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Un blog creato da neottolemo06 il 12/03/2007

In memoriam

1914-18: dedicato al ricordo degli eventi della Prima Guerra Mondiale e alle sue vittime

 
 

IN EVIDENZA

La Guerra Cantata
Tradizione orale e canto popolare nella grande guerra

Pagina a cura della Regione Trentino Alto Adige, con numerose foto e file audio
Contiene le relazioni del convegno svoltosi a Vermiglio (Tn) il 18-19 agosto 2001

http://www.regione.taa.it/giunta/conv/vermiglio/guerra_pag_it.htm

 

LA FOTO

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Interno della chiesa di Livinallongo distrutta dopo i bombardamenti che colpirono la zona dolomitica dal maggio 1915.

L'immagine era esposta nella mostra fotografica sulla Grande Guerra sulle Dolomiti allestita nell'estate del 1995 da Luciana Palla e Raffaele Irsara nel Comune di Livinallongo,  proprio alle pendici di quel Col di Lana che significativamente fu ribattezzato "Col di sangue".

VISITA LA MOSTRA:
http://www.webdolomiti.net/Luciana_Palla/vicende_di_guerra.htm

 

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APPUNTAMENTI

La Grande Guerra in Friuli
Storie e memorie
dal 10 marzo al10 aprile 2007

Cave del Predil, Chiusaforte - Sella Nevea, Timau, Malborghetto, Osoppo, Ragogna, San Daniele del Friuli, Grimacco, Cividale del Friuli, Udine, Campoformido, Palmanova, Tapogliano, Aquileia

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Mostre, convegni e iniziative varie per ricordare la Grande Guerra in Friuli

Per informazioni e programma, visita il sito:
http://www.militaryhistoricalcenter.org/

 

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NOTIZIE

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LA LEGGENDA DEL PIAVE

Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio
dei primi fanti il ventiquattro maggio;
l'esercito marciava per raggiunger la frontiera
per far contro il nemico una barriera!

Muti passaron quella notte i fanti,
tacere bisognava andare avanti.

S'udiva intanto dalle amate sponde
sommesso e lieve il tripudiar de l'onde.
Era un presagio dolce e lusinghiero.
Il Piave mormorò: Non passa lo straniero!

 Ma in una notte triste si parlò di un fosco evento
e il Piave udiva l'ira e lo sgomento.
Ahi, quanta gente ha visto venir giù, lasciare il tetto,
poichè il nemico irruppe a Caporetto.

Profughi ovunque dai lontani monti,
venivano a gremir tutti i suoi ponti.

S'udiva allor dalle violate sponde
sommesso e triste il mormorio de l'onde.
Come un singhiozzo in quell'autunno nero
il Piave mormorò: Ritorna lo straniero!

E ritornò il nemico per l'orgoglio e per la fame
volea sfogare tutte le sue brame,
vedeva il piano aprico di lassù: voleva ancora
sfamarsi e tripudiare come allora!

No, disse il Piave, no, dissero i fanti,
mai più il nemico faccia un passo avanti!

Si vide il Piave rigonfiar le sponde
e come i fanti combattevan l'onde.
Rosso del sangue del nemico altero,
il Piave comandò: Indietro va, o straniero!

Indietreggiò il nemico fino a Trieste fino a Trento
e la Vittoria sciolse l'ali al vento!
Fu sacro il patto antico, tra le schiere furon visti
risorgere Oberdan, Sauro e Battisti!

 Infranse alfin l'italico valore
le forche e l'armi dell'Impiccatore!

Sicure l'Alpi, libere le sponde,
e tacque il Piave, si placaron l'onde.
Sul patrio suolo vinti i torvi Imperi,
la Pace non trovò né oppressi, né stranieri.

E. A. Mario

 

GLI EDITORI

NORDPRESS EDIZIONI:
http://www.nordpress.com/
Di Montichiari (Bs), edita una collana di libri dedicati alla Prima Guerra Mondiale e una pregevole collana "Sui campi di battaglia"

GASPARI EDITORE
http://www.gasparieditore.com/
Di Udine, pubblica saggi e interessantissime testimonianze sulla Grande Guerra

EDIZIONI GINO ROSSATO
http://www.edizionirossato.it/
Specializzato in opere di Storia Militare presenta un ricco catalogo di opere e raccolte fotografiche sulla Prima e Seconda Guerra Mondiale

 
LIBRERIA EDITRICE GORIZIANA (LEG)
http://www.leg.it/
Libreria antiquaria ed editrice, pubblica saggi e testimonianze sulla Grande Guerra

MURSIA
http://www.mursia.com/
Ha in catalogo numerose testimonianze e saggi sul periodo 1914-1918



 

 

Post N° 26

Post n°26 pubblicato il 27 Marzo 2007 da neottolemo06
 

In ottocento sulle orme di Battisti

Quando iniziarono le ostilità fra l’Austria-Ungheria e l’Italia, furono relativamente pochi i Trentini che disertarono dall’esercito di Vienna per arruolarsi in quello italiano. E’ vero che ai più mancarono occasioni propizie, dato che per la maggior parte vennero schierati lontano dalle Alpi, sulle frontiere con la Russia. Ma resta il fatto che le esigue cifre pongono più di un interrogativo sulla effettiva popolarità dell’irredentismo. Al maggio 1915 erano circa 650 quelli che erano fuggiti dall’Impero per indossare l’uniforme del Regio Esercito. A essi, nei successivi tre anni di guerra se ne sarebbero aggiunti altri 150. In totale furono dunque non più di 800 i volontari trentini che, sensibili alle idee propagandate dal loro conterraneo Cesare Battisti, scelsero l’Italia.
immagineL’arcinoto Battisti, nato nel 1875, guidava i socialisti del Trentino, di cui dirigeva il giornale “Il Popolo”, ed era stato perfino eletto deputato nel 1911 al Parlamento di Vienna, battendosi per l’autonomia amministrativa del suo territorio. Allo scoppio della guerra fu il capofila dell’irredentismo militante che portò quei ragazzi alla diserzione. Egli stesso recise il legame di fedeltà con l’Austria di “Cecco Beppe” e si arruolò volontario nei nostri Alpini. Nel secondo anno di guerra, durante i combattimenti della “Strafexpedition” sull’altipiano di Asiago, fu catturato dagli Austro-Ungarici, e la sua sorte potè dirsi segnata. Venne condannato a morte come traditore della patria asburgica e impiccato il 12 luglio 1916 nel Castello del Buon Consiglio di Trento.
Stesso destino subirono i suoi seguaci più famosi, Fabio Filzi e Damiano Chiesa, così come altri Trentini “italiani” che ebbero la sventura di essere catturati dal nemico. Furono 103 i caduti fra i Trentini del Regio Esercito. Era un’alta percentuale di quei volontari, circa un ottavo del totale, ad aver perso la vita. Segno senza dubbio di un coraggio da leoni, ma in cifre assolute erano, ripetiamo, solo 800 e ci si domanda quale potesse essere la reale presa dell’irredentismo. Va considerato che tra il 1915 e il 1918, oltre alle poche centinaia di disertori, erano presenti sul territorio del Regno d’Italia ben 35.000 fra fuoriusciti e profughi dal Trentino.
Di questi, non tutti saranno stati donne o bambini. Probabilmente in quel periodo doveva quindi esserci in Italia almeno qualche migliaio di Trentini abili all’arruolamento, che però non se la sentirono di offrirsi volontari e rischiare la vita per uno Stato che li ospitava, ma che forse non riuscivano a sentire come la loro patria.    

 
 
 

Post N° 25

Post n°25 pubblicato il 27 Marzo 2007 da neottolemo06
 

immaginePaolo Pozzato - Tibor Balla 
IL PIAVE
L'ultima battaglia della Grande Guerra 
Gino Rossato Editore
pp. 202,  € 19
 


L'ultima battaglia del Piave, quella che nell'ottobre-novembre del 1918 passò alla storia come la battaglia di Vittorio Veneto, consegnò all'Italia la vittoria che ne sanciva l'unità nazionale. Ma segnò al contempo, per chi combatteva sulla sponda orientale del fiume la fine di ogni illusione, il drammatico emergere delle nazionalità, il crollo dell'Impero degli Asburgo. La ricerca comune di uno storico ungherese e di uno italiano restituisce gli ultimi giorni di esistenza di quello che il bollettino Diaz definiva "uno dei più potenti eserciti del mondo". 

