In memoriam

Post N° 31


Questa intervista è stata realizzata nell'ottobre 2004. A quanto ne so, Delfino è ancora vivo. Se qualcuno ha notizie...DELFINO, CLASSE 1898: «VI RACCONTO LA MIA GUERRA»Nato a Turago Bordone (Pavia), il bersagliere Borroni ha combattuto sugli Altipiani e ha vissuto la drammatica ritirata di Caporetto, finendo prigioniero degli austro-tedeschi.  Ecco la sua storiadi ELENA PERCIVALDIPer chi si occupa di Storia per lavoro e per  passione, poterla incontrare e, addirittura,  poterle parlare è un’esperienza incredibile, che difficilmente si può trasmettere a parole. Non tutti sono così fortunati da poterlo fare. Noi invece sì. Pochi giorni fa  la Storia  l’abbiamo vista in faccia, l’abbiamo interrogata, l’abbiamo addirittura abbracciata, baciata e  anche ringraziata. La Storia, lunedì, in una mattinata di ottobre freddina e un po’ velata, si è materializzata in una casa di riposo di Castano Primo, paesotto insubre ai confini tra le lande di Novara, Milano e Varese,  nel volto scavato e nelle mani bianche  di Delfino Borroni.  Nato il 23 agosto di un lontanissimo 1898 a Turago Bordone, provincia di Pavia, Delfino è uno degli ormai pochissimi reduci della Grande Guerra. Quel conflitto immenso, assurdo e terribile che novant’anni fa, tra il 1914 (1915 per l’Italia) e il 1918, vide scannarsi tra  loro popoli e genti diverse e finire i propri giorni nelle trincee e sui campi di battaglia il fior fiore della gioventù di tanti paesi del mondo. La prima guerra della modernità con le sue armi di distruzione in serie, le sue condizioni di vita disumane, la  sua morte di massa. Di quella generazione perduta, di quei giovani ormai polvere dimenticata Delfino porta con sé ogni giorno il ricordo, e di quella tragedia che inghiottì  oltre nove milioni di uomini ha negli occhi ormai spenti alla luce del sole quasi le stimmate. Potergli parlare e potergli stringere le mani per noi è stato un onore, poter raccontare la sua storia in queste pagine dedicate al  ricordo di quei tragicissimi eventi è  un dovere morale oltre che giornalistico e documentario. Perché quella guerra e i suoi protagonisti non devono essere dimenticati. Delfino fu chiamato alle armi nei primi mesi del 1917. Faceva il meccanico e aveva diciannove anni.  Bersagliere ciclista, sarebbe stato congedato il 16 ottobre 1920.  Mentre era in guerra ebbe modo di conoscere l’orrore delle trincee e il freddo degli Altipiani, di vedere la morte di nemici e  commilitoni, di sperimentare la paura e il coraggio, di vivere  in prima persona la disfatta di Caporetto e la prigionia in mano al nemico. Delfino, quindi, è la memoria storica di un’epoca sempre più lontana. La  lucidità straordinaria di questo centoseienne ci ha sconvolto, tanto quanto i suoi ricordi. Quando inizia l’intervista, Delfino si avvicina e mi prende la mano. Quando gli parlo, lo devo fare da vicino perché fa fatica a sentire. Ma quando incomincia a raccontare, è un fiume in piena.  Che non si può fermare.  «Sono stato chiamato alla visita - parte in quarta -  il 7 gennaio 1917 e subito mi hanno destinato al 6° Bersaglieri  a Bologna. La chiamata alle armi è arrivata a marzo, e a metà maggio partivo per il fronte. Alla fine del mese, ai primi di giugno, dopo aver  aspettato con i feriti e i convalescenti, mi hanno caricato sul treno prima per Castelfranco Veneto, poi per Bassano: passando oltre il ponte sul Brenta, sono arrivato a   Marostica  e da qui, zaino in spalla, fino  ad Asiago.  Dopo una sosta  di qualche giorno in certe baracche, ecco che mi hanno spedito sull’Altopiano. Tre, quattro giorni sono passati senza che noi si facesse niente, poi all’improvviso mi hanno spedito sul Pasubio e qui per me  è iniziata la guerra, quella vera. I tedeschi a metà pomeriggio ci hanno attaccato per due volte, e per due volte li abbiamo respinti. E qui ci siamo bloccati. Non si andava più né avanti né indietro.  