28 settimane dopo - Juan C. Fresnadillo - 2007

Post n°38 pubblicato il 17 Giugno 2007 da wellburnthesky
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Circa sei mesi dopo l’iniziale scoppio dell’epidemia (vista in 28 giorni dopo) tutti gli infetti sono ormai morti di fame e l’Inghilterra può lentamente uscire dall’isolamento mondiale cui era stata sottoposta per impedire al morbo di raggiungere anche le altre parti del globo. Con l’aiuto dell’esercito statunitense, i pochi inglesi che si trovavano all’estero durante quel periodo vengono reintrodotti in patria e alcuni hanno la fortuna di ritrovare i loro parenti ancora in vita. Si comincia a ricostruire, partendo da un particolare settore di Londra, ben sorvegliato dai militari. Un padre (che durante quelle terribili settimane ha purtroppo perso, facendosi vincere dalla paura, la moglie) accoglie con gioia il ritorno dei suoi figli, ma una terribile sorpresa attende tutti gli occupanti della zona quando il morbo esploderà di nuovo in tutta la sua virulenza tramite un portatore sano…

Bisogna riconoscere ai produttori di 28 settimane dopo una buona dose d’intuizione nell’individuare in J. C. Fresnadillo il regista capace di raccogliere l’eredità di D. Boyle e riportare in pista gli infetti e rabbiosi protagonisti del primo, importante 28 giorni dopo. Il regista spagnolo aveva dimostrato buono stile e brillanti intuizioni qualche anno fa con Intacto ma il suo modo di girare non sembrava certo, a prima vista, quello più adatto per mettere nuovamente in scena gli pseudo-zombi iper-frenetici che tanto avevano stupito nel 2002.

Ecco invece la sorpresa di assistere a un sequel che, pur drasticamente inferiore all’originale e spesso in assurdo debito d’ossigeno causa scellerate sviste a livello di sceneggiatura, riesce a destar più di un motivo d’interesse nel critico e nel pubblico, vuoi per alcune buone intuizioni nello sviluppo dei personaggi, vuoi per l’ottima mano mostrata nella gestione di alcune scene nodali, vuoi per un alto tasso di violenza/splatter che non è mai fine a se stesso.
Il film, intrappolato in un una intro e outro claustrofobiche e tesissime (entrambi poi sfocianti in scene all’aperto similari ma di impatto ben diverso), vive i suoi momenti più indecisi quando impone allo spettatore di digerire l’intera meccanica dell’incidente che riporta l’epidemia ai massimi livelli, un insieme di scene condotte come peggio non si può sia a livello di credibilità dei fatti che per quanto concerne il montaggio del girato, davvero troppo frammentario e veloce.
Ed è frustrante pensare a quanto questo singolo aspetto riesca a inficiare la resa finale della pellicola, che avrebbe potuto raggiungere ben altro status.
Juan Carlos Fresnadillo però si mostra assai capace sia a gestire l’emoglobina che a pitturare una Londra in rovina, deserta e piena di cumuli di cartacce e immondizia, sorvegliata dall’alto dai pochi snipers disposti dall’esercito USA.

Non riesco ad avvallare del tutto la chiave interpretativa offerta da alcuni critici che vedono nell’intera vicenda un forte e manifesto riferimento all’occupazione statunitense in Iraq, ma dopotutto ognuno vede quel che vuol vedere!
Don perde la moglie e i figli a causa dell’epidemia, poi riesce a ritrovare la prole salvo vedersela portare di nuovo via sempre a causa del morbo. A quel punto intervengono una dottoressa e un marine che scortano i due bambini diventandone i genitori putativi e si riaggrega quindi la famiglia, ma la rabbia interviene di nuovo a scindere questo nucleo per organizzarne infine uno nuovo, in tutti i sensi…