 
 
 

Post N° 24

Post n°24 pubblicato il 24 Marzo 2007 da neottolemo06
 

Galizia, Pasubio, Isonzo
Distintivi militari austro-ungarici tra propaganda ed orgoglio di reparto

31 marzo – 21 ottobre 2007

Museo Storico Italiano della Guerra - Castello di Rovereto

 

Venerdì 30 marzo, alle ore 17.30, presso il Museo della Guerra di Rovereto verrà inaugurata la mostra "Galizia, Pasubio, Isonzo. Distintivi militari austro-ungarici tra propaganda ed orgoglio di reparto".
Piccoli oggetti di metallo, prodotti in grande numero durante la Prima guerra mondiale e largamente diffusi tra soldati e civili, i Kappenabzeichen sono stati per anni esclusivo interesse di collezionisti ed appassionati. Ad uno sguardo attento (e ravvicinato) questi documenti rivelano però di essere qualcosa di più che semplici elementi distintivi; oltre ad essere, talvolta, dei veri e propri capolavori artistici, offrono infatti straordinarie testimonianze dell’immaginario patriottico costruito dalla propaganda austro-ungarica.

I Kappenabzeichen sono dei piccoli distintivi metallici, muniti nella parte posteriore di un sistema di attacco con cui potevano essere appuntati sul vestito o sull’uniforme (preferibilmente sul berretto), da militari e da civili. Negli anni della Prima guerra mondiale ne vennero realizzati migliaia di tipi diversi e se ne vendette un numero difficilmente valutabile di esemplari, allo scopo di finanziare l’assistenza alle vedove, agli orfani, ai profughi e agli invalidi. 

I distintivi da berretto ebbero anche lo scopo, attraverso l'appello alla difesa della patria, alla fedeltà all’imperatore, al consenso alle ragioni del conflitto, di stimolare il sentimento patriottico nella popolazione civile e lo spirito di corpo in reparti spesso molto compositi sul piano nazionale e linguistico.  La mostra è accompagnata da una guida al percorso espositivo e dal catalogo con più di 1.000 schede e fotografie di distintivi della collezione del Museo della Guerra e di raccolte private.

 

Per informazioni: Museo Storico Italiano della Guerra - onlus
Via Castelbarco, 7  Rovereto
T 0464 438100
www.museodellaguerra.it
info@museodellaguerra.it

 
 
 

Post N° 23

Post n°23 pubblicato il 20 Marzo 2007 da neottolemo06
 

I soldati dimenticati della Valle Imagna

Il piccolo comune di Sant’Omobono Terme, in provincia di Bergamo, ha recentemente dedicato un'accurata pubblicazione in memoria dei suoi caduti e reduci delle guerre del Novecento. Un esempio da imitare

Nella Valle Imagna, poco più a Nord di Bergamo, sorge Sant’Omobono Terme, un piccolo comune che oggi conta circa 3200 abitanti. Un posto relativamente tranquillo, lontano dal caos delle metropoli moderne. Circa 90 anni fa, quando la Grande Guerra svolgeva le sue sanguinose trame sui fronti di mezza Europa, l’attuale Sant’Omobono era frazionato nei tre comuni di Selino, Cepino e Mazzoleni, che sarebbero stati unificati in una singola entità amministrativa solo nel 1927, in epoca fascista. I tre villaggi dovevano essere centri agricoli collinari come tanti altri in quell’ameno angolo di Lombardia Orientale, dove al tempo degli antenati avevano prosperato i Galli Cenomani. Pochissimi, probabilmente nessuno, i veicoli a motore, ancora rari e preziosi come gemme misteriose e inquietanti. Sentieri e strade sterrate percorsi da carretti trainati da cavalli o buoi, e guidati da contadini carichi di fatica.
Nell’Anno Domini 1915, i paesi bergamaschi in seguito uniti sotto il nome Sant’Omobono dovevano formare uno dei quei luoghi in cui ancora si viveva un tempo quotidiano senza catene, scandito dal susseguirsi dei cicli naturali, dal rincorrersi del sole e della luna, come dal carosello delle stagioni. Uno di quei paesi, insomma, in cui mai e poi mai uno si immaginerebbe che la guerra possa arrivare. Gli abitanti della zona proseguivano la loro placida vita anche se da diversi mesi giungevano notizie sul conflitto che dall’agosto 1914 vedeva già impegnate le maggiori potenze europee. Mentre si campava ripetendo gesti antichi, come intagliare il legno o cavar pietre dal sottosuolo, si sentivano le lontane eco di una catastrofe incredibile. Dai pochi giornali circolanti in quei tempi si apprendeva che da qualche parte, molto lontano dalla propria casa, la tal nave era stata affondata da uno strano battello che navigava sotto la superficie del mare. Altrove, nella mitica Parigi, gli abitanti si erano spaventati a morte perchè un tedesco dal nome difficile era arrivato fin sopra alle loro teste a bordo di uno di quei nuovi affari che volavano come aquile...aeroplani li chiamavano, o qualcosa del genere. In un altro posto, dove correva un fossato lungo molto più che da qui a Bergamo, tanti soldati erano morti soffocati da un diabolico fumo che bruciava gli occhi.  “Dove si sarebbe andati a finire?”, pensavano quei contadini, quegli artigiani, quei minatori...I segnali si fecero sempre più preoccupanti, finchè da una capitale lontana si decise che anche quei tranquilli villaggi sarebbero stati scagliati nel disastro.

UN BRUTTO GIORNO DI PRIMAVERA...

Arrivò così quel brutto giorno di primavera, il 24 maggio 1915, in cui il Regno d’Italia non volle essere da meno delle altre potenze e si buttò a capofitto nella gigantesca rissa fra nazioni. Nei seguenti tre anni e mezzo anche i giovanotti di Sant’Omobono parteciparono loro malgrado a quel macello e alla fine della guerra si contarono i morti. Dagli elenchi ufficiali, per la Prima Guerra Mondiale i caduti dei villaggi riuniti successivamente in Sant’Omobono Terme assommano a 66. Uomini e ragazzi strappati ai loro cari, con gravi conseguenze anche sui bilanci famigliari, data la sottrazione all’economia locale di decine di giovani lavoratori, molti dei quali erano già padri. Il più “anziano” tra coloro che non tornarono più era un certo Angelo Manini, nato il 2 agosto 1879, che morì sulla soglia della quarantina. Il più giovane era invece poco più che un ragazzino. Si chiamava Fioravante Frosio ed era venuto al mondo il 4 dicembre 1900, all’alba di quel secolo XX che doveva suscitare speranze di progresso, ma che invece si rivelò una foresta di lupi. Questi due caduti rappresentano in piccolo, per il comune della Valle Imagna, gli estremi anagrafici del generale assottigliamento numerico che subì in quei tempi la popolazione maschile europea. Con la Grande Guerra, infatti, l’Europa vide praticamente decimata un’intera generazione di giovani uomini in età militare, quelli nati più o meno fra il 1870 e il 1900, e che quindi durante il conflitto 1914-1918 avevano grossomodo fra i 18 e i 48 anni.
immagineE’ per onorare la memoria di questi caduti, e di quelli delle altre guerre del Novecento, che il comune di Sant’Omobono Terme ha pubblicato, col patrocinio della Regione Lombardia, due volumi, abbinati in un cofanetto, che ricostruiscono mezzo secolo di storia italiana, quel mezzo secolo in cui sono comprese entrambe le guerre mondiali, vista attraverso gli occhi di una comunità della Valle Imagna. I volumi, intitolati rispettivamente “Caduti e dispersi” e “Combattenti e reduci”, raccolgono preziose testimonianze inerenti soprattutto la Seconda Guerra Mondiale e la lotta partigiana. Questo per ovvie ragioni dovute al fatto che i testimoni diretti e i protagonisti degli avvenimenti del 1940-1945 sono ancora vivi (o comunque lo erano ancora fino a pochissimi anni fa) e hanno potuto rilasciare recenti interviste ai curatori dei libri. Tuttavia non mancano notizie sulla più antica Grande Guerra, di cui i testimoni sono ormai scomparsi. Notizie che sono state desunte dagli elenchi dei caduti e dai numerosi documenti che trattano degli stati di servizio dei mobilitati, nonchè delle eventuali decorazioni. E così possiamo ricostruire varie storie di soldati che da quel grigio giorno di primavera (anche se in realtà soleggiato) furono costretti a 3 anni di lotta feroce contro l’Impero d’Austria-Ungheria.