Ma gli attacchi sono andati avanti, eccome. Tre volte sul Monte Maio, due proprio sul cocuzzolo  e una sul fianco destro. C’erano sassi e rocce dovunque, si passava uno alla volta. A Cismon c’erano le batterie. Ricordo una pineta, e davanti a noi, a una trentina di metri, un campo pieno di sassi. Una sera  un gruppo di alpini che portava i rifornimenti e il rancio al reggimento si era smarrito in mezzo a tutta quella confusione. Ricordo bene le loro voci che chiamavano il reggimento, e subito dopo una raffica e poi più niente. Un macello. Avevamo una gran fame. Sono uscito cercando di fare più silenzio possibile, senza farmi vedere. Ho visto lì per terra la marmitta col rancio e l’ho aperta... C’era dentro del riso, duro, gelato come il marmo. L’ho mangiato con le mani». Delfino parla e racconta, noi lo lasciamo fare in religioso silenzio. Abbiamo quasi paura ad interromperlo. Paura di fermare l’incanto, di spezzare il filo della sua memoria prodigiosa.  Nella stanza ci sono il figlio Angelo, 66 anni, la figlia Erminia, 76, la giovane moglie del nipote Silvia e il piccolo Filippo, 10 mesi, il pronipote. Vivacissimo, capelli biondi e due occhioni grandi così, sarà l’unico a portare il cognome  del bisnonno.   Filippo è un po’ irrequieto, gioca con la madre e ogni tanto cinguetta allegramente e sbatte i piedi, ma Delfino non sembra farci caso. E va avanti lungo la  strada dei ricordi. «Via di là  - continua  - sono stato mandato a Cismon, poi in un sacco di altri posti. Continuavo a girare di qua e di là. A settembre sono arrivato in Valsugana. Qui, ricordo,  c’era in pianura una stazione piena di mucche, e distribuivano le pagnotte: una costava 15 centesimi, e ne davano una a testa e una soltanto. Io avevo fame, sempre fame. Allora mi sono presentato  con la divisa, e ho preso la mia pagnotta. Poi ho provato a rifare la fila smanicato... e sono riuscito a prenderne una seconda. Quella volta lì sono stato fortunato».Delfino, quando ha visto le trincee per la prima volta? «A Cima 11 e Cima 12, ma siamo rimasti lì poco perché non c’era bisogno di noi, così è arrivato l’ordine di tornare indietro. Il 20 ottobre in tradotta siamo andati a Cividale, poi il 21 siamo riusciti a fare rifornimento di munizioni e di viveri secchi: quattro  gallette di numero e due scatolette. L’ordine era di conservarli, di tenerli da parte perché non si sapeva né quando, né se avrebbero potuto darcene altri. Poi, su per i monti. La notte tra il  21 e il 22 l’abbiamo passata mangiando castagne, il 23 ottobre  verso le 2 del mattino  depositiamo gli zaini e poi via verso Caporetto.  Me lo ricordo benissimo, erano più o meno le 9. Mentre lasciamo il monte si scatena una tormenta. Vento e acqua gelata. Ci troviamo di fronte una montagna senza piante né rocce, nuda, brulla. Un freddo cane. Ma noi niente, avanti. Siamo arrivati in cima verso mezzanotte. Nel silenzio sentivamo lavorare il nemico». Era la vigilia della rotta di Caporetto...«Lì davanti la Germania e l’Austria  avevano portato truppe e mezzi, avevano 140 uomini tra austroungarici e balcanici. All’improvviso, un grido ad alta voce: «Innestate le baionette, sott’ ragazzi, forza ragazzi!». E via, addosso. Ci scagliamo contro il nemico, al buio. Loro si piegano, il nostro coraggio invece aumenta. All’alba ci portano giù a far resistenza  nella valle che porta a Caporetto. Mentre si faceva chiaro si vedeva un formicaio di gente:  erano le  truppe nemiche di rincalzo che arrivavano da Caporetto...    