Riflessi di me

Sfoghi


Nella stanza d'ospedale eravamo come incapsulati. Una giugla bianca, dove il calore che emanava da Lui rendeva stagnante l'aria. Arrivavo ogni mattina alle nove, mi toglievo cappotto, guanti e sciarpa, sedevo sulla sedia a schienale rigido e rinunciavo a ogni appartenenza al mondo esterno. Potevo restare immobile per ore. Solo quando la penombra del crepuscolo calava su di noi, scurendo la coperta leggera, mi alzavo per accendere la lampada da notte, una striscia sottile e luminosa, bizzarra,ente simile i faretti delle gallerie. Non parlavamo molto. Comunicavamo soppratutto a gesti: sopraciglia che si inarcano, dita che si sfiorano, tamburellamenti sulle palme... linguaggi necessari, idiomi alternativi. Quando lui sonnecchiava, io gli tenevo la mano, quella che gli aghi non avevano reso insensibile, e aspettavo che la febbre calasse. A primavera pensavo sarebbe tornato a casa. I suoi capelli sarebbero ricresciuti. Avrebbe potuto dormire sul balcone, al sole. Quando la notte stemperava nel mattino, lui mi rivolgeva uno sguardo " Vai a casa" Diceva " Devi essere esausta". MI alzavo per abbracciarlo. Le sue braccia sottili mi circondavano la schiena. Trattenuto il grido di angosvia, e al suo posto il bacio di congedo.