MORTE DI DUE FRATELLI

Dai fogli matricolari presi in esame emergono tanti destini di uomini del passato, nonchè perfino la loro descrizione fisica, dalla statura ai capelli, dal colorito allo salute dei denti. E’ una vera miniera non solo dal punto di vista della memorialistica militare, ma anche dell’antropologia. Ne emerge il quadro fisico della popolazione maschile della Valle Imagna di 90 anni fa, caratterizzato da una statura media di circa 1 metro e 67 (inferiore a quella di oggi), capelli di solito lisci e castani, pelle rosea, fronte alta e bocca di forma regolare con dentatura in genere sana. Un “ritratto” che, esclusa la statura (il cui aumento negli ultimi 40 anni pare dovuto ai miglioramenti nella dieta), si è mantenuto abbastanza costante fino a oggi (a parte, è ovvio, l’infiltrazione di popolazioni estranee).
Riguardo ai dati sociali, apprendiamo che per la maggior parte i giovani di Sant’Omobono nati a fine Ottocento svolgevano il mestiere di contadino o boscaiolo, ma godevano del titolo di studio di terza elementare, dunque sapevano leggere e scrivere. Per alcuni di loro il maggio 1915 non rappresentò il battesimo del fuoco. Vi era chi già aveva fatto la Guerra di Libia del 1911-1912, anche se in quel caso non vi era stata una mobilitazione generale. E’ il caso ad esempio di Carlo Benedetto Cassotti, nato il 19 settembre 1890 nel villaggio di Mazzoleni, che dopo il servizio militare in artiglieria era stato  spedito in Africa. Era il 15 ottobre 1911 quando Cassotti si era imbarcato a Palermo col suo reparto, la 26° Batteria da Montagna, per raggiungere la Tripolitania a combattere contro i Turchi. Non immaginava che sarebbe stato richiamato alle armi il 9 maggio 1915 per lottare contro un nuovo nemico. Fu al fronte fino all’aprile 1916, per poi essere probabilmente assegnato ai servizi. In seguito, il 24 febbraio 1918, fu assegnato alla 22° Compagnia Presidiaria del Distretto Militare di Bergamo e, come si legge nei documenti, “lasciato a disposizione della Società Edison di Paderno d’Adda”, forse per fare da sentinella agli impianti idroelettrici e scongiurare eventuali sabotaggi. Per ironia della sorte, morì non per ferite di guerra, ma per malattia (come molti altri soldati dell’epoca) il 18 ottobre 1918. Anche suo fratello minore Vittorio era stato spedito in guerra, ma era morto in combattimento due anni prima di Carlo, con tanto di medaglia postuma.
Nato il 21 giugno 1895, Vittorio Cassotti era di leva allo scoppio del conflitto, in forza dal 19 gennaio 1915 al 21° Reggimento Fanteria. Conobbe presto le disgrazie del fronte carsico e trovò la morte nel tentativo di aiutare dei compagni. Era il 2 luglio 1916 quando, presso Monfalcone, cercò di coprire con un lancio di bombe a mano i commilitoni che tentavano di recuperare una mitragliatrice sotto il tiro austro-ungarico. Si espose e venne ferito così gravemente che spirò il giorno dopo. Gli venne concessa una Medaglia d’Argento con questa motivazione ufficiale: “Caduti alcuni serventi di mitragliatrice e stando questa per essere presa dal nemico, munitosi di bombe si lanciava in avanti per dar tempo ai compagni di salvare l’arma, ma veniva colpito a morte”.

UN TELEFONISTA “KAMIKAZE”

Una medaglia non poteva certo consolare i coniugi Giuseppe Cassotti e Caterina Dolci per la perdita del loro figlio, tantopiù che, come abbiamo visto, un paio d’anni dopo gli straziati genitori avrebbero pianto anche il primogenito Carlo. immagine
La guerra, in un modo o nell’altro, ghermiva tante vite e le decorazioni potevano solo essere un riconoscimento esteriore della forza d’animo dimostrata da quegli uomini nel sopportare un inferno del genere. Diverse furono le decorazioni concesse agli uomini di Sant’Omobono Terme in quegli anni tremendi, troppo spesso per azioni senza dubbio coraggiose, ma alle quali i militi non erano purtroppo sopravvissuti. Come la terribile avventura di un soldato d’artiglieria che continuò fino alla fine a trasmettere col suo telefono da campo nonostante la sua postazione fosse cannoneggiata dal nemico. Carlo Tobia Frosio, questo il suo nome, era nato a Selino il 18 giugno 1894 da Melchiorre e da Angela Locatelli. Anch’egli stava svolgendo il regolare servizio di leva quando l’Italia era entrata in guerra. Operante col 9° Reggimento Artiglieria da Campagna, il ragazzo arrivò sul fronte del Carso il 27 maggio 1915, tre giorni dopo lo scoppio del conflitto. Al termine della sua giovane vita mancavano solo 6 mesi di trincea fangosa, di brulicanti pidocchi e di assordanti cannonate. Il 25 novembre 1915 moriva infatti a Gradisca, in seguito alle ferite riportate sul Monte San Michele. Frosio era stato assegnato come telefonista a uno di quegli osservatòri avanzati che fornivano utili informazioni alle batterie d’artiglieria italiane. Le trasmissioni erano essenziali per correggere il tiro dei nostri cannoni, senonchè anche un osservatorio costituiva di per sè un ghiotto bersaglio per cannoni e obici austriaci. Così, quasi ai limiti della missione “kamikaze”, il soldato bergamasco aveva seguitato a compiere la sua missione nonostante i colpi nemici diretti contro l’osservatorio si fossero fatti di volta in volta più precisi. Con la cornetta del telefono aveva trasmesso dati preziosi incurante del fuoco avversario, per poi ritrovarsi in fin di vita in una frazione di secondo. Una Medaglia d’Argento postuma era davvero il minimo, accompagnata dalla seguente citazione: “Quale telefonista continuava, per vari giorni, a prestare servizio con mirabile calma, benchè l’osservatorio dove egli si trovava fosse interamente battuto dall’artiglieria avversaria, fino a che non venne colpito a morte”.
Non tutti i decorati lo furono in modo postumo. Antonio Perrucchini, del villaggio di Mazzoleni, ebbe una meritata Medaglia di Bronzo un anno prima di morire. Era nato il 5 novembre 1892, figlio di Antonio e Angela Borella, e aveva sotto le armi anche il fratello maggiore Elio (classe 1890), che aveva fatto la Guerra di Libia e che sarebbe morto nel giugno 1917 vicino a Gorizia. Dopo una leva prolungata e un periodo di guarnigione nelle colonie africane, Antonio era stato trasferito sul fronte delle Alpi Orientali il 10 luglio 1916. Divenne caporale della 121° Compagnia Mitraglieri, nell’ambito dell’81° Reggimento Fanteria, e si distinse nei combattimenti a Belpoggio, vicino a Gorizia. Era il 19 agosto 1917 e il caporale Perrucchini, stando alla citazione, “con sprezzo del pericolo e grande ardimento accorreva dove più forte era la resistenza del nemico, concorrendo a sopraffarlo e a metterlo in fuga”. Per sua sfortuna, sopravvisse solo fino al 21 agosto 1918.

UN SERBATOIO DI ALPINI

Dalla Valle Imagna e dalle frazioni di Sant’Omobono in particolare, parecchie furono le reclute indirizzate nel Corpo degli Alpini. Due di costoro ebbero modo di distinguersi sul Monte Ortigara a poche settimane l’uno dall’altro. Infatti il 15 giugno 1917 l’Alpino Giuseppe Bedognè, nato a Cepino, si meritò la Medaglia di Bronzo prestando soccorso ai compagni feriti nonostante l’intenso fuoco nemico. Negli stessi luoghi, ma il 19 agosto, un altro alpino del paese, Davide Locatelli, di Selino, contribuì alla conquista di una postazione e alla cattura di alcuni austro-ungarici con una brillante azione così descritta a livello ufficiale: “Durante un’azione fu sempre fra i primi del suo plotone, dimostrando ardimento di noncuranza del pericolo. Con intelligente iniziativa si recò poi, solo ed attraverso una zona intensamente battuta, allo sbocco di una galleria, impedendo così la fuga di del presidio nemico, che fu fatto interamente prigioniero”.
Anche la “Guerra Bianca” vide agire uomini di Sant’Omobono. Nel celebre scontro in alta quota del Passo Presena, avutosi il 25 maggio 1918, il caporalmaggiore Giuseppe Casari, di Cepino, salvò la vita a molti commilitoni del suo 5° Reggimento Alpini. Si appostò in posizione pericolosa, ma favorevole, con una pistola-mitragliatrice e fornì un’adeguata copertura. Ecco la cronaca dell’evento, che fruttò a Casari la Medaglia d’Argento: “Durante l’attacco di un’aspra e difficile posizione nemica, accortosi che una mitragliatrice impediva l’avanzata dei nostri, non esitava ad appostare una mitragliatrice-pistola in terreno scoperto per controbattere l’arma avversaria e, nonostantela perdita di alcuni uomini, non abbandonava il proprio posto se non dopo averla ridotta al silenzio. Più tardi, durante un contrattacco nemico, per poter svolgere più efficace azione di fuoco, appostava l’arma in luogo pericolosissimo, contribuendo in tal modo grandemente alla vittoria. Splendido esempio di eroismo e abnegazione”. Questi tre alpini santomobonesi sopravvissero al conflitto, ma non mancarono anche nelle famose truppe di montagna coloro che morirono, spesso a causa delle cattive condizioni di vita. Per esempio Ezechiele Rota, nato il 3 febbraio 1885 a Mazzoleni e richiamato all’età di 30 anni, nell’ottobre 1915. Promosso da caporale a caporalmaggiore, e poi a sergente, Rota prestò servizio nel 4° Reggimento Alpini ma si ammalò e spirò in un ospedale da campo il 3 ottobre 1917.
La catastrofe aveva inghiottito tanti giovani dei villaggi della Valle Imagna e quando nel novembre 1918 tutto finì, parve come se il mondo, dopo essere disceso nella tenebra più profonda, fosse intenzionato a risorgere come un’alba dalle mille speranze. Ma nè i santomobonesi, nè chiunque altro, immaginavano che nel giro di vent’anni si sarebbe preparato un nuovo massacro, la Seconda Guerra Mondiale, col suo carico di ferocia. La piccola comunità avrebbe così attraversato una seconda volta l’abisso, costretta a vivere sulla sua pelle un calvario di dimensioni incredibili, le cui ragioni sfuggivano al di là di quegli orizzonti segnati dai monti...
 