Il mio capitano fa schierare la sezione mitraglieri: c’erano tre mitragliatrici, ma senza munizioni. Sopra di noi gli austriaci  dominavano la valle e sotto, dove tentavamo di fare resistenza, eravamo di nuovo sotto il tiro delle mitraglie.  Arriva il maggiore a cavallo per preparare le munizioni, ma...».Ma ormai eravate in ritirata...«Sì. Ma siamo riusciti lo stesso a fare circa 800 prigionieri. Alcuni si sono arresi subito, altri hanno cercato di scappare e sono stati inseguiti e presi  su una piccola altura. C’era una trincea scavata nel mezzo, ci siamo rintanati lì tutti a ferro quasi scoperto.  Verso mezzogiorno il mio sergente, Mosconi Luigi di Como,  mi ordina di andare fuori a vedere com’è la situazione.  Io rispondo: «Muscon,  te me mandet a murì!», e lui mi dice: «Morire per morire, in guerra sì sì». Io non ho mai disobbedito. Con grande dispiacere ho girato la testa. Il mio riparo era solo un palmo di terra. Ero con la pancia per aria.  Lì davanti c’erano i corpi di due tedeschi morti. Li ho rotolati uno vicino all’altro, erano  ancora caldi. Mi spostavo cercando di vedere dove c’era più erba e dove c’erano le rocce, mi portavo avanti piegando le gambe e raddrizzandole ogni 5 o 6 metri, e intanto facevo girare gli occhi. Ad un certo momento vedo delle ombre che arrivano quasi fino a dove ero io. Le accompagnavo con lo sguardo.  Vedevo le sagome di teste alzarsi e abbassarsi, vedevo le tre piante delle mitraglie, il fusto coperto dai rami e dalle foglie appassite, il sole passare attraverso le fessure della trincea. Erano le truppe nemiche che camminavano avanti e indietro.  Allora  io, bocca a terra e sottovoce per non fami sentire da loro: «Sono qui tutti pronti!». I miei non hanno capito. L’ho ripetuto una seconda volta,  ma non più forte. Pensavo che i miei volessero dare l’assalto, non sapevo se stare fermo al buio o tornare da loro. Dopo pochi secondi sento la voce del sergente giù lungo la valle che mi grida: «Borroni, Borroni, si salvi chi può!». Io penso: «Se sto in piedi mi fanno fuori». Davanti a me vedevo in lontananza le case di Caporetto». Poi cosa è successo?«Nel momento in cui la testa nemica più vicina che avevo davanti si è abbassata, ho tentato lo slancio di fuga: mi alzo, metto il piede in presa su un sasso, proprio lì in mezzo ai due morti... Alla mia sinistra parte una mitragliata quasi a bruciapelo. Sento due pallottole. Una mi colpisce il calcio del fucile, l’altra al piede destro.   Lo giuro davanti a Dio. Quel colpo mi ha portato via il tallone. Perdo l’equilibrio, cado e sbatto per terra. Allora faccio passare un po’ di tempo fingendomi morto. Appena mi riprendo un poco, barcollando e rotolando tento di riportarmi nel posto dove sono partito. A destra e a sinistra le truppe nemiche mitragliavano e avanzavano chiudendomi in cerchio. Sempre sotto il fuoco incrociato vedo un torrente. Inizio a salire sulla montagna  arrampicandomi come posso,  con le mani e con i piedi, mentre sento le pallottole passare sopra la mia testa e  infilarsi nella terra spruzzandomi addosso la  polvere. Io restavo rasente  terra. Respirando affannosamente,  arrivo in cima, poi di corsa, veloce come non mai, via per  la discesa, a rotta di collo. Prendo il fucile con la mano sinistra e me lo infilo sotto il corpo,  il tascapane alla destra, e  giù a rotoloni senza sapere dove andavo a finire. Da lontano il sergente, il maresciallo  e gli altri soldati mi guardavano  arrivare. Appena dentro, il maresciallo mi prende la testa tra le mani dicendomi: «Borroni, d’ora in poi ti chiamerò scoiattolo! Ma lo sai che davvero nessuno  sarebbe tornato vivo da dove ti abbiamo mandato?».  Tolgo allora la scarpa destra e gliela presento, facendo vedere la sbavatura del sottopiede. «Maresciallo - gli dico -,  questa è stata la mia salvezza. Se non fossi caduto mi avrebbero fatto un’altra scarica, invece è successo un miracolo».  