Il regista offre appunto il meglio di sé nel costruire questa complessa serie di distruzioni e ricostruzioni (che, in senso più largo, possono valere anche per una parte di Londra) ed è aiutato efficacemente da tutti gli attori coinvolti fra cui troviamo un Rorbert Carlyle fin troppo bravo nel passare, in una scena memorabile per intensità recitativa e uso del gore, dalla figura del padre codardo e pieno di rimorsi a quella di novello Saturno, capace di piegare la malattia rabbiosa ai suoi fini e scopi.
Pur eccedendo in alcune scene di massa (specie quando viene coinvolto l’esercito con tanto di bombardamenti intensivi) la pellicola riesce sempre a recuperare l’interesse dello spettatore quando torna a puntare la lente dal macroverso al microverso della personale odissea dei due bambini, sballottati come pacchi dall’inizio alla fine del film.

Voto: 8


 
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Pelts - D. Argento - 2007

Post n°37 pubblicato il 17 Giugno 2007 da wellburnthesky
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Jake Feldman, pellicciaio attratto morbosamente dalla spogliarellista Shana, entra in possesso di svariate pelli di procione di ottima qualità. La pelliccia che ne deriva è magnifica ma maledetta, infatti, gli animali sono stati uccisi in una zona custodita da una donna misteriosa, che spiegherà a Jake la loro natura magica. Intanto, le persone a contatto con la pellicciaimpazziscono, togliendosi la vita o trasformandosi in spietati assassini. Lo stesso Jake finirà per ferirsi brutalmente e rincorrere Shana in un finale con sangue a fiumi.

Il film è uno splatter a tutti gli effetti, con produzione e durata (un'ora, come gli altri episodi di Masters of horror) che dovrebbero favorire il genere in questione, lasciando Argento libero di condensare in poco tempo scene di violenza ultragore senza censure. Peccato però che il film sia anche piuttosto noioso, girato con mestiere ma recitato malamente, incapace di andare oltre i pur ottimi trucchi (Sarah Graham) ed effetti speciali (curati da Attila Vaski).
Quello che Argento sembra dimenticare è che il pubblico (specie nell'horror o nel thriller) deve in qualche modo affezionarsi, se non identificarsi, con un personaggio, lezione riscontrabile nel cinema di genere che il regista ha contribuito a creare. Argento in altri film e' riuscito a creare personaggi a cui è impossibile restare indifferenti: suscitano emozioni (simpatia o antipatia, rabbia, divertimento) che portano lo spettatore a legare con gli attori
e i protagonisti del film, a sentirseli accanto come fossero seduti qualche fila più avanti nel buio della sala. E una volta che questo accade l'eventuale scena brutale e violenta a interrompere lo stato di quiete rimarrà sicuramente nella mente dello spettatore. Molti thriller italiani funzionavano in questo modo, e anche quando agli inizi degli anni ottanta il gore puro prendeva il sopravvento (dimenticando nella maggior parte dei casi questa lezione) i risultati godevano di una qualità visiva
e tecnica che ormai Argento sembra avere perso definitivamente.

Pelts invece non emoziona mai, limite grandissimo per un film d'orrore. Gli effetti sono certamente di buona qualità, il ragazzo che infila la testa nella tagliola strappandosi la faccia, l'uomo che si sventra estraendo le proprie budella o l'operaia che si cuce il viso fino a uccidersi sono trucchi di ottima fattura, ma trattandosi di una produzione americana di buon budget questo non stupisce più
di tanto. Le location sono molto meno curate, mentre le musiche di Claudio Simonetti da dimenticare (il commento sonoro che ammalia i poveri personaggi a contatto con la pelliccia è persino irritante).
Tra le pochissime note positive la scena in cui Meat Loaf si reca dalla donna che abita dove sono stati catturati gli animali, e decine di procioni accorrono a spiare attraverso i vetri delle finestre. È una sequenza affascinante, quasi da fiaba, gli animali uno fianco all'altro, fermi, a spiare e ascoltare la custode del loro segreto. Anche i primi minuti del film (con i flash delle macchine fotografiche a illuminare il "lago" di sangue che poi concluderà il film) sono riusciti, ma è veramente troppo poco per un film noioso che vive di sole scene splatter legate tra loro da dialoghi senza senso e personaggi approssimativi. Film consigliato solo agli appassionati del genere... non aggiunge niente di nuovo... ma c'e' anche molto di peggio.

