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« L'altra faccia del crimine

Pioggia d'Agosto

Post n°101 pubblicato il 17 Febbraio 2009 da GreatTeacherFrume


di Davide Frumento


 


Una volta questa era una città tranquilla, a misura d’uomo, con tutto ciò che si possa desiderare; un posto in cui vivere,insomma. Poi all’improvviso è cambiata. O forse sono io ad essere cambiato. Un uomo deve fare le proprie scelte,trovare un  cammino e quando comincia a starti stretto persino il fatto che quel dannato viale alberato in centro sia percorso sempre dalle solite facce allora è il momento di comprenderne il perchè. Quando quel mattino di molti anni fa mi ritrovai a rifletterci sopra preparai i bagagli e partii per un posto in cui pensare era molto più facile. Era il periodo in cui gli esami finiscono e il mio lavoretto part-time avrebbe potuto aspettare almeno una settimana. Quindi mi alzai dal letto e andai a radermi quel poco di barba che avevo sul mento. Mi lavai, mi asciugai e decisi di soffermarmi ad osservare la mia immagine riflessa nello specchio. Guardai bene e vidi un ragazzo di vent’anni sognatore per natura, con i capelli arruffati ancora umidi e occhi che proprio non trovavano ciò che da sempre andavano cercando. Cambiare aria per un po’ mi avrebbe fatto bene.


Tornai in camera e mi misi addosso i primi vestiti puliti che avevo sotto mano, poi presi la valigia e la spalancai sul letto ancora sfatto. Era spoglia come il cielo d’autunno, come quel mattino d’Agosto che mi guardava andar via. Mi mossi verso l’armadio e ne trassi diverse magliette, qualche paio di pantaloni e alcune felpe, poi stipai tutto in valigia. Presi anche alcuni libri che parlavano di batteri, malattie e codice genetico, per non perdere l’allenamento durante la mia breve assenza da quella piccola città. Rifeci il letto alla meglio e scesi in strada con il mio fagotto per caricarlo in macchina, quella vecchia e scassata auto in cui c’era abbastanza benzina per raggiungere l’altro capo del mondo. Il messaggio che avevo lasciato sul tavolo diceva – Tornerò tra una settimana o poco più. Non cercatemi, il telefonino è in camera. A presto. –


Inforcando gli occhiali da sole mi chiesi il perché di questa piccola follia ma non trovando una risposta soddisfacente montai in macchina e misi in moto.


Senza neanche accorgermene mi trovai a sfrecciare sul rettilineo che dava sul mare, con le palme che sfilavano una dopo l’altra alla mia destra e i bagnanti che cominciavano a popolare la spiaggia. L’autoradio a tutto volume sosteneva il mio animo in contrasto con una canzone dei Queen che imponeva di non fermarsi, mentre sentivo il motore che già soffriva. La mia meta era una casetta di campagna, un monolocale immerso nel verde silenzio di un bosco che vedeva un essere umano ogni tanto, passare e andare via. Le chiavi me le aveva lasciate un amico ed era tempo di utilizzarle.


Mi fermai a fare colazione presso un bar lungo il tragitto e parlando con il gestore mi accorsi quanto stesse stretto in quel posto, anche lui compresso lì da sempre ma ormai troppo vecchio per andarsene. Caffé e cornetto mi avevano già detto qualcosa. Ripresi il viaggio, salendo per strade a serpentina che si perdevano in mezzo ad alti alberi freschi e rigogliosi, osservando il mondo, ascoltando il motore su di giri ed una canzone che faceva compagnia. Attraversando i paesi potevo vedere donne anziane che le mie domande se l’erano già poste e uomini di fronte al bar vestiti per la festa, ai quali magari certe cose parrebbero inutili. Forse quando avevano vent’anni si erano chiesti dove stessero andando e cosa stessero facendo, il perché di tutto questo. E forse hanno dovuto darsi una risposta che magari non li soddisfaceva, consapevoli che quella vallata li avrebbe tenuti stretti a sé per sempre. Immerso in tali riflessioni oltrepassai un ponte di legno vecchio come il tempo, con le assi che sussultavano sotto i pneumatici della mia vecchia auto tutta ammaccata. La polvere ricopriva ogni centimetro della sua carrozzeria scarlatta, che proseguiva come un puntino rosso tra le colline che a tratti la inghiottivano per poi riportarla sotto il cielo azzurro.