M.M.

Assessorato alle Culture, Identità e Autonomie della Regione Lombardia, Comune di Sant'Omobono Terme
Caduti e dispersi. Notizie tratte dai documenti militari ufficiali sui soldati di Sant'Omobono Terme nelle guerre del Novecento
A cura di Angelo Invernici
Edizioni Centro Studi Valle Imagna, Bergamo, 2004
  

 
 
 

Post N° 22

Post n°22 pubblicato il 18 Marzo 2007 da neottolemo06
 

PRIGIONIERI E TRADITI. DALL’ITALIA


Circa 600mila soldati italiani furono catturati dagli austro-tedeschi, soprattutto dopo Caporetto. Mentre fame e tubercolosi li falciavano nei lager, Roma era riluttante a inviare soccorsi. Un sesto di loro non tornò a casa

Nella Prima Guerra Mondiale essere presi prigionieri poteva mettere al riparo dal rischio di farsi tagliare la testa da una mitragliata, ma condannava a mesi o anni di stenti, freddo e malattie, che troppo spesso risultavano mortali. La situazione era difficile soprattutto per i prigionieri italiani, o comunque dei Paesi dell’Intesa, perchè Austria e Germania non disponevano generalmente di cibo sufficiente per alimentarli in modo adeguato. Chiusi nel bel mezzo del continente europeo e circondati da nemici che erano padroni delle rotte oceaniche, gli Imperi Centrali morivano letteralmente di fame e faticavano a nutrire la loro stessa popolazione, figuriamoci i nemici catturati.
All’inizio non ci si era posti il problema, poichè nell’agosto 1914 ci si aspettava che il conflitto sarebbe durato pochi mesi. Ci si rifaceva all’articolo 7 della Convenzione dell’Aja (1907), che era assai chiaro in proposito: il mantenimento dei prigionieri spettava al Paese ospitante. Il prolungarsi della guerra, e in particolare, dal novembre 1914, la recrudescenza dello stato di blocco contro gli Austro-Tedeschi, avevano però aggravato la situazione dei prigionieri. Nel 1915 la denutrizione nei campi di prigionia germanici era ormai preoccupante. Le famiglie e la Croce Rossa Internazionale inviavano pacchi privati, che però non erano sufficienti e comunque, non essendo coordinati, creavano problemi di distribuzione. Finalmente, dall’aprile 1916 la Francia e la Gran Bretagna compresero che le regole della Convenzione dell’Aja erano ormai superate in una guerra di massa in cui gli internati assommavano ad alcuni milioni. I governi di Parigi e Londra si decisero a finanziare e organizzare la spedizione nei lager nemici di derrate destinate ai prigionieri.
Così salvarono la vita a migliaia di loro cittadini, nonchè, previo accordo con altri governi, a molti russi, belgi e serbi. Lo Stato italiano, invece, continuò ostinatamente a rifugiarsi dietro quel maledetto articolo 7, rifiutando per quasi tutta la guerra interventi diretti a sostegno dei nostri uomini e in pratica condannandone molti a morte.

STRAGE DI INERMI

Non si saprà mai l’esatto ammontare delle perdite fra i nostri prigionieri, anche perchè vi è incertezza sulle stesse cifre dei sopravvissuti. Ma una cosa è certa: nei lager nemici gli internati del nostro Paese morivano in proporzione molto maggiore rispetto a quelli delle altre nazioni (esclusi i Russi, che erano stati catturati in più di due milioni ed erano quindi, oggettivamente, i più ardui da sfamare).
Andiamo con ordine. Dal maggio 1915 al novembre 1918 gli Italiani catturati dal nemico furono circa 600.000. Di questi, oltre un sesto non tornò più a casa.  Qualcuno in verità aveva preferito stabilirsi in Austria, ma per la maggior parte erano morti a causa degli stenti, soprattutto edema da fame, e della tubercolosi, aggravata dalla denutrizione. Scendendo a dati più precisi, le fonti ufficiali austriache e tedesche parlano di 587.000 prigionieri italiani, mentre una relazione indirizzata nel luglio 1919 al generale Albricci fa ascendere il loro numero a 620.000. Fra loro, i morti sarebbero “solo” 50.000 secondo l’Austria. Ma Vienna, stando a quanto dichiarato dalla Commissione del Governo italiano sulle Violazioni dei diritti delle genti, avrebbe omesso dal conteggio i decessi avvenuti nei lager dell’Ungheria, della Boemia e della Slovenia. La Commissione italiana rilevò dal canto suo oltre 60.000 morti fra gli internati nell’Impero Austro-ungarico, più altri 30.000 sparsi fra Germania, Turchia e Bulgaria.
Sfioriamo dunque i 100.000 morti totali, anche se la Commissione riportò testimonianze non confermabili riguardanti addirittura 150.000 decessi di Italiani catturati. Ancora nel maggio 1920, un’apposita Missione italiana si sarebbe recata a Vienna nel tentativo di stabilire una cifra esatta, solo per commentare che era “un’impresa impossibile”. Anche se non lo sapremo mai con precisione, possiamo comunque dare per assodata una cifra intorno ai 100mila morti, il che conferma la proporzione di circa un sesto sul totale degli internati. E’ un tasso di mortalità altissimo per dei prigionieri, soprattutto se confrontato con quello dei detenuti di altri Paesi. Di tutti i Francesi prigionieri in Germania, anch’essi aggirantesi sui 600.000 totali, ne morirono “solo” 18.000.
Fra i prigionieri austro-ungarici detenuti in Italia, poi, i morti furono 14.000 su quasi 480.000. Sono tassi di decesso di appena il 3 %, circa, quando quello degli Italiani sfiorava invece il 17 %. Se consideriamo che i morti totali subiti dall’Italia nella Grande Guerra furono 600mila su 6 milioni di uomini mobilitati, vale a dire il 10%, ne conveniamo che, paradossalmente, per i nostri soldati c’era più probabilità di morire in prigionia che al fronte.

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L’ALBA DI MAUTHAUSEN

Furono dunque più di mezzo milione i nostri soldati sparsi per l’Europa Centrale nei campi di prigionia o nelle squadre di lavoro che sostituivano gli operai nemici chiamati al fronte. Oltre metà fu catturata nel solo autunno 1917, a seguito della disfatta di Caporetto, ma anche prima di allora si trattava pur sempre della ragguardevole cifra di circa 200mila uomini, i primi dei quali fatti prigionieri fin dal “radioso maggio” 1915. Oltre che in Austria-Ungheria e Germania, alcuni finirono addirittura sul territorio di Stati alleati degli Austro-Tedeschi, come la Bulgaria o la Turchia. La maggior parte di essi, comunque, soffrì nei lager dell’Impero Asburgico, soprattutto a Mauthausen, in Austria, e a Theresienstadt, in Boemia. Definiti dagli Austriaci “Kriegsgefangenenlager”, “campi di prigionieri di guerra”, questi luoghi di detenzione si erano caratterizzati fin dall’inizio come delle baraccopoli recintate con filo spinato, secondo quello stile che di solito è associato al ricordo della Seconda Guerra Mondiale e delle dittature di Hitler e Stalin, ma che in realtà fu tipico di tutti i Paesi impegnati nei conflitti di massa del XX secolo.
La Grande Guerra, con l’incessante cozzare fra armate ciclopiche, offriva prigionieri in quantità mai viste nelle guerre dei secoli precedenti, pertanto le vecchie prigioni dalle mura ammuffite non bastavano più. Fu così, ad esempio, che nacque il lager di Mauthausen, che 30 anni dopo sarebbe stato riutilizzato dal Terzo Reich. Sorto fin dal 1914 per ospitare prigionieri serbi, divenne dall’anno successivo il maggior punto di detenzione, ma soprattutto di smistamento, di Italiani. Era costituito da file interminabili di baracche, ciascuna ospitante fino a 250 persone su una superficie di soli 360 metri quadrati. Le frequenti infiltrazioni d’acqua e vento rendevano quei tuguri dei veri inferni di fango e gelo, con tutte le ovvie conseguenze sulla salute dei prigionieri, dalle infestazioni di funghi alle polmoniti.
Non bastava la fame, si dormiva per terra, col solo “comfort” di un po’ di paglia. Non si aveva biancheria pulita e pochi vantavano una loro coperta. Il tutto era coronato da postazioni di mitragliatrici, e persino di cannoni, pronti a sparare in caso di rivolta degli internati. Questo, però, era il trattamento riservato alla truppa. Per gli ufficiali, che costituirono solo il 3 % di tutti i prigionieri italiani, la cattività era, al confronto, assai lussuosa. A Mauthausen gli ufficiali italiani disponevano di 9 baracche ben riscaldate e isolate termicamente con doppie pareti e pavimento sollevato. All’interno, letti in ferro, gabinetti, docce, cucina, sala mensa e perfino illuminazione elettrica.
A Theresienstadt gli ufficiali prigionieri dormivano invece in una grande e confortevole caserma, completa di cappella e sala di lettura. In base alla grandezza delle camerate dormivano da 5 a 20 per stanza, ma gli ufficiali di grado più elevato godevano di una “camera singola” tutta per loro.