Mi risponde: «Se cessa questa burrasca ti do la medaglia al valore»». Ma  purtroppo la burrasca non è cessata.«Ed eravamo sempre di meno. Il 28 ottobre, alla  mattina verso le 5 e poi verso le 8, tentiamo le ultime due resistenze. Prendiamo i pacchetti con le munizioni e i caricatori, io ho male ai piedi, piove e fa freddo. Salgo su una catasta di ghiaia e vedo due che scappano.  Parte una scarica, io vedo una cinta davanti a una roggia e salto dentro per ripararmi. E chi ci trovo? Due tedeschi, uno basso e grassoccio, l’altro più alto e magro. Appena mi vedono cominciano a picchiarmi con il fucile. Quello dei due più alto era un bambino, non aveva neanche la barba. Mentre ero lì il mio capitano moriva, falciato da una mitragliata che lo ha colpito al bacino, e il suo attendente veniva ferito, aveva tutte e due le gambe stritolate.  Il tedesco mi guarda in faccia e mi dice: «Camerata buono». Mi dice di prendere l’attendente e di portarlo via.  Sul monte Maio facevamo i reticolati. Lui aveva la pinza. Avrà avuto quattro, cinque anni più di me ed era meridionale. Mi chiedeva perdono, non so per cosa. Aveva le gambe stritolate. Quel poveraccio l’ho portato via io.  Ed è stato quello il momento più brutto». Quindi, dopo Caporetto l’hanno presa prigioniero.«Mi hanno portato prima a Portogruaro, poi a Pordenone e infine in Austria. A piedi. In tutto, sono stato prigioniero un anno. Il primo giorno, lo ricordo bene, ero all’ospedale a portare i feriti. Più o meno, andava tutto bene.  Ma dopo due giorni è arrivata la truppa balcanica e noi ci hanno mandato in Veneto a scavare le trincee per gli austriaci. Una mattina, a Vittorio Veneto, c’erano le guardie, il calzolaio, il sarto, il parrucchiere. Andavano a fare le requisizioni dai contadini con le guardie e poi preparavano da mangiare. Io avevo la febbre. Lo sa che i pidocchi, quando uno ha la febbre, scappano via? Io ero talmente spossato che mi sono appoggiato al muro. Una delle guardie mi ha preso per la spalla e mi ha dato prima una pedata e poi un calcio, così forte che mi è sembrato che mi entrasse un ago nel polmone. Ho pensato: «O muoio, o sopporto il male». Sono rimasto a terra per un’ora a soffrire come un cane, finché non è arrivato un portaferiti. C’era un ufficiale che parlava italiano. Io gli ho detto che stavo male, che avevo la febbre. Mi ha visitato, io ho tolto la giacca e lui ha visto che avevo una macchia nera dietro sul collo,  e mi ha dato otto giorni di riposo. Alle due è tornato e mi ha messo nel pollaio: non c’erano animali, era pulito e asciutto, il pavimento ricoperto di paglia. A quei tempi capivo un po’ di tedesco. Ho sentito quando è uscito e si è messo ad urlare con la guardia, gli ha detto di tutto».Delfino, lei ha cercato varie volte di scappare.«La prima volta  da Vittorio Veneto. C’era una carrozza vicino al campo, l’ho presa, sono salito e ho imboccato un sentiero.   Purtroppo, mi sono imbattuto in una pattuglia di gendarmi che mi hanno catturato di nuovo e rinchiuso in un granaio. Mi hanno sbattuto  nel piano alto. Sulla parete, ricordo,  c’era un finestrone a forma di mezzo sole e davanti riuscivo a vedere una pianta di fico i cui rami arrivavano proprio lì, davanti all’apertura. Facendo poco rumore mi sono calato giù e via per i campi. C’era una gran nebbia, non si vedeva niente. All’improvviso spunta una figura d’uomo. Portava davanti a sé una carriola, ma non mi vedeva per via della foschia. Io lo seguo in silenzio finché non arriva davanti a una stalla. A quel punto gli vado incontro e gli chiedo se ha un lavoro da darmi. «Sei prigioniero?», mi chiede a sua volta. «Sì». «Mi dispiace, non si può. Viene lì quella gente, e i prigionieri  che scappano li porta via e li ammazza». Stavo per andarmene quando dalla porta esce una donna, sua moglie, con un paiolo di polenta fumante. Sulla sommità ci aveva scavato un buco e l’aveva riempito di fagioli. «Ah, signora - le dico -,  io con questo ben di Dio campo quindici  giorni».  