Vidi un campo di grano maturo color del sole e un uomo sulla sessantina seduto sul ciglio della strada, solo ed in silenzio, quindi fermai l’auto e scesi. Sedetti accanto al contadino.


“ Buon raccolto? – feci io.


“ Si, abbondante. – rispose lui sistemando il cappello grigio sul capo -  Cosa la porta su questo monte? “


“ Devo riflettere sulla mia vita, su cosa sto facendo. Ho paura di non sapere dove sto andando.


“ Una volta me lo chiedevo anch’io. Poi con il tempo ho smesso.


“ Perché? Non la interessava più saperlo?


Il suo viso scavato da anni di lavoro nei campi, percorso da mille rughe che sembravano sentieri, si distese. Gli occhi castani, che facevano contrasto con i capelli ormai canuti, volsero all’orizzonte.


“ Che senso ha chiedersi qualcosa a cui si risponde solamente vivendo?


Non parlai.


“ Vede, non lo sa neanche lei. – disse poggiandomi la mano callosa sulla spalla destra – Viva, ragazzo mio, e vedrà che ho ragione. Così tra vent’anni forse si ricorderà di questo vecchio.


Poi si alzò e si incamminò sul sentiero vicino al campo, le mani dietro la schiena.


“ Lo farò! – gridai quand’era già lontano. Sollevò il cappello e proseguì senza voltarsi.


 


Chissà perché in campagna la gente ha sempre voglia di parlare, scambiare due parole. Non ve lo siete mai chiesto? E’ una cosa rara in città, non lo fa quasi nessuno, forse è passato di moda. E’ un fatto di purezza, la semplice predisposizione a passare qualcosa dalla propria anima a quella del prossimo, ed è stupefacente. Rimasi seduto ad osservare la campagna per un buon quarto d’ora, poi mi alzai e mi rimisi al volante. Quell’uomo mi aveva lasciato in uno stato di inquietudine più intensa di quella che avevo provato prima di partire ed ora la stretta allo stomaco andava aumentando. All’improvviso non sapevo più nulla di me stesso. 


Era ormai l’ora si pranzare e nonostante il mio stato d’animo non fosse il dei più consoni mi fermai a mettere qualcosa sotto i denti. Entrai in una trattoria dalla grossa insegna, con alcuni tavoli in solida plastica bianca all’esterno, coperti dall’ombra di un pergolato metallico rivestito da piante rampicanti e fiori violetti. Entrai e sedetti al primo tavolo singolo e carezzando la tovaglia di carta vidi arrivare la cameriera. Una ragazza sui diciassette anni, che posò il cestino del pane sul tavolo, salutò e tornò in cucina. Venne al tavolo quella che doveva essere la madre, un donnone massiccio con i cappelli neri raccolti sulla sommità del capo e il viso paffuto. Prese l’ordinazione e dopo poco tempo tornò portando un piatto di pasta fumante, tenendo una brocca d’acqua con altra mano. Era una signora cordiale, di quelle che metterebbero a proprio agio anche il più imbarazzato, o forse era solo l’immagine che volevo averne in quel momento. Mangiai con calma, riflettendo su ciò che aveva detto quell’uomo vicino al campo di grano, ma non trovavo una risposta ai miei interrogativi. Dove stava andando la mia vita? Insomma, che avrei fatto in futuro? Certo, ora stavo studiando rincorrendo nobili scopi, volevo cambiare il mondo, ma non sapevo che sarebbe successo. Non trovavo neanche un senso a ciò che stavo facendo e mi sentivo perso. Rispondersi solamente vivendo…


Pagai il conto e mi avviai verso l’auto, per raggiungere la meta entro sera. Ora il sole splendeva al proprio massimo e l’abitacolo somigliava ad una sauna, quindi aprii la portiera e aspettai qualche minuto. La strada si snodava tra un paesino e l’altro, come i pensieri che andavano confondendosi nella mia mente. Mi fermai al distributore per fare benzina.