PAZZI DI FAME

Anche gli ufficiali, in verità, soffrirono in alcuni periodi per la mancanza di cibo, soprattutto all’inizio del 1916 e poi ancora nel febbraio-marzo 1917 e nell’inverno 1917-1918, ma si trattò di episodi. In genere la dieta degli alti graduati non scendeva al di sotto delle 1600 calorie giornaliere, livello già di per sè basso, ma praticamente doppio rispetto a quello dei soldati. Per la truppa i lager erano noti come le “città dei morenti”, in cui la fame faceva letteralmente impazzire. Si sa di italiani che frugavano fra i rifiuti alla ricerca di lische di pesce e torsoli, o che per sedare lo stomaco ingoiavano erba, terra e carta. Le calorie assunte ogni giorno erano a malapena 900.
D’altra parte basta citare il tipico “menù” per rendersene conto. Al mattino un goccio di caffè d’orzo, seguito a pranzo e cena da una “minestra” che era semplice acqua bollita con foglie di rape o cavoli. La parte più sostanziosa della dieta era costituita da una patata e da una fetta di pane integrale che si aggirava intorno ai 100 grammi. Un paio di volte la settimana poteva arrivare un’aringa e un piccolo pezzo di carne, non sempre, diciamo così, “freschi”. Eppure, nonostante fossero ormai ridotti a scheletri ambulanti, indossanti abiti laceri e zoccoli di legno, i prigionieri italiani venivano spesso assegnati alle cosiddette “Arbeiter Kompanien”, le compagnie di lavoro, che contavano dai 200 ai 300 prigionieri l’una e che venivano spedite fuori dai lager ad assolvere alle più svariate mansioni, dallo scavo di miniere al taglio degli alberi. Nelle compagnie di lavoro veniva concesso un po’ più di cibo, ma solo la minaccia delle bastonate spingeva a compiere sforzi sovrumani.
 Spesso accadeva che più del 10 % dei prigionieri non tornasse da queste missioni che potevano essere le più bizzarre, come ad esempio, nel gennaio 1916, spaccare la coltre di ghiaccio che copriva il Danubio. Una Arbeiter Kompanie di italiani mandata a costruire una ferrovia a Toblach perse in 6 giorni 225 uomini su 350. A Tolmino, scavando trincee, ne morirono in meno di tre mesi ben 630 su 750. Di un gruppo di 500 deportati nella Serbia occupata dagli Austriaci sopravvissero solo in 4, meno dell’uno per cento.
La maggior parte dei decessi avveniva nella cattiva stagione, quando il freddo completava la spettrale opera della fame. In certe notti invernali, soprattutto nel 1917, si toccarono in Europa Centrale punte minime di 30 gradi sottozero. In tali casi imperava la diarrea, che spingeva molti internati a uscire dalle baracche nel gelo della notte per recarsi alle latrine. Purtroppo molti di questi venivano ritrovati il mattino seguente morti assiderati. Quale orrore, sopravvivere ai proiettili in trincea per finire a crepare di freddo nel cesso di un lager!     

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E LO STATO ITALIANO  
SE NE FREGO’

Tutto ciò, lo ribadiamo, accadeva ai prigionieri italiani mentre a quelli inglesi o francesi giungevano regolari aiuti dai loro governi (la sola Francia spese a questo scopo cifre annuali dell’ordine dei 50 milioni di franchi dell’epoca). In Italia, invece, l’onere degli aiuti ricadde quasi per intero sulle famiglie, sulla Commissione prigionieri della Croce Rossa italiana e su comitati affiliati sorti in diverse città, che fin dal 1915 spedivano pacchi privati contenenti generi alimentari e talvolta coperte e scarpe. Nel solo biennio dal 1° giugno 1915 al 31 ottobre 1917 transitarono, attraverso la neutrale Svizzera, 10 milioni di pacchi-pane e 180 tonnellate di derrate varie.
Aiuti insufficienti, tanto più che molte famiglie avevano difficoltà per la loro stessa sopravvivenza. Inoltre si creavano spesso ingorghi e ritardi, tanto che il cibo poteva arrivare ormai marcio. Altre volte i pacchi erano “alleggeriti” da qualche disonesto addetto alle poste. Urgeva l’intervento dello Stato per far sì che i soccorsi fossero razionali ed efficaci. Ma Governo ed Esercito non volevano saperne.
Il “generalissimo” Cadorna e il suo Comando Supremo erano dominati dall’idea che i nostri soldati presi prigionieri fossero quasi tutti disertori, che avevano preferito arrendersi al nemico piuttosto che combattere. A livello politico, fu il Ministro degli Esteri Sidney Sonnino il maggior sostenitore della linea dei militari. Per quanto riguarda il diritto internazionale, purtroppo, Roma aveva le spalle coperte dal già ricordato articolo 7 della Convenzione dell’Aja e fu così facile per lo Stato italiano svincolarsi dalle proprie responsabilità. Le autorità si limitarono quasi solo a regolamentare. Ad esempio varando il decreto n. 1047 del 20 giugno 1915, che non ammetteva la circolazione esentasse di pacchi superiori ai 5 kg di peso.
Nella primavera 1916 il senatore Frascara, presidente della Commissione prigionieri della Croce Rossa italiana, cercò invano di convincere il Governo a intervenire, ma per quanto il Primo Ministro Antonio Salandra si dicesse in linea di principio d’accordo, la linea dura di Sonnino prevalse. Così fu anche nel successivo Governo Boselli. Il 21 marzo 1917 il Comando Supremo, per bocca del Ministro della Guerra, generale Morrone, giunse perfino a chiedere al Governo di far interrompere il flusso di aiuti privati, ravvisando nel miglioramento delle condizioni dei prigionieri un incentivo alla diserzione. Solo dopo lunghi dibattiti, quando il conflitto era ormai agli sgoccioli, il Governo Orlando si decise nel luglio 1918 ad avviare un “esperimento” di soccorsi statali, la cui organizzazione fu affidata al socialista Leonida Bissolati. Ma si sarebbe trattato solo di 60 vagoni ferroviari spediti in quegli ultimi 4 mesi di guerra.

VEDI ANCHE LE TESTIMONIANZE DI CARLO EMILIO GADDA
http://blog.libero.it/grandeguerra1418/2436788.html

E DI ALTRI PRIGIONIERI ITALIANI
http://blog.libero.it/grandeguerra1418/2436809.html

 
 
 

Post N° 21

Post n°21 pubblicato il 18 Marzo 2007 da neottolemo06
 

Lettere tratte da “Soldati e prigionieri italiani nella prima guerra mondiale”  di Giovanna Procacci,  Bollati Boringhieri Editore


"Se sapessi quante barbarie, che modi di aggire, che buone maniere verso i soldati! Come  i padri che educano i figli siamo presi a schiaffi e calci, ma se Iddio mi da vita a farmi arrivare in Italia saprò io….."
Dal fronte,  14.3.1916

"Cara mamma,  non potendo sfogarmi sono fuggito e a te se vengono a dirti qual che cosa dicci che se non mi maltrattavano non sarei fuggito".
dalla Svizzera 18.3.1916

"Fino che eravamo al masatorio in prima linea, in rischio di farci macelare ogni minuto, ci trattavano (i superiori) un po' meglio, perché avevano paura di noi e quando si fa per avanzare cridavano avanti, avanti altrimenti vi sparo...".
Zona di guerra 1.12.1915


"Altro che combattere contro il nemico, Io non combatterò  mai contro i miei fratelli per prendere (Trieste?). Cadorna, Boselli che loro sta in Italia, sevverrò in licenza di  questi  la pelle ci farò….."
Zona di guerra 10.1.1916