Finito  di mangiare, riprendo la strada. Dopo una quindicina di chilometri arrivo a Sacile e vedo una donna in un prato. Era lì che scavava i gelsi, liberava il terreno dalle piante. Le chiedo se posso lavorare con lei. «Non ne  ho di sghèi», mi dice.  Dopo aver levato due o tre gelsi, mi ha dato un po’ di polenta. Avevo una fame che non si può dire. Ricordo quando trovavo le patate: si mangiava tutto, scartavo solo le gemme. Alla sera quella donna mi ha preparato dei fichi, un po’ di polenta e una borraccia di vino». Delfino si ferma con lo sguardo fisso nel vuoto, sembra ricollegare i fili del suo pensiero e dopo aver bevuto un sorso d’acqua riprende il racconto.«Di notte, camminando, arrivo all’accantonamento. C’è una sentinella appostata in una scuola, quando mi vede mi ferma e mi strappa il tascapane con tutto quello che c’era dentro. Mi ha rubato tutto, la polenta, il vino... Non ci ho visto più e gli ho tirato una borracciata in faccia. Poi, via veloce come il vento».  Poi, però, l’hanno catturata di nuovo.«Mi hanno sbattuto in cella con due omoni, due cugini grandi e grossi. Uno dei due ha fatto una corda legando i pantaloni, le mutande e la cintura e si è calato giù dal piano indossando solo la camicia. Al mattino è arrivato il capitano a cavallo insieme ad altri ufficiali, e quando hanno visto che uno dei prigionieri non c’era più, si sono messi a cercarlo tutti quanti. Pensi, uno alla volta, su e giù per quella strada... Una volta eravamo stati accompagnati in cinque o sei alla stazione per prendere in consegna le mucche e portarle al macello. C’erano vari italiani. Io mi ricordo che lì dentro c’era un operaio molto giovane, senza giacca. Avevo fame e avevo non so come del tabacco: gliel’ho dato in cambio di una razione di trippa.  Un bosniaco  se n’è accorto e mi ha fatto la posta, poi mi ha preso la trippa ed è scappato via come un fulmine. Io l’ho seguito. Più avanti c’era un ruscello coperto con alcune fascine di legna e della paglia. Il bosniaco si è messo a lavare la trippa lì dentro, e quando ha finito ha steso gli intestini ai rami di un gelso per far colare l’acqua e asciugarli. Allora io sono andato a chiamare un mio amico di Milano. Si chiamava Turati. Insieme siamo andati nel bosco e ci siamo ripresi il nostro bottino. L’abbiamo  cotto in una latta. Così cucinata, tutta quella trippa l’abbiamo divorata, anzi sbranata. Tutta quanta.  Una volta io ed altri siamo scappati da Cividale a Spilimbergo. Eravamo tanto stanchi. Uno dei miei compagni aveva la spagnola, le sue labbra erano bluastre.  Ci siamo nascosti in un cimitero, poi lungo la ferrovia e infine in un campo dove il grano era ancora lì, tutto da cogliere. Me lo ricordo bene, abbiamo raccattato solo fagioli secchi. Lì accanto c’era una sentinella romena che dormiva russando. In tasca aveva un pacchetto di caffè. Io mi sono avvicinato e, usando uno spago di fortuna, sono riuscito a sfilargli il pacchetto senza che lui se ne accorgesse. Quando smetteva di russare io mi fermavo. Pian piano ce l’ho fatta. Erano gli ultimi estremi della guerra, eravamo stanchi, stremati. Ricordo una giovane donna che lavorava nel campo e ci ha  trovato un ricovero nella stalla. La stalla era vuota, non c’erano più animali. Per nasconderci  ha sistemato un pagliericcio sotto la botola che conduceva al fienile, e poi ha messo il cane di guardia. Ad un certo punto il cane ha cominciato ad abbaiare. Ricordo il rumore dei fucili delle sentinelle, le baionette innestate. Ma per fortuna  se ne sono andati. Così, all’alba, con un  gran freddo, siamo scappati via verso un altro campo che sembrava più sicuro. Stavolta era senza grano, c’erano solo mucchi di sterpaglie. Verso le otto del mattino vediamo uscire la donna con il caffè e la polenta. Noi la chiamiamo, lei  viene verso di noi e ci dice: «Dovete andarvene. Ieri sera i tedeschi sono entrati nella stazione,  hanno preso dieci persone e le hanno fucilate»».  