“ Venticinque euro – dissi al gestore, che annuì stancamente.


Calò il berretto blu sugli occhi, poi si diresse verso la pompa ed impugnò l’iniettore. Svitò il tappo del serbatoio e iniziò a versare il carburante con la svogliatezza di chi lo fa da sempre, meccanicamente. Era un uomo di mezza età, non troppo giovane e non troppo vecchio; chissà da quanto lavorava al distributore. Anche lui come gli anziani fuori dal bar aveva l’aria di chi si è rassegnato a vivere in un luogo troppo piccolo e stretto per lui, ma aveva qualcosa di diverso. Quel suo viso stanco, stufo di essere un automa che pompa benzina, dava ad intendere che certe domande erano sempre da qualche parte nel suo cuore, per uscire ogni tanto e manifestarsi. Non parevano inutili, almeno a lui, che continuava a lisciarsi i baffi brizzolati mentre il liquido fluiva nel serbatoio con un ronzio simile a quello di uno sciame d’api.


Il flusso di carburante si interruppe bruscamente, risvegliandomi dalle riflessioni  come uno schiocco di dita dall’ipnosi. Pagai il dovuto e mi allontanai sull’asfalto, in quel sonnolento primo pomeriggio. Guidai ancora per chilometri e chilometri, macinando strada fino a sera, mentre continuavo a crogiolarmi nelle parole di quel contadino. Arrivai a destinazione all’imbrunire, fermai l’auto dinnanzi alla casupola e scesi giocherellando con le chiavi, che rimbalzavano da una mano all’altra. I suoni del bosco sussurravano chissà quale melodia e la brezza della sera mi cullava portando un profumo di fiori estivi che scaldava l’anima. D’improvviso le chiavi mi caddero di mano finendo sull’erba umida con un piccolo tonfo, che risuonò nella mia mente come un tuono. Ora potevo capire! Ricollegai in fretta il contadino, la ragazzina alla trattoria, ed infine il benzinaio. Tutti e tre mi avevano comunicato qualcosa, ma avevo elaborato troppo, avevo cercato una risposta logica e non l’avevo trovata; ma ora, senza pensare a niente, nel bel mezzo di un tramonto di campagna avevo capito che il contadino aveva ragione. E’ il presente che bisogna vivere, senza stupide preoccupazioni che avvelenino l’esistenza, senza domande inutili. La ragazzina alla trattoria si arrovellava forse in enigmi riguardanti un futuro incerto? No, ancora troppo bambina per farlo, e viveva serenamente! E quel benzinaio che continuando a farsi domande passava giornate intere a rodersi il fegato? Quell’anziano signore seduto sul ciglio della strada mi lasciò ben più di una semplice frase, ben più di un proverbio. Tra le mani abbiamo solo il presente, evanescente come l’arcobaleno; da un momento all’altro tutto avrebbe potuto crollare senza che io me ne rendessi conto, ma non importava più. Ora ero in piedi di fronte a quella casetta malandata e ridevo, ridevo di gusto. Quanti problemi mi ero posto per nulla, quante preoccupazioni insensate.


Raccolsi le chiavi da terra e rimontai in macchina, mettendo in moto immediatamente. Ora potevo tornare a casa, rimanere lì a meditare non sarebbe più servito e certo la lavata di testa che avrei ricevuto per la mia fuga dalla realtà mi rallegrava, perché ora avevo il cuore sereno. Un temporale d’Agosto esplose nel cielo con lampi e saette, a ricordarmi di vivere l’attimo. Ora, se avessi potuto vivere solamente un altro secondo, avrei vissuto come un fulmine. 


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