"Come pure al S. Michele che si può chiamare cimitero e via via sono andato sette o otto volte.  Nella tua ultima mi parli  troppo di Dio.  Povero vecchio  e buon Dio! La madre austriaca e la madre italiana pregano, per i rispettivi figli, lo stesso Dio di  pace,  di amore e di altre simili cose.  A chi dovrebbe dar retta Dio?? Lascialo in pace il povero vecchio! Io, eretico, sono ancora vivo tanti religiosi perirono".
Zona di guerra 21.2.1916

"Povere madri che perdono i loro figli! Spesse volte ci guardiamo l'un l'altro in faccia vedendoci così lacerati di fame e di sonno le lacrime ci riempiono gli occhi come bambini…"
Zona di guerra 5.4.1916

"Quando è dopo che si è conquistato? Una 50 metri di roccia viva. Quanti sono i morti? 500-600 secondo l'accidentabilità che permette il terreno".
Zona di guerra 24.4.1916

"I superiori... anno anche paura che come abbiamo fatto a metterci daccordo e di non avanzare possiamo anche metterci d'accordo a fare come ha fatto qualche reggimento che vio forse non lo sapete perché queste cose sui giornali non le mettono... l'anno butato nel fiume..."
Zona di guerra 20.3.1916



Lettera tratta da “Lettere di prigionieri di guerra italiani. 1915-1918”  di Leo Spitzer,  Bollati Boringhieri Editore

"Mamma, mamma, quando finirà questa vita bestiale?  Una disgrazia peggiore di questa non mi poteva capitare. Più volte mi sono trovato nella trincea fra la morte e i pericoli, ma la vita era meno dura  e più allegra; tornerei al fronte domani stesso, se lo potessi, già solo per non trovarmi fra le mani dei nostri nemici a lassalto senza conquistare niente…".
Zona di guerra 7.2.1916

 
 
 

Post N° 20

Post n°20 pubblicato il 18 Marzo 2007 da neottolemo06
 

«Io, noi tutti su per giù, ma io con la mia martirizzante sensibilità in modo speciale,
mi sento solo, avvilito, abbandonato da tutti: nessuno ci protegge, a nessuno possiamo rivolgerci! Sopra di noi la brutale, inflessibile vendetta del nemico, il suo odio implacabile».

Carlo Emilio Gadda, “Diario di guerra e di prigionia”

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«Certo che la stanchezza, la fatica, l’ebetudine, la macerante attesa, e poi le atroci esperienze, l’odore di interi reggimenti accatastati ad aspettare il destino, e quei volti destinati allo spasimo, di quegli uomini che sbranavano del manzo malvagio nell’ultimo sole della lor vita, e inutilmente deglutivano l’ultimo pane, certo tutto questo non era fanfara d’orgoglio. Né il lamento degli abbandonati su da le forre paurose, tra le due linee; né l’odor funebre, a ventate, sulla scheggiata groppa del monte; né i cenci, né il sangue, né le mosche verdi d’attorno l’orrida turpitudine della morte: né il sibilo dei pronti colpi lungo gli orecchi, né lo schianto atroce di quegli altri, che arrivavan da via. Tutto questo non è orgoglio: è anzi un frego dato sull’orgoglio».
Carlo Emilio Gadda,
 “Impossibilità di un diario di guerra”

 
 
 

Post N° 19

Post n°19 pubblicato il 18 Marzo 2007 da neottolemo06
 

immagineAlfeo Guadagnin
La Battaglia di Monte Fior
5 - 9 giugno 1916

Nordpress Edizioni
pagg. 160 ill. col.
euro 18,50


Pochi metri, persi e riacquistati, dopo un terribile arroccamento sull'altipiano di Asiago. Quattro giorni per ritrovarsi al punto di partenza ma con perdite pesantissime sia tra gli italiani che tra gli austro-ungarici. Quella di Monte Fior, tuttavia, fu una guerra strategicamente importante, poiché significò la ritirata del nemico da uno dei fronti più avanzati.

Il «gioco in casa» consentì all'esercito italiano di poter contare su forze fresche che erano già a portata di mano. Non così, per gli avversari che nella notte tra il 24 e il 25 giugno 1916 lasciarono il campo in un silenzio assoluto e surreale.

 
 
 

Post N° 18

Post n°18 pubblicato il 16 Marzo 2007 da neottolemo06
Foto di neottolemo06

Ricevo e volentieri pubblico, ringraziando l'autore per il suo contributo.

CHE FINE HA FATTO LA MADONNINA DEL GRAPPA ?
di Ferdinando Celi

 Il Monte Grappa, è conosciuto come teatro di guerra, sia nella Prima sia nella Seconda Guerra Mondiale ma non possiamo dimenticare che sulla sua sommità, nel 1903 il Patriarca di Venezia Giuseppe Sarto, benedisse l’immagine della Madonna che in seguito si chiamò Madonnina del Grappa.

Quest’immagine che, durante il primo conflitto mondiale fu anche ferita, i soldati della “IV° Armata” la elessero loro protettrice e lo stesso fecero i mutilati d’Italia. Nel 1924 nacque a cura di Don Giulio Facibeni di Firenze l’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa con sede a Crespano del Grappa che nel febbraio del 1936 decise di «inviare una copia fedele della Sacra Immagine, ai Combattenti dell’Africa Orientale e per essi al glorioso 7° Alpini, “Val Punteria” - questo quanto si legge sul “Prealpe” (settimanale di Bassano del Grappa) -  che tanto eroicamente ha preso parte nelle ultime vittoriose operazioni belliche rendendosi interprete dei sentimenti patriottici e religiosi di tutte le popolazioni del Grappa e della gente veneta di cui, la Madonna del Grappa, è protettrice e venerata Patrona».
L
’iniziativa ottenne il pieno consenso del Ministero delle Colonie, di S. E. il Vescovo Castrense e del comando della divisione alpina Val Punteria. Furono numerose le adesioni di autorità, di comuni, di enti patriottici e di persone, desiderosi di prendere parte in qualunque forma, perché l’iniziativa avesse una estesa partecipazione.

Il consiglio dell’Opera Madonna del Grappa, vista la grande partecipazione popolare, ordinò la riproduzione della Madonnina alla dittа G. Riflesser iunior di Ortisei la quale ne realizzò una artisticamente perfetta.
In seguito, a fine aprile del 1936, dopo la solenne benedizione da parte del Vescovo di Padova nell’arcipretale di Crespano, la statua fu portata a Bassano.
«In viale Venezia – scrive sempre il "Prealpe" - c’erano le autorità, il Clero e le rappresentanze delle associazioni locali che formatosi in corteo, percorsero le vie: Da Ponte, le piazze Garibaldi e Vittorio Emanuele (ora piazza Libertà), via Bellavitis e Verci, per arrivare al Tempio dei Caduti dove sostò per la notte e, alle prime luce del giorno, la Madonnina partì per Napoli alla volta dell’Africa Orientale».
Dalla sosta del Tempio Ossario a Bassano, (dove sono sepolti 6.000 soldati),  di questa copia di legno della Madonnina del Grappa offerta agli Alpini d’Africa non si è più saputo nulla, né dove fu messa né che fine abbia fatto. Fatto sta che a Bassano quest’immagine fu accolta in trionfo, come testimoniano le fotografie. Ora sarebbe pur bello sapere dov’è questa copia della Madonnina del Grappa. Scoprire dov’è potrebbe scrivere un’altra piccola pagina di storia del Grappa. Qualcuno ne sa qualcosa?

 
 
 

Post N° 17

Post n°17 pubblicato il 16 Marzo 2007 da neottolemo06
 

immagineGiuseppe Magrin e Federico Fiorin
IL CAPPELLANO DEL CADORE
Diario di guerra di don Emilio Campi, cappellano del battaglione Pieve di Cadore
Paolo Gaspari Editore 
collana Diari e memorie della Grande Guerra
pp. 150; cartine 3, foto 48, € 13,43 

Giorno per giorno le azioni e le considerazioni del cappellano di uno dei più famosi battaglioni alpini, da Passo Sentinella al Monte Piana a Lavaredo. Dal sommario: La scoperta del documento; il ruolo dei cappellani militari; ricordo di don Pietro Zangrando; Sepp Innerkofler; i morti nel periodo 1915-1916; la guerra intorno alle Lavaredo; avvenomenti del maggio 1915 ai confini di Lavaredo. Corredato da piantine e da molte fotografie inedite, il volume presenta una narrazione minuziosa degli avvenimenti della vita quotidiana in uno dei teatri di guerra più cruenti e inospitali.

