aiuti dai loro governi (la sola Francia spese a questo scopo cifre annuali dell’ordine dei 50 milioni di franchi dell’epoca). In Italia, invece, l’onere degli aiuti ricadde quasi per intero sulle famiglie, sulla Commissione prigionieri della Croce Rossa italiana e su comitati affiliati sorti in diverse città, che fin dal 1915 spedivano pacchi privati contenenti generi alimentari e talvolta coperte e scarpe. Nel solo biennio dal 1° giugno 1915 al 31 ottobre 1917 transitarono, attraverso la neutrale Svizzera, 10 milioni di pacchi-pane e 180 tonnellate di derrate varie. Aiuti insufficienti, tanto più che molte famiglie avevano difficoltà per la loro stessa sopravvivenza. Inoltre si creavano spesso ingorghi e ritardi, tanto che il cibo poteva arrivare ormai marcio. Altre volte i pacchi erano “alleggeriti” da qualche disonesto addetto alle poste. Urgeva l’intervento dello Stato per far sì che i soccorsi fossero razionali ed efficaci. Ma Governo ed Esercito non volevano saperne. Il “generalissimo” Cadorna e il suo Comando Supremo erano dominati dall’idea che i nostri soldati presi prigionieri fossero quasi tutti disertori, che avevano preferito arrendersi al nemico piuttosto che combattere. A livello politico, fu il Ministro degli Esteri Sidney Sonnino il maggior sostenitore della linea dei militari. Per quanto riguarda il diritto internazionale, purtroppo, Roma aveva le spalle coperte dal già ricordato articolo 7 della Convenzione dell’Aja e fu così facile per lo Stato italiano svincolarsi dalle proprie responsabilità. Le autorità si limitarono quasi solo a regolamentare. Ad esempio varando il decreto n. 1047 del 20 giugno 1915, che non ammetteva la circolazione esentasse di pacchi superiori ai 5 kg di peso. Nella primavera 1916 il senatore Frascara, presidente della Commissione prigionieri della Croce Rossa italiana, cercò invano di convincere il Governo a intervenire, ma per quanto il Primo Ministro Antonio Salandra si dicesse in linea di principio d’accordo, la linea dura di Sonnino prevalse. Così fu anche nel successivo Governo Boselli. Il 21 marzo 1917 il Comando Supremo, per bocca del Ministro della Guerra, generale Morrone, giunse perfino a chiedere al Governo di far interrompere il flusso di aiuti privati, ravvisando nel miglioramento delle condizioni dei prigionieri un incentivo alla diserzione. Solo dopo lunghi dibattiti, quando il conflitto era ormai agli sgoccioli, il Governo Orlando si decise nel luglio 1918 ad avviare un “esperimento” di soccorsi statali, la cui organizzazione fu affidata al socialista Leonida Bissolati. Ma si sarebbe trattato solo di 60 vagoni ferroviari spediti in quegli ultimi 4 mesi di guerra.VEDI ANCHE LE TESTIMONIANZE DI CARLO EMILIO GADDAhttp://blog.libero.it/grandeguerra1418/2436788.htmlE DI ALTRI PRIGIONIERI ITALIANIhttp://blog.libero.it/grandeguerra1418/2436809.html