PRIGIONIERI E TRADITI. DALL’ITALIACirca 600mila soldati italiani furono catturati dagli austro-tedeschi, soprattutto dopo Caporetto. Mentre fame e tubercolosi li falciavano nei lager, Roma era riluttante a inviare soccorsi. Un sesto di loro non tornò a casa Nella Prima Guerra Mondiale essere presi prigionieri poteva mettere al riparo dal rischio di farsi tagliare la testa da una mitragliata, ma condannava a mesi o anni di stenti, freddo e malattie, che troppo spesso risultavano mortali. La situazione era difficile soprattutto per i prigionieri italiani, o comunque dei Paesi dell’Intesa, perchè Austria e Germania non disponevano generalmente di cibo sufficiente per alimentarli in modo adeguato. Chiusi nel bel mezzo del continente europeo e circondati da nemici che erano padroni delle rotte oceaniche, gli Imperi Centrali morivano letteralmente di fame e faticavano a nutrire la loro stessa popolazione, figuriamoci i nemici catturati. All’inizio non ci si era posti il problema, poichè nell’agosto 1914 ci si aspettava che il conflitto sarebbe durato pochi mesi. Ci si rifaceva all’articolo 7 della Convenzione dell’Aja (1907), che era assai chiaro in proposito: il mantenimento dei prigionieri spettava al Paese ospitante. Il prolungarsi della guerra, e in particolare, dal novembre 1914, la recrudescenza dello stato di blocco contro gli Austro-Tedeschi, avevano però aggravato la situazione dei prigionieri. Nel 1915 la denutrizione nei campi di prigionia germanici era ormai preoccupante. Le famiglie e la Croce Rossa Internazionale inviavano pacchi privati, che però non erano sufficienti e comunque, non essendo coordinati, creavano problemi di distribuzione. Finalmente, dall’aprile 1916 la Francia e la Gran Bretagna compresero che le regole della Convenzione dell’Aja erano ormai superate in una guerra di massa in cui gli internati assommavano ad alcuni milioni. I governi di Parigi e Londra si decisero a finanziare e organizzare la spedizione nei lager nemici di derrate destinate ai prigionieri. Così salvarono la vita a migliaia di loro cittadini, nonchè, previo accordo con altri governi, a molti russi, belgi e serbi. Lo Stato italiano, invece, continuò ostinatamente a rifugiarsi dietro quel maledetto articolo 7, rifiutando per quasi tutta la guerra interventi diretti a sostegno dei nostri uomini e in pratica condannandone molti a morte.STRAGE DI INERMINon si saprà mai l’esatto ammontare delle perdite fra i nostri prigionieri, anche perchè vi è incertezza sulle stesse cifre dei sopravvissuti. Ma una cosa è certa: nei lager nemici gli internati del nostro Paese morivano in proporzione molto maggiore rispetto a quelli delle altre nazioni (esclusi i Russi, che erano stati catturati in più di due milioni ed erano quindi, oggettivamente, i più ardui da sfamare). Andiamo con ordine. Dal maggio 1915 al novembre 1918 gli Italiani catturati dal nemico furono circa 600.000. Di questi, oltre un sesto non tornò più a casa. Qualcuno in verità aveva preferito stabilirsi in Austria, ma per la maggior parte erano morti a causa degli stenti, soprattutto edema da fame, e della tubercolosi, aggravata dalla denutrizione. Scendendo a dati più precisi, le fonti ufficiali austriache e tedesche parlano di 587.000 prigionieri italiani, mentre una relazione indirizzata nel luglio 1919 al generale Albricci fa ascendere il loro numero a 620.000. Fra loro, i morti sarebbero “solo” 50.000 secondo l’Austria. Ma Vienna, stando a quanto dichiarato dalla Commissione del Governo italiano sulle Violazioni dei diritti delle genti, avrebbe omesso dal conteggio i decessi avvenuti nei lager dell’Ungheria, della Boemia e della Slovenia. La Commissione italiana rilevò dal canto suo oltre 60.000 morti fra gli internati nell’Impero Austro-ungarico, più altri 30.000 sparsi fra Germania, Turchia e Bulgaria. Sfioriamo dunque i 100.000 morti totali, anche se la Commissione riportò testimonianze non confermabili riguardanti addirittura 150.000 decessi di Italiani catturati. Ancora nel maggio 1920, un’apposita Missione italiana si sarebbe recata a Vienna nel tentativo di stabilire una cifra esatta, solo per commentare che era “un’impresa impossibile”. Anche se non lo sapremo mai con precisione, possiamo comunque dare per assodata una cifra intorno ai 100mila morti, il che conferma la proporzione di circa un sesto sul totale degli internati. E’ un tasso di mortalità altissimo per dei prigionieri, soprattutto se confrontato con quello dei detenuti di altri Paesi. Di tutti i Francesi prigionieri in Germania, anch’essi aggirantesi sui 600.000 totali, ne morirono “solo” 18.000. Fra i prigionieri austro-ungarici detenuti in Italia, poi, i morti furono 14.000 su quasi 480.000. Sono tassi di decesso di appena il 3 %, circa, quando quello degli Italiani sfiorava invece il 17 %. Se consideriamo che i morti totali subiti dall’Italia nella Grande Guerra furono 600mila su 6 milioni di uomini mobilitati, vale a dire il 10%, ne conveniamo che, paradossalmente, per i nostri soldati c’era più probabilità di morire in prigionia che al fronte.