 
 
 

Post N° 16

Post n°16 pubblicato il 15 Marzo 2007 da neottolemo06
 

4 NOVEMBRE 1921: un povero soldato senza nome viene tumulato a Roma...

IL MILITE IGNOTO, EROE SENZA RETORICA DELL'"INUTILE STRAGE"

Scelto da una donna friulana tra 11 salme senza nome riesumate sui nostri più terribili e sanguinosi campi di battaglia, il soldatino fu adottato da tutti e divenne il simbolo di un Paese orbato della sua gioventù


di Elena Percivaldi

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Alla fine, il rombo del cannone tacque. E arrivò il momento di piangere i morti. La Grande Guerra  era finita, e in quasi cinque anni i caduti su entrambi in fronti erano stati quasi 10 milioni. Un’ecatombe dalle proporzioni mai viste, difficile da comprendere e ancor più da metabolizzare, sia a livello di singoli che come collettività. 

ALLA RICERCA DELLE SALME

Al termine della Grande Guerra in tutte le nazioni belligeranti si procedette all’opera pietosa di ricerca delle salme dei caduti e alla tumulazione dignitosa sia degli insepolti che di coloro ai quali i commilitoni avevano offerto una sepoltura  di fortuna. In Italia allo scopo fu costituita una Commissione nazionale per le onoranze, composta  da 150 ufficiali, 35 cappellani e circa 7mila soldati, in parte di Sanità, agli ordini di un colonnello. Il lavoro da svolgere era immane: i soldati italiani morti in battaglia erano stati circa 680mila, ma tra i compiti della Commissione vi era anche quello, altrettanto pietoso, di recuperare i corpi dei caduti alleati ed anche avversari. Un compito che fu svolto con grande partecipazione e dignità.

ONORE AGLI EROI NAZIONALI

Fu in questo clima toccante e composto che venne fu partorita un’idea  davvero geniale e destinata a grande successo anche fuori dai nostri confini nazionali:  onorare gli eroismi e i sacrifici dell’intera comunità  tumulando nel Pantheon,  a Roma, quale simbolo di tutti i combattenti caduti e viventi, la salma di un soldato sconosciuto. Un povero ragazzo come tanti, morto su un campo di battaglia, destinato a diventare per tutta la nazione il figlio, il padre, il marito che aveva dato la vita per la Patria. A maturarla fu il colonnello Giulio Douhet, e a ricostruirne la storia è stato   il colonnello Lorenzo Cadeddu in un libro davvero esemplare: “La leggenda del soldato sconosciuto all’Altare della Patria” (Gaspari Editore, pp. 218, e 10.33). Ecco come andarono le cose.

11 CAMPI DI BATTAGLIA

Il primissimo passo fu quello di costituire un’apposita commissione  incaricata di ricercare sui nostri campi di battaglia più tristemente famosi - Castel Dante presso Rovereto,  Monte Pasubio, Monte Ortigara, Monte Grappa, Montello,  Basso Piave, nei pressi di Cortina, sul Rombon, sul San Michele,  a Castagnevizza (oggi Kostnjevika, Slovenia),  alle Fonti del Timavo  - undici salme di soldati sconosciuti.   In ciascuna località, la Commissione ricercò dapprima salme di  dispersi. Riuscì a rinvenirne solo sul San Michele e a Castagnevizza: sugli altri campi, invece, si dovette ricorrere all’esumazione dei corpi dai cimiteri di guerra che erano stati improvvisati nei pressi. Una volta composte le salme, riposte ciascuna in una cassa di legno identica alle altre e scortata da un picchetto d’onore, gli undici feretri furono trasportati tutti insieme a Gorizia, «città martire».

UNA MADRE, UN FIGLIO

Qui un’altra commissione ebbe il compito di scegliere, tra le tante, la madre di un caduto che, nella Basilica di Aquileia, avrebbe indicato, fra le undici bare, quella che avrebbe dovuto raggiungere Roma. La prescelta fu Maria Bergamas, nata Blasizza, un’umile popolana originaria del Friuli, che però aveva vissuto quasi sempre a Trieste; suo figlio Antonio, nato a Gradisca, volontario irredento, sottotenente di Fanteria, Medaglia d’oro, era caduto nel 1918 sul Cimone. Il suo corpo, dapprima inumato, era poi scomparso in seguito a un violento bombardamento, che aveva sconvolto i tumuli. L’indicazione della bara rappresentò l’episodio più straziante delle intere celebrazioni; e nella basilica furono moltissimi, non solo le donne, anche gli uomini, che non riuscirono a trattenere le lacrime.
Terminata la cerimonia, le salme dei dieci «militi ignoti» raggiunsero, accanto a quello del maggiore Giovanni Randaccio, amico di Gabriele  D’Annunzio e morto nel 1917, il sacello che le avrebbe custodite per sempre.
 Per il «Milite Ignoto» ebbe inizio il lungo viaggio verso Roma; un apposito carro ferroviario era stato realizzato, in modo che l’affusto di cannone sul quale era collocata la cassa risultasse visibile da ogni lato. Venezia, Bologna, Firenze, Arezzo: ben 120 furono le soste, più o meno ampie, sempre tra fittissime ali di popolo silenzioso e commosso; gli organizzatori avevano fatto in modo che l’intero Paese divenisse teatro della manifestazione.

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IL «MILITE IGNOTO»

 Il 4 novembre 1921, terzo anniversario della vittoria  per l’Italia, a Roma, presenti il Re e tutti i principi della Casa Reale, le cerimonie toccarono l’apice anche della solennità, sempre al suono dell’«Inno al Piave», composto nel 1918 da Giovanni Gaeta, un impiegato viaggiante del Ministero delle poste, sotto lo pseudonimo di E.A. Mario. La cerimonia religiosa si svolse nella Basilica di Santa Maria degli Angeli in Piazza Esedra; poi Piazza Venezia a l’«Altare della Patria», monumento del ricordo.
Al Milite Ignoto fu concessa la medaglia d'oro con questa motivazione: «Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz'altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della patria». 


immagine L’onorevole Luigi Gasparotto (volontario a 42 anni, 3 medaglie d’argento, una di bronzo) all’epoca ministro della Guerra, affermò che, con quelle onoranze tanto sentite da tradursi in una partecipazione davvero corale, il presidente Ivanoe Bonomi aveva realizzato l’«unità morale di tutti gl’italiani». È un fatto che intorno al simbolo del «Soldato sconosciuto», un popolo intero, dimenticando per quel momento tutte le ideologie contrastanti s’era trovato come amalgamato. Fu la prima e unica volta che, anche a livello politico, si riuscirono a superare le divisioni. Anche tra chi, nel terribile “maggio radioso” del 1915, era stato contrario alla guerra. In quel giorno lo spirito  rimase uno solo: ricordo, ammirazione, commozione, cordoglio, riconoscenza nei confronti di quanti avevano perso la vita in un conflitto tanto inutile quanto sanguinoso.  E che oggi, a novant’anni di distanza,  non possiamo né vogliamo  dimenticare. 
 

Per approfondire: Lorenzo Cadeddu, "LA LEGGENDA DEL SOLDATO SCONOSCIUTO ALL'ALTARE DELLA PATRIA", Gaspari Editore

 
 
 

Post N° 15

Post n°15 pubblicato il 15 Marzo 2007 da neottolemo06
 

IL MISTERO DEL SOLDATO PETER PAN

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È una piccola, delicata storia con  un pizzico di mistero quella che circonda la tomba di Peter Pan,  omonimo del celeberrimo eroe della fiaba di James Matthew  Barrie, e suo contemporaneo, ma reale soldatino dell’esercito  austro-ungarico, morto qualche settimana prima della fine della  Grande Guerra, il 19 settembre del 1918.   Figlio di una ragazza madre, nato il 21 agosto del 1897 in un  piccolo comune dell’ex impero, appartenente attualmente alla  Romania, Peter Pan faceva parte del 30° reggimento di  fanteria Honved e cadde sul Caprile, in Veneto, durante un’ azione a 1300 metri di quota. Le sue spoglie, insieme con quelle  di 10.295 austro-ungarici (10 mila dei quali senza nome) e oltre  12mila italiani, venne tumulata nel 1935 nel sacrario di Cima  Grappa dove i resti delle migliaia di caduti, sparsi fino ad  allora in tanti piccoli cimiteri di guerra, vennero raccolte.   E la storia del soldatino dell’Imperatore, morto lontano  dalla sua casa, sarebbe rimasta nell’oblio tra tante se non  fosse per quel nome così particolare e soprattutto per un  piccolo mistero, i fiori che in ogni stagione una mano ignota  depone sulla tomba numero 107.
   Ferdinando Celi,  presidente dell’associazione onlus  AiSol di Bassano del Grappa (Vicenza), a questa storia si è  appassionato e siccome tra gli interventi umanitari che l’associazione porta avanti c' è un programma di aiuti alla  Romania, un giorno ha cercato di scoprire qualcosa del  misterioso fante. Sull'argomento ha poi scritto un libro. «Ci abbiamo messo un po' di tempo - spiega  Celi - perchè il paese d’origine di Pan, passando dopo il  crollo dell’impero dall’Ungheria alla Romania, aveva cambiato  nome. Era cioè un paese che non c' è, proprio come l’isola  che non c' è del Peter Pan fiabesco. Poi abbiamo scoperto che  il comune romeno oggi si chiama Rusca Montana e ci siamo messi  in contatto con il sindaco. Abbiamo così saputo, anche  attraverso l’aiuto della Croce Nera austriaca (ente che si  occupa di conservare la memoria dei caduti dell’impero), che il  nostro Peter Pan era morto lasciando a casa la mamma Maria e una  sorellina. Di loro poi si perdono le tracce». 