Voto: 6

 
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L'ultima casa a sinistra - Wes Craven -1972

Post n°36 pubblicato il 10 Giugno 2007 da wellburnthesky
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Il film inizia a casa dei Collingwood, situata nella periferia di un tranquillo sobborgo. Una ragazza, Mari Collingwood, ottiene dai suoi il permesso di festeggiare il suo compleanno andando a un concerto rock a New York con l'amica Phyllis. Mentre i due cercano di comprare della marijuana, per rendere questa giornata ancora più speciale, le ragazze vengono rapite da Krug (interpretato da David Hess), un criminale evaso, e la sua banda. Le due vengono condotte in campagna, dove saranno oggetto di disgustose ed umilianti torture. Dopo aver abbandonato le ragazze morenti e trovandosi quindi in difficoltà su una strada desolata, le canaglie chiedono ricovero a una coppia molto ospitale. La banda riesce a spacciarsi per degli uomini d'affari, fino a quando la coppia ospitante (che si rivelerà essere la stessa famiglia Collingwood) comincia ad avere dei sospetti riguardo ai suoi ospiti, fino a risalire alla verità, preparando così la propria vendetta.

Il film di Craven fu contestato per la sua rappresentazione esplicita della violenza, e anche per come la banda abbia imposto i propri desideri psicopatici e sadici sulle loro vittime. Craven nella scrittura di questo film fu molto influenzato dalle terribili e orripilanti immagini che vide in un metraggio sulla guerra in Vietnam, e decise di veicolare la repulsione verso quella terribile violenza.

Il film ha diviso l'opinione dei critici, i quali erano incerti se il film fosse un audace tentativo di rendere il concetto di violenza nei moderni film horror o piuttosto un film di violenza fine a se stesso, o una sorta di combinazione tra le due cose.

Il pubblico, in ogni caso, andò in massa a guardare il film e lo giudicò, così come era accaduto per The Texas chainsaw massacre, un nuovo modo di rappresentare realisticamente la violenza nei film horror.

Il film ebbe molti problemi con la censura in tutto il mondo, ma il caso nel Regno Unito fu quello che ebbe maggior risonanza.

Nel 1974, la BBFC rifiutò di riconoscere il certificato di rilascio per la proiezione del film nei cinema, a causa delle sue scene di sadismo e violenza. Comunque nei primi anni ottanta, grazie al boom dei videoregistratori di casa, fu pubblicata un'edizione VHS incensurata che non poteva essere sospesa. Tuttavia, in occasione dell'approvazione, nel 1984, del Video Recordings Act, "l'osceno film" sconvolse i supervisori che lo sospesero, finché esso non fu inserito dal Dipartimento delle Pubbliche Persecuzione nella lista dei "film osceni".  Ancora non è stato riconosciuto alcun permesso per la proiezione nei cinema, e non è nemmeno stata rilasciata una versione del DVD incensurata.

E' un Wes Craven ancora acerbo a dirigere questo durissimo film; si tratta in fondo della sua prima opera, ma ciò non toglie che Last House on the Left rappresenti una pellicola molto importante e ricca di spunti notevoli degni di nota. Di sicuro il fatto che la minaccia non sia costituita da mostri di varia natura e che il “male” sia qui rappresentato invece da quattro persone "normali"  è motivo di interesse, e crea un precedente che dà vita ad una serie di pellicole ispirate a fatti di cronaca realmente accaduti e caratterizzati da un tremendo, freddissimo, disturbante stile di regia quasi documentaristico, che non lascia spazio ad estetismi di sorta per lasciare sotto i riflettori la cruda realtà.