Quando e come è riuscito a tornare a casa? «Siamo arrivati al concentramento a Piacenza, ricordo che siamo stati interrogati  vicino al fiume Trebbia. Pensi un po’, ci hanno accusato di tradimento. A noi, a quelli della 4ª Brigata d’assalto, quella del sergente Mosconi! Lì siamo rimasti più di venti giorni. Ci hanno dato mezza pagnotta,  un pezzo di sapone e dei vestiti di tela, poi ci hanno detto: «Per voi non ci sono tradotte!», così  siccome sui treni passeggeri non potevamo salire,  per tornare  a casa da Piacenza siamo dovuti andare a piedi. Sulla strada siamo arrivati nei pressi di un albergo. Eravamo in tre e l’oste ci ha dato un po’ di minestra, del pane e mezzo litro di vino. Distavamo una ventina di chilometri da Castel S. Giovanni, quindi ci siamo incamminati sulla provinciale decisi ad arrivare in qualsiasi modo a Pavia.  Mentre camminavamo, abbiamo sentito il fischio del treno. Era il caro vecchio  “Gamba de legn”! Ci precipitiamo verso la fermata, chiediamo di salire per raggiungere Voghera. Lì c’era un muretto di cinta. A questo punto io e i miei compagni ci dividiamo. Loro vanno in città. Io, invece,  scavalco il muretto e salgo sul treno merci, anche se mi dicono  che non ferma a Pavia. Passo il viaggio in attesa. Ad un certo punto, mentre sono sul treno, vedo davanti a me Pavia e senza neanche pensarci salto giù. Alla una ero a Voghera, alle tre ero a casa mia. Mia mamma, me lo ricordo bene, era sempre lì che aspettava il mio ritorno.  Quando l’ho vista, da lontano, l’ho chiamata. Povera donna, non riusciva neanche ad aprire la porta. Dopo pochi minuti la mia casa si è riempita di gente. Mancavano solo tre giorni a Natale». Lei è tornato, ma molti altri no. Ricorda qualcuno in particolare che non ha più visto dopo la guerra? «Mi fratello Davide aveva nove anni più di me, ha combattuto in  forza all’aviazione e per fortuna è tornato a casa. Io mio amico Davide, invece, non è stato così fortunato. Era benestante, aveva studiato. Si era arruolato come volontario ed era riuscito a diventare tenente. Un giorno, un colpo di granata ha portato via quattro o cinque uomini del suo reparto. E tra di loro c’era anche lui».Cosa ricorda delle trincee?«Che era dura. Eccome. Poco cibo, scarso, un po’ di riso o pasta, del grana, del caffè... E che freddo!  Ma per lo meno era sicura.  Io invece venivo sempre mandato di pattuglia. Gli altri cercavano di evitare, dicevano di avere famiglia, dei figli... Io avevo diciannove anni, e mi usavano come un cane da caccia. Proprio così: un cane da caccia. Io non mi sono mai rifiutato. Mai! E nonostante tutto sono tornato.  Ora ho più di cent'anni, la mia vita l’ho vissuta e tutto questo lo posso raccontare». Termina l’intervista, alla casa di riposo è ora di pranzo e Delfino è da più parti richiamato a gran voce. Il piccolo Filippo e la sua mamma sono andati a casa da un pezzo, Erminia e Angelo devono anche loro tornare ai loro impegni quotidiani.  Ma c’è tempo per un ultimo sorriso e un ultimo abbraccio. Ringraziamo  Delfino per quanto  ci ha raccontato, promettiamo che torneremo a trovarlo, gli chiediamo di continuare così, di stare in forma e di cercare di non dimenticare.  Noi, di certo, questa mattinata di ottobre non la scorderemo mai.