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Per il suo impegno, che ha tra l’altro portato alla  titolazione di una via al soldato Peter Pan e alla creazione di  un piccolo museo del Grappa nel paese romeno, Celi è stato  insignito dell’onorificenza della Croce Nera.   E il mistero dei fiori? «Quello è davvero incredibile -  spiega Celi - da tempo gli alpini di guardia al sacrario  controllano per vedere chi deposita i fiori di campo ma non l’hanno mai scoperto. Solo su quella tomba, in ogni stagione.  Anche in questi giorni dedicati ai morti. Quando sono secchi i  fiori vengono tolti dai custodi e poi ricompaiono. E davvero un  mistero».
Intanto la fiaba europea del soldatino con il nome da  romanzo, morto appena prima della sparizione di un impero che  fedelmente servì e proveniente da un paese che non è più  sulle carte geografiche (Ruszkabanya), continua con l’omaggio  di una ignota mano che deposita fiori di campo sulla sua lapide.

Visita il sito di Ferdinando Celi:
http://www.soldatopeterpan.it

(Le immagini sono tratte dal sito)

 
 
 

Post N° 14

Post n°14 pubblicato il 14 Marzo 2007 da neottolemo06
 

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Nicola Bultrini 
Adrian
Nordpress Edizioni
pp. 128 con illustrazioni a colori
euro 15,50 
  
 
 
Nell'arco di pochi anni, in tutto il mondo, sono stati prodotti milioni di esemplari dell'elmetto Adrian, concepito dall'omonimo ufficiale francese che, in una corsa contro il tempo, riuscì a escogitare una delle protezioni belliche tra le più diffuse della storia moderna. Prima di quell'elmo, in guerra si andava con copricapo cenciosi, spesso soltanto rappresentativi, se non addirittura d'intralcio, o con ripari paradossalmente più pericolosi. Quell'invenzione rappresentò una rivoluzione nell'abbigliamento difensivo, presto mutuata dagli eserciti di altri Paesi e impiegata per molti anni anche dopo la Grande Guerra. Per foggia e materiali, l'intuizione di Louis Auguste Adrian rappresenta il discrimine tra due modi assolutamente diversi di intendere la guerra e tenere in considerazione la sopravvivenza dei soldati.

 
 
 

Post N° 13

Post n°13 pubblicato il 13 Marzo 2007 da neottolemo06
 

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Luigi Sardi
1915. Monti Scarpazi
[Il Trentino nella Grande Guerra]

Curcu & Genovese Ed.
pp. 352, euro 15

 
 

 
“Monti Scarpazi” è il titolo di una canzone tragica e possente, ma anche poesia d’amore e ode contro la guerra, che più di ogni altra richiama alla memoria la tragedia dei soldati trentini portati, novant’anni fa, a combattere nelle trincee scavate sui Monti Carpazi. Questo libro racconta il dramma del Trentino nel periodo che va dall’agosto del 1914
al 23 maggio del 1915, da Sarajevo all’Italia che dichiara guerra all’Austria - Ungheria.
È un racconto che passa attraverso i giornali dell’epoca – “L’Alto Adige”, “Il Popolo” di Cesare Battisti “e “Il Trentino” diretto da Alcide Degasperi – testimoni di quelle giornate lontane nel tempo, ma presenti nella nostra memoria. È la cronaca dei primi mesi di quella inutile strage consegnata alla storia come Grande Guerra.

  

 
 
 

Post N° 12

Post n°12 pubblicato il 13 Marzo 2007 da neottolemo06
 

Cesare De Simone, tratto da “L’Isonzo mormorava”:

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"Nel marzo 1916 il mio comandante di divisione, al quale riferivo per telefono le ragioni per cui una operazione ordinatami non poteva riuscire e si sarebbe avuto un macello, osservò che di carne da macello da darmi ne aveva quanta poteva abbisognarmene; risposi che facevo il colonnello non il macellaio; s’interruppe il telefono: un ordine scritto mi ordinò l’onerosa operazione.”.

"Tutte le volte che c'era un attacco arrivavano i carabinieri. Entravano nelle nostre trincee, i loro ufficiali li facevano mettere in fila dietro di noi e noi sapevamo che - quando sarebbe stata l'ora- avrebbero sparato addosso a chiunque si fosse attardato nei camminamenti invece di andare all'assalto. Questo succedeva spesso. C'erano dei soldati, ce n'erano sempre, che avevano paura di uscire fuori dalla trincea quando le mitragliatrici austriache sparavano all'impazzata contro di noi. Allora i carabinieri li prendevano e li fucilavano. A volte era l'ufficiale che li ammazzava a rivoltellate."

 
 
 
 

AREA PERSONALE

 

DA LEGGERE

Alessandro Magnifici
Vita di trincea - «Ti faccio sapere quello che ho sofferto questi due mesi non ho visti in tempo della mia vita...»
Nordpress Edizioni
pagg. 128 ill.
Prima edizione: maggio 2007
Formato: 16,5x24
ISBN 9788888657660
euro 18,50

 

Soldati disperati, preda di paure, attese angoscianti, visioni terrificanti; giovani militari miracolosamente scampati eppure annientati. Vivevano tra pidocchi e cascami, dormivano tra i topi e sopravvivevano di ranci improbabili, talvolta sognavano a occhi aperti fissando un cielo stellato, pensando al giorno in cui le risposte sarebbero arrivate.

Assieme al sonno, la scrittura era il dialogo con la salvezza: ecco perché tutti, compresi gli analfabeti, si aggrapparono disperatamente alle parole. Scrivere a casa, dunque, ma anche scrivere per il solo piacere di farlo, per ordinare e calmare il pensiero, perennemente attratto dalla paura di non tornare più indietro una volta iniziata la corsa nella terra di nessuno.

 

Dall’opera

«La voce, il fiato, l’intelligenza non servono più a nulla in trincea. A cosa poteva servire il coraggio? Magari si era riusciti a “sfuggire” alla morte durante i tanti assalti fatti contro la trincea nemica, si era tornati illesi dalla posa dei tubi di gelatina sotto i reticolati e giustamente ci si sentiva degli eroi; ma all’improvviso arrivava la morte, magari mentre non si “faceva la guerra”, magari mentre si fumava o si scriveva a casa».

 

DA VEDERE

MOSTRA PERMANENTE DELLA GRANDE GUERRA IN VALSUGANA E LAGORAI

 L'esposizione, inaugurata nell’ottobre 2002, è stata ampliata e radicalmente rinnovata nella forma attuale a fine 2005. E' allestita a Borgo Valsugana (TN), presso l'Ex Mulino Spagolla in Vicolo Sottochiesa 11 ed è curata dall'ASSOCIAZIONE STORICO CULTURALE DELLA VALSUGANA ORIENTALE E DEL TESINO (tel. 0461 - 754052).

VISITA IL SITO:
http://www.mostradiborgo.it/index.php?option=com_content&task=view&id=5&Itemid=6

 

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I MUSEI

MUSEO DELLA GUERRA BIANCA IN ADAMELLO - TEMU' (BS)
http://www.museoguerrabianca.it/

MUSEO DELLA GRANDE GUERRA IN MARMOLADA
http://www.museo.marmolada.com/

MUSEO DELLA GRANDE GUERRA TIMAU
www.carniamusei.org/guerra.html

IL PICCOLO MUSEO DELLA GRANDE GUERRA- SAPPADA (BL)
http://www.ilpiccolomuseodellagrandeguerra.it/

MUSEO DELLA GRANDE GUERRA DI CORTINA
http://www.cortinamuseoguerra.it/

MUSEO STORICO ITALIANO DELLA GUERRA - ROVERETO (TN)
http://www.museodellaguerra.it/

MUSEO DELLA GRANDE GUERRA - CAORIA (TN)
http://www.alpinicaoria.it/museogu/museo.htm

MUSEO DELLA GRANDE GUERRA DI ROANA (VI)
http://www.comune.roana.vi.it/rete_civica/turismo/musei/guerra.html

MUSEO DELLA GRANDE GUERRA DI CRESPANO (TV)
http://www.comune.crespano.tv.it/museo_resistenza/Pagine/museo.htm

MUSEO DELLA GRANDE GUERRA DI GORIZIA
http://www.immaginidistoria.it/luoghi1.php?id=23

FORTE BELVEDERE - LAVARONE (TN)
http://www.fortebelvedere.org/

MUSEO DI CAPORETTO - KOBARID
http://www.kobariski-muzej.si/

 

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