L’opera prima di Craven è crudele, un pugno alla bocca dello stomaco, un manifesto dell’ultra-violenza, una mostra di atrocità che probabilmente sarebbe stata sviluppata meglio se il regista avesse avuto un briciolo di esperienza in più. Senza nulla togliere all’effetto totale/finale della pellicola. Il regista e gli sceneggiatori di Saw II, all'interno del DVD del film stesso, hanno dichiarato che ci sono molteplici allusioni al film L'ultima casa a sinistra. La più ovvia è quando Jigsaw dice all'investigatore Matthew che suo figlio è: "nell'ultima casa a sinistra".

Voto: 7

 
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Evilenko - David Grieco - 2004

Post n°35 pubblicato il 03 Giugno 2007 da wellburnthesky
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Il vuoto pneumatico del regime comunista ha creato i suoi mostri, assassini seriali altrettanto truci e crudeli di quelli americani o anche europei.
Con il crollo del comunismo degli anni della Perestrojka viene alla luce il più efferato assassino: Andrej Romanovic Evilenko.
Tra il 1984 e il 1990 uccide più di 50 bambini e adolescenti, violentandoli e divorandoli. Il mostro della striscia di bosco, di cui parla il film è un professore di letteratura russa in un orfanotrofio della periferia di Mosca, malato senza saperlo di schizofrenia. Astuto e inafferrabile, Evilenko nasconde la propria efferatezza dietro un sorriso deforme e uno sguardo ipnotizzante con i quali riesce ad avvicinare le proprie vittime portandole con sé nei boschi isolati della periferia cittadina. Dopo lunghe ricerche sarà un giovane magistrato e padre di famiglia Vadim Timurovic Lesiev a rintracciarlo e dopo un estenuante interrogatorio a farlo confessare.


Il giornalista, scrittore, attore, sceneggiatore e ora anche regista, David Grieco trasforma il proprio romanzo, "Il comunista che mangiava bambini" in un film, per raccontare questa volta con le immagini la vita di uno dei più celebri serial killer dell'Unione Sovietica, Andrej Romanovic Cikailo, intellettuale, pedagogo e soprattutto comunista che nonostante fosse clamorosamente pazzo, venne dichiarato sano di mente e frettolosamente giustiziato il 14 febbraio del 1994, mentre due studi di ricerca (uno europeo e l'altro americano) offrivano consistenti somme di denaro per farsi consegnare il mostro vivo.
Un personaggio profondamente colto ma altrettanto folle che trova nel magnetico Malcom Mc Dowell un ottimo alter ego. Un'interpretazione principalmente fisica la sua: l'attore infatti si trasforma ingobbendo il corpo sotto il profondo senso di inadeguatezza che il proprio personaggio prova nei confronti della propria identità di comunista e per quell'insana attrazione verso i bambini.

