La logica del dono

Antropologia del tango


 Tanti anni fa, quando iniziai i miei studi di filosofia, avevo come insegnanti di antropologia un prete non molto giovane di età, però fresco di spirito. Era un prete amante del tango. Questo uomo che, ancora oggi, ricordo con tanto affetto, era un sacerdote "poco ortodosso" poiché allora faceva qualcosa di sorprendente. Nei primi cinque minuti della lezione, egli faceva ascoltare un tango, poi distribuiva il testo del tango da analizzare e, dopo una prima lettura veloce, invitava due studenti, maschio e femmina, a ballare.Con gioia ricordo le sue lezioni e la sua pedagogia inusuale, innovativa, e direi, "scandalosa". Fu lui che, resosi conto che anche io avevo con il tango, un rapporto particolare, mi suggerì di dare un'occhiata ad alcuni testi. Mi disse: "Sei impastato con questa musica, ti suggerisco di  'tuffarti' dentro i testi e coglierne alcuni elementi strutturanti". Precisò: "Dovrai essere sincero e non avere paura del volto umano che verrà fuori. Sicuramente non ti piacerà". Capii subito il perché di tale avvertimento.Lavorai più di un semestre, leggendo e rileggendo testi che formavano parte dell'immaginario popolare, testi, direi "epocali", testi che erano "inni", considerati come "sacri" dal cuore del popolo. Per scrivere un centinaio di pagine - che poi non so dove siano andati a finire - parlai pure con i più grandi musicisti di allora. Personaggi portatori di una saggezza filosofica che nulla avevano da invidiare ai grandi filosofi che hanno segnato il panorama del pensiero occidentale.Il lavoro andò perduto in non so quale dei numerosi traslochi da un convento all'altro. Niente computer, solo la carta e la vecchia Olivetti.  Una coppia del mio lavoro l'avevo consegnata ad un amico di mio padre, come riconoscimento per tutto ciò che sul tango, egli, forse senza saperlo, mi aveva insegnato.La frase che misi in esergo era: "Il tango è un sentimento triste che si balla". E' questa una definizione di uno dei massimi esponente del tango, Enrique Santos Discepolo. Oggi è in bocca di tutti ma allora questa definizione era patrimonio di pochi. Gli europei, abituati al tango "for export", al tango "ipersensualizzato", il tango per "i turisti", non riuscirebbero mai a capire la drammaticità che è insita in questa definizione.Lascio da parte la nota genealogia geografica del tango. Mi soffermo ad elencare alcuni elementi di stampo antropologico che sono l'eco di quel studio di allora.1) L'uomo di cui parla il tango, è un uomo fallito, un uomo che vede i suoi sogni continuamente infranti, abortiti e che non riesce mai a realizzarsi.2) Il destino, la fatalità, le Erinni ... segnano tutti i suoi passi, come se le sue decisioni non dipendessero mai dalla sua libertà. Il fato domina tutto l'orizzonte esistenziale e lascia passare pochi raggi di luce, raggi che non bastano mai per vedere limpidamente il sole della felicità, tranne che in pochi momenti che, paradossalmente, come nella tragedia greca, sembrano anticipare la condanna definitiva al buio pesto. La felicità è praticamente sconosciuta o sentita come un lampo che sfiora per un attimo il cuore per finire poi lasciando amare tracce impossibili da cancellare.3) L'uomo del tango è un uomo tradito. Da chi? Dalla donna amata, da colei in cui aveva posto tutte le sue speranze. Abbandono, tradimento, gelosia, umiliazione... sono elementi rilevanti dell'atteggiamento dell'uomo del tango. Elementi che soltanto desunti dalla sua esperienza lo portano a chiudersi in se stesso e a rifiutare ogni possibilità di aprire le porte al "novum". Stanco, "sbranato" dai tradimenti della donna, chiude la bottega del sentimento. Il resto dei suoi giorni sono solo "memoria crudele" di ciò che fu e un rimpianto senza posa per la donna amata e perduta. Le sue ferite sono inguaribili e sembra che si compiaccia di questo eterno tormento.4) La vita è posta sotto il segno dell'esistenzialismo tragico perché vivere è sempre subire le onde di un destino che lo travolge senza pietà. La dramaticità è l'humus non soltanto dei testi ma pure della musica. Un pathos di malinconia, di