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PRIGIONIERI E TRADITI. DALL’ITALIACirca 600mila soldati italiani furono catturati dagli austro-tedeschi, soprattutto dopo Caporetto. Mentre fame e tubercolosi li falciavano nei lager, Roma era riluttante a inviare soccorsi. Un sesto di loro non tornò a casa Nella Prima Guerra Mondiale essere presi prigionieri poteva mettere al riparo dal rischio di farsi tagliare la testa da una mitragliata, ma condannava a mesi o anni di stenti, freddo e malattie, che troppo spesso risultavano mortali. La situazione era difficile soprattutto per i prigionieri italiani, o comunque dei Paesi dell’Intesa, perchè Austria e Germania non disponevano generalmente di cibo sufficiente per alimentarli in modo adeguato. Chiusi nel bel mezzo del continente europeo e circondati da nemici che erano padroni delle rotte oceaniche, gli Imperi Centrali morivano letteralmente di fame e faticavano a nutrire la loro stessa popolazione, figuriamoci i nemici catturati. All’inizio non ci si era posti il problema, poichè nell’agosto 1914 ci si aspettava che il conflitto sarebbe durato pochi mesi. Ci si rifaceva all’articolo 7 della Convenzione dell’Aja (1907), che era assai chiaro in proposito: il mantenimento dei prigionieri spettava al Paese ospitante. Il prolungarsi della guerra, e in particolare, dal novembre 1914, la recrudescenza dello stato di blocco contro gli Austro-Tedeschi, avevano però aggravato la situazione dei prigionieri. Nel 1915 la denutrizione nei campi di prigionia germanici era ormai preoccupante. Le famiglie e la Croce Rossa Internazionale inviavano pacchi privati, che però non erano sufficienti e comunque, non essendo coordinati, creavano problemi di distribuzione. Finalmente, dall’aprile 1916 la Francia e la Gran Bretagna compresero che le regole della Convenzione dell’Aja erano ormai superate in una guerra di massa in cui gli internati assommavano ad alcuni milioni. I governi di Parigi e Londra si decisero a finanziare e organizzare la spedizione nei lager nemici di derrate destinate ai prigionieri. Così salvarono la vita a migliaia di loro cittadini, nonchè, previo accordo con altri governi, a molti russi, belgi e serbi. Lo Stato italiano, invece, continuò ostinatamente a rifugiarsi dietro quel maledetto articolo 7, rifiutando per quasi tutta la guerra interventi diretti a sostegno dei nostri uomini e in pratica condannandone molti a morte.STRAGE DI INERMINon si saprà mai l’esatto ammontare delle perdite fra i nostri prigionieri, anche perchè vi è incertezza sulle stesse cifre dei sopravvissuti. Ma una cosa è certa: nei lager nemici gli internati del nostro Paese morivano in proporzione molto maggiore rispetto a quelli delle altre nazioni (esclusi i Russi, che erano stati catturati in più di due milioni ed erano quindi, oggettivamente, i più ardui da sfamare). Andiamo con ordine. Dal maggio 1915 al novembre 1918 gli Italiani catturati dal nemico furono circa 600.000. Di questi, oltre un sesto non tornò più a casa. Qualcuno in verità aveva preferito stabilirsi in Austria, ma per la maggior parte erano morti a causa degli stenti, soprattutto edema da fame, e della tubercolosi, aggravata dalla denutrizione. Scendendo a dati più precisi, le fonti ufficiali austriache e tedesche parlano di 587.000 prigionieri italiani, mentre una relazione indirizzata nel luglio 1919 al generale Albricci fa ascendere il loro numero a 620.000. Fra loro, i morti sarebbero “solo” 50.000 secondo l’Austria. Ma Vienna, stando a quanto dichiarato dalla Commissione del Governo italiano sulle Violazioni dei diritti delle genti, avrebbe omesso dal conteggio i decessi avvenuti nei lager dell’Ungheria, della Boemia e della Slovenia. La Commissione italiana rilevò dal canto suo oltre 60.000 morti fra gli internati nell’Impero Austro-ungarico, più altri 30.000 sparsi fra Germania, Turchia e Bulgaria. Sfioriamo dunque i 100.000 morti totali, anche se la Commissione riportò testimonianze non confermabili riguardanti addirittura 150.000 decessi di Italiani catturati. Ancora nel maggio 1920, un’apposita Missione italiana si sarebbe recata a Vienna nel tentativo di stabilire una cifra esatta, solo per commentare che era “un’impresa impossibile”. Anche se non lo sapremo mai con precisione, possiamo comunque dare per assodata una cifra intorno ai 100mila morti, il che conferma la proporzione di circa un sesto sul totale degli internati. E’ un tasso di mortalità altissimo per dei prigionieri, soprattutto se confrontato con quello dei detenuti di altri Paesi. Di tutti i Francesi prigionieri in Germania, anch’essi aggirantesi sui 600.000 totali, ne morirono “solo” 18.000. Fra i prigionieri austro-ungarici detenuti in Italia, poi, i morti furono 14.000 su quasi 480.000. Sono tassi di decesso di appena il 3 %, circa, quando quello degli Italiani sfiorava invece il 17 %. Se consideriamo che i morti totali subiti dall’Italia nella Grande Guerra furono 600mila su 6 milioni di uomini mobilitati, vale a dire il 10%, ne conveniamo che, paradossalmente, per i nostri soldati c’era più probabilità di morire in prigionia che al fronte.