Se si dovesse indicare il pregio maggiore di questa trasposizione cinematografica che David Grieco ha tratto dal suo libro ‘Il comunista che mangiava i bambini’, sarebbe quello di aver mantenuto la metafora socio-politica su un sentiero costantemente ambivalente e incerto: è la liberazione dalla tutela di un’ideologia forte in nome di un nuovo corso ancora nebuloso ad aver partorito il mostro di Rostov?; oppure l’avvento della perestroika ha avuto il merito di aprire finalmente uno dei tanti cassetti che custodivano il diario segreto su cui era descritta l’infamia di crimini immondi?
E se invece si dovesse riassumere in poche parole il peggior difetto del film di Grieco, allora non si potrebbe tralasciare l’evidente asservimento ai codici linguistici da fiction televisiva, l’adeguamento alla ‘non-estetica’ contagiosa e sgualdrina che ha di fatto schiavizzato molte produzioni italiane.
Con uno scarto tuttavia, perché Evilenko, a differenza di altri film tricolori, trasuda sostanza e impeto da tutte le incrinature che ricoprono questa fiaba amarissima, disseminata in effetti di sbavature registiche e narrative molto evidenti e ascrivibili probabilmente alla genericità di un debuttante che non ha ancora ‘inquadrato’ (non è un attenuante, tutt’altro) il suo stile e il suo sguardo personale.
Evilenko investe lo schermo con una foga molto disorganica e dispersiva; e non potrebbe essere altrimenti perché, in fin dei conti, la vicenda del ‘Mostro della striscia di bosco’ non sembra altro che l’emersione alla luce del sole di una pulsione per troppo tempo repressa nelle giacenze buie e fuori moda del magazzino veterocomunista.
Ed è una pulsione sessuale violenta che tutti faticano a razionalizzare, fatta eccezione per il malcapitato dottore omosessuale che si getta sulle tracce del mostro di Rostov; è lui l’unico a fornire una spiegazione plausibile,derivante dai suoi studi psicanalitici, a quegli impulsi bestiali. Il problema è che la psicanalisi, sebbene sia nata un secolo prima, sembra, nella russia gorbacioviana, ancora appartenere alla sfera dell’ignoto: si tratta di arretratezza culturale o ingenuità dilettantesca di chi non ha mai dovuto affrontare o nemmeno considerare la divulgazione pubblica di crimini osceni come quelli della pedofilia e del cannibalismo?
Un interrogativo lasciato senza risposta tra le pieghe di quella che non è altro che una favola, appunto, dove ad essere protagonista è un orco assatanato da un desiderio che per decenni ha sublimato fluttuando agevolmente tra le onde di una convinzione ideologica inattaccabile.
Il Comunismo era (è) una cosa sacra per Evilenko ed egli ci rimane ossessivamente affezionato come un bambino testardo; Evilenko si esprime con i disegni, proprio come fanno i bambini: essi sono il suo diario di bordo e segneranno la sua condanna. Evilenko non può sopravvivere alla fine del suo gioco, non vuole accettarlo: il comunismo rappresenta tutta l’oscurità di un passato lunghissimo, monotono e invisibile che erompe nell’attacco ad un altro aspetto totalmente sacro e intoccabile: l’innocenza del bambino.
I bambini sono allora i nuovi giocattoli a cui Evilenko si avvinghia con passione animalesca; e così come era stato invisibile prima, il mostro continua ad esserlo ora che compie i suoi assassinii (più di cinquanta) senza lasciare indizi, apparendo e scomparendo come un invincibile e solitaria creatura dei boschi.
E intorno a lui, testimoni impreparati delle sue aberrazioni, orbitano stupefatti i comunisti di vecchio e nuovo corso, il Kgb, il popolo, le autorità, e un magistrato progressista che per affrontare e inibire le pulsioni del mostro ha bisogno di organizzare un confronto corpo (nudo) a corpo (nudo) con Evilenko.
E i nodi vengono al pettine. C’è un uomo ‘normale’al di là dei lividi e dei gonfiori, sotto quelle vesti insanguinate; e c’è un uomo anche di qua, sotto il candore della divisa da ufficiale progressista che si è adeguato malavoglia al crollo di un’idea.
Alla fine emerge la colpevolezza, con tanto di date, nomi delle vittime e dettagli degli omicidi truculenti; ma affiora soprattutto il disorientamento diffuso che scaturisce dalla presa di coscienza che dietro la bestialità, la ferocia, la degenerazione morbosa c’è un la cronaca vera di uomo, un ‘uomo sovieticus’ alle prese con i suoi demoni interiori. È una sorpresa che non si aspettavano.