tristezza e pure di morte risuona nelle note del tango. Per dirlo con una metafora: non celebra mai la primavera poiché il tango dipinge i suoi suoni di autunno e di inverno.5) L'unica barca di salvezza è la figura della madre. E' questa una figura che non lo tradisce  mai e in cui si rifugia cercando il balsamo per i suoi dolori. E' una specie di Madonna, pronta a perdonare tutti i suoi errori e orrori. Cosa che non è una virtù frequente della donna amata. Questa, non di rado, attratta dalla ricchezza, dal benessere, dalla vita facile e spensierata, alza il volo e, senza nulla dire, si accoda volentieri ad altre storie in cui lo champagne e la pellicce subentrano al posto della fame, della povertà e del freddo che, per tanti motivi, era costretta a subire convivendo col suo compagno. 6) Non manca mai il senso di trascendenza, dato che la stoffa religiosa della popolazione da cui è nato il tango è molto forte. E' un dio a cui si dice grazie per i doni ricevuti ma che risulta impotente per illuminarre l'orizzonte e per tirar fuori dalla crocifissione affettiva, dalle passioni amorose che stravolgono l'uomo del tango.7) Una caratteristica positiva da sottolineare è la sincerità e la fedeltà ai suoi amici. L'uomo del tango è leale perché ha un altissimo senso dell'amicizia, un senso che egli non tradisce mai. E' capace di rischiare la vita per gli amici; è capace di mettere a rischio la propria pelle quando è l'ora di diffendere l'onore degli amici, e pure della donna, sia o no la propria compagna. 8)Un altro profilo mi preme sottolineare prima di finire: L'uomo del tango non si arruffianerà mai! Senza dubbio questi dati positivi sono da ammirare, elogiare, ponderare, ma non riescono a controbilanciare la negatività dei precedenti.Riconoscere i profili antropologici negativi come elementi sistematici e strutturanti del tango, non è stato del mio piacimento, ma devo dire che non venivano che a confermare intuizioni profonde che da tempo mi sembravano vere.
 A MODO DI CONCLUSIONE. Se il tango è "un sentimento triste che si balla", la tristezza di questo sentimento  ha lontane radici. Dato che il tango è nato, soprattutto, dalla cultura dell'emigrante, si deve considerare, che tutta questa gente, non è emigrato per motivi turistici, per fare un "viaggio di piacere", ma perché spinti, espulsi dalla miseria della loro terre. E' la fame che fa emigrare non l'arte. Attraversando l'oceano hanno lasciato dietro una storia pesante, da dimenticare. E in questa odissea hanno perso per strada brandelli di speranze che l'acqua ha inghiottito. Sono arrivati senza nulla, e non sempre con la speranza di giorni migliori. Gli dei, ironicamente, prendendosi beffa di loro, gli avevano già condannati al fallimento, ad un'erranza senza fine. L'unico punto fermo in cui ancorare l'anima è la madre. L'uomo del tango è "mammone". Poche volte emerge in senso forte, generoso, la figura del padre. I testi del tango parlano abbondantemente, in modo esplicito ma anche implicito, di questi argomenti.Ovviamente dalla mia brevissima (e criticabile) descrizione, l'uomo del tango appare come una figura drammatica, pessimistica, anzi tragica, con poche o quasi nessuna possibilità di riscatto e di vivere una vita discretamente felice. Abbandonato da "lei" non di rado trascorre le sue notti ubriaco sul bancone di qualche malfamato bar. Non è un uomo da invidiare né da imitare. E' l'uomo del lamento ma che non versa mai le sue lacrime in pubblico perché "il macho non piange".Un ricordo personale: Non ho visto mai versare una lacrima a mio padre, nemmeno quando il cancro consumava pelle e ossa e lui, a casa mia, moriva in silenzio, mentre i suoi dolori gli facevano provare le pene dell'inferno."Il tango è un sentimento triste che si balla", diceva Discepolo. Vorrei però aggiungere un'altra definizione. E' di una napoletana che ha scritto un bel commentino nel post precedente. "Il tango è una fusione di anime senza tempo, senza cittadinanza". Se questo è vero, il tango, nato nelle periferie del vecchio Buenos Aires, oggi è un "sentimento" che, triste o no, non lascia indifferente nessuno.