Voto: 7

Trailer

 
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La maschera del demonio - M. Bava - 1960

Post n°34 pubblicato il 03 Giugno 2007 da wellburnthesky
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Il film d'esordio del regista sanremese ricalca esteriormente le gesta dei film gotici della Hammer e della Universal, ma con una personalità ed uno stile unici ed originali, che negano alla fonte il carattere di puro entertainment. La sceneggiatura è tratta da un racconto di Gogol dal titolo Il Vij e di cui Bava stravolge però il contesto generale: dove in Gogol ci sono ironia, atmosfere quasi surreali e atteggiamenti più fantastici che orrorifici, in La maschera del demonio ci sono crudeltà, ribrezzo e larghe concessioni al macabro. Il maestro italiano immerge la storia in un paganesimo atavico e pieno di conseguenze che, travisando volutamente il racconto gogoliano, lo ammantano di un'aura da gothic novel con tanto di risultanze romantiche (la storia d'amore tra Andrei e Katia) estranee a Il Vij dello scrittore russo. Inoltre il bianco e nero di Bava è illuminato morbidamente, con tinte turgide e lontanissime dai chiaroscuri sovraccarichi dell'Espressionismo. Semmai l'unico vero ed evidente debito nei confronti di un classico del filone succitato, è quello verso il Nosferatu di Mamau, sia per la famosa scena della carrozza (che Bava, in modo diverso, riprende al ralenti e senza il caratteristico negativo del regista tedesco) e sia per il volto della strega che "fuoriesce" dalla bara (in questo caso un altro riferimento potrebbe essere anche quello ad una scena simile del Vampyr di Carl Theodor Dreyerr). Le immissioni più orripilanti sono, in ogni caso, di marca tipicamente baviana.

Altro merito del film di Bava è quello di aver trasformato un'attrice praticamente sconosciuta come Barbara Steele (nei titoli di testa il cognome è indicato erroneamente come Steel), in una vera icona del cinema alternativo, grazie al suo volto quasi squadrato, dai lineamenti asimmetrici ma dall'immenso e insondabile fascino. Di straordinaria suggestione è, in particolar modo, l'"apparizione" dell'attrice inglese che in lontananza, nella veste di Katia Vajda, tiene alcuni alani al guinzaglio come una seducente sentinella a guardia dell'inferno. Il tema del doppio (la Steele ricopre, infatti, anche il ruolo della strega Asa) è sicuramente uno dei più caratteristici del film di Bava, il quale porterà alla perfezione l'ambivalenza dei suoi personaggi in Operazione paura, con una delle sequenze più memorabili della sua intera filmografia. Ma il momento più indicativo del film è sicuramente quello della scena iniziale: la strega viene giustiziata insieme al suo amante. Fiumi di inchiostro sono stati scritti sulla soggettiva della strega, ripresa nel momento esatto in cui il boia posiziona sul suo volto l'infamante e raccapricciante maschera chiodata. A noi non resta che ribadire la grande capacità di Bava nel rappresentare lo spazio diegetico, la cui segmentazione è ridotta al minimo optando, grazie ai carrelli e ai piani-sequenza, ad un suo progressivo ingrossamento (come quando la macchina da presa che, muovendosi febbrilmente all'interno del castello, segnala l'arrivo di Iavutich o, ancora, per le sequenze ambientate nel bosco). Non da meno è la padronanza dei mezzi tecnici in cui il regista italiano non è inferiore a nessuno (splendido è il passaggio dal volto in primo piano della strega alla campana dello strumento a fiato, seguito da uno zoom all'indietro che ci proietta nella baldoria del locale pubblico; altrettanto riuscita è la dissolvenza incrociata con cui il volto di Asa appare dai cerchi concentrici dell'acqua, senza che si noti quasi lo stacco). Più oculato e molto efficace in La maschera del demonio è l'impiego del caratteristico zoom fulminante che nei film successivi diverrà una vera e propria cifra stilistica, fino a divenire, in ultima analisi, un vezzo eccessivamente di maniera nelle prove meno riuscite (poche) del maestro sanremese. E tra queste non c'è sicuramente il film in esame che è da considerarsi di diritto (se c'è bisogno di ribadirlo ancora) uno dei classici dell'horror (internazionale) in bianco e nero di tutti i tempi.Bava non utilizza il colore, grande innovazione della Hammer, ma uno stupendo bianco e nero, probabilmente con la volontà di rifarsi ai classici della Universal anni Trenta. Il regista può permettersi infatti di indugiare sulla violenza grazie al fatto che Terence Fisher aveva spostato la soglia del non mostrabile: se il regista inglese rende particolarmente energici gli scontri, cruenti gli impalamenti - anche grazie alle urla disumane delle vittime - , e mostra il cadavere di Dracula decomporsi fino a diventare cenere, Bava non è da meno. Mostra la maschera del demonio che si conficca nel volto di Asa (dal quale zampillano schizzi di sangue), inquadra Javutich mentre si toglie la stessa maschera ostentando il suo volto tumefatto, ed esibisce infine la lenta ricostruzione della carne sul volto di Asa partendo dal cranio putrefatto. E' il tentativo di dare carnalità e spessore fisico al cinema fantastico, di virare verso la corporeità del male, verso l'esibizione del sangue tipica dell'horror moderno. Fin dall'inizio, quando il boia imprime sulle carni di Asa il bollente marchio di Satana (una S appunto) capiamo che qualcosa è cambiato, che il dolore e la mutilazione sono più vicini, più reali, più spaventosamente visibili del solito. Il film comincia con un prologo ambientato in un bosco molto stilizzato, fatto con pochi rami e al cui fondo balugina una luce misteriosa: è evidente che la povertà del budget non metteva a disposizione nulla di più. Lo scenografo si arrangia come può a riempire il set vuoto e Bava si ingegna, abilissimo nell'organizzazione prospettica, a giocare su inquadrature strette (per non far notare la deficienza di mezzi) ma con una grande profondità di campo e con gli elementi posizionati secondo diverse distanze dall'occhio della macchina da presa. Se da una parte dunque Bava da letteralmente un corpo al bianco e nero, dall'altra recupera l'effetto di vecchie pellicole b/n in cui la mancanza di connotazione relegava gli scenari ad un'atemporalità che dava validità perenne alle azioni. La stilizzazione trasforma il set in una specie di palcoscenico della mente umana (o della memoria), una sacra rappresentazione dei vizi e delle virtù con grande valore esemplare.

Le novità de La maschera del demonio sono evidenti fin dai titoli di testa, uno sfondo nero con lapidarie scritte in bianco: quel nero carico di premesse è il punto zero dell'horror italiano, l'alfa e l'omega a cui tutti i film gotici italiani si rifaranno più o meno distintamente. E' il nero dell'anima dell'uomo, il profondo pozzo oscuro dove risiede l'enigma dei più insondabili segreti, dove si deposita il residuo di una paura vecchia come il nostro codice genetico. Il prologo del film è altrettanto indicativo: la cerimonia del rogo alla strega Asa mostra un legame metacinematografico notevole con l'operazione del regista. Gli astanti incappucciati e mai inquadrati in volto o con primi piani, silenziosi nel buio "originario" del bosco, assorti di fronte alle fiamme del rogo purificatore sono come il nuovo spettatore del cinema popolare, spettatore la cui presenza nell'oscurità della sala e di fronte alla luce del proiettore battezza la nascita dell'horror italiano.

 
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L'uccello dalle piume di cristallo - D. Argento - 1970

Post n°33 pubblicato il 03 Giugno 2007 da wellburnthesky
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L'Uccello dalle Piume di Cristallo é il primo film interamente scritto e diretto da Dario Argento. Sam Dalmas, scrittore americano in vacanza in Italia alla ricerca di ispirazioni letterarie, è testimone di un tentato omicidio presso una galleria d'arte. Un uomo pugnala una donna e fugge. Nel tentativo di soccorso Sam rimane bloccato tra le due porte scorrevoli dell'edificio, così approfitta di un passante per far chiamare la polizia. Rimane quindi coinvolto in questo caso a tal punto che quando il comissario Morosini, sicuro della sua innocenza, gli restituisce il passaporto, anzichè tornare in America come aveva pianificato, si improvvisa detective alla ricerca di un particolare che gli sfugge. Nell'aggressione c'era qualcosa di strano e lo scrittore è convinto che quella sia la soluzione del caso.
La sua ricerca parte dai numerosi omicidi avvenuti in cittá negli ultimi tempi e dalla prima vittima, una commessa in un negozio di antiquariato, l'attenzione si sposta su un quadro raffigurante una donna che viene accoltellata da un maniaco, dipinto da lei venduto prima di essere uccisa. Nel corso delle indagini l'assassino si mette in contatto telefonicamente con Sam Dalmas, minacciandolo di uccidere la sua fidanzata
qualora non avesse interrotto le sue indagini, ma un rumore misterioso intuito dietro la voce cammuffata, mette su una pista che condurrá alla soluzione del mistero.

 L'Uccello dalle Piume di Cristallo è come un contenitore di idee che fioriscono nel corso della carriera cinematografica di Dario Argento, un affacciarsi sullo scenario del cinema dell'epoca con un'inconsueta originalità. Tra le fonti é inequivocabile la presenza del grande Maestro Alfred Hitchkock, che lavora nella creativitá del regista romano forgiando un vero e proprio genio dal sapore mediterraneo. Le inquadrature da particolari angolazioni, i primi piani, i dettagli e la scelta di colori erano per l'epoca di grande innovazione, per non parlare delle tematiche, considerando che la moda della psicoanalisi si stava affacciando proprio in quel periodo. Scenografie, personaggi e costumi, colorati dalla magistrale colonna sonora di Ennio Morricone, riportano a un'epoca lontana dai sapori nostalgici. L'Uccello dalle Piume di Cristallo é da considerarsi senza ombra di dubbio un caposaldo della storia del cinema italiano e internazionale.

Prima che Dario Argento iniziasse le riprese de L'uccello dalle piume di cristallo, la regia del film da lui sceneggiato era stata proposta a Terence Young che rifiutò. Alcuni anni dopo Argento chiese a Young se ricordava questo episodio, e lui rispose di no, ma che sicuramente amava molto il film di Argento

 
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Grano rosso sangue - F. Kiersch - 1984

Post n°32 pubblicato il 02 Giugno 2007 da wellburnthesky
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Il dottor Burton (Peter Holton) e la sua fidanzata Vicky (Linda Hamilton), stanno percorrendo, fra un litigio e l’altro, una tranquilla strada provinciale sperduta fra i campi di grano, a breve raggiungeranno una cittadina dispersa nella campagna: Gatlin. Gatlin è una città popolata esclusivamente da bambini, i quali dopo aver sterminato in nome del "Dio del grano" tutti gli abitanti adulti, controllano l'intera comunità e uccidono gli sventurati che vi fanno sosta. Toccherà a Burton e Vicky affrontare i ragazzini e il loro "leader spirituale", un ragazzo di nome Isaac (John Frankiln) che detta legge in città fra sacrifici umani e punizioni esemplari. Tratto da un celebre racconto di Stephen King, il film non riesce pienamente nell’intento di mantenere la tensione presente nel libro e a suo tempo venne criticato dallo stesso King per i continui cambi nella sceneggiatura durante la produzione. La regia è di stampo tipicamente televisivo e ciò non favorisce certamente la pellicola. Il film comunque vuole essere un incubo un pò gotico e a tratti ci riesce seguendo un filone fanatico-religioso e non risparmiandosi su alcune scene splatter: fra crocifissioni, ragazzini assatanati ed esseri oscuri che abitano i campi di grano il film riesce a mantenere un buon ritmo per tutta la sua durata e nonostante la povertà di alcuni effetti speciali la tensione non cala, soprattutto nei frangenti claustrofobici degli infiniti campi di grano. Il regista Fritz Kiersch, in questa sua opera prima, non stupisce certo per originalità ma riesce comunque a dirigere una storia senza sbavature. Nel cast da segnalare il ruolo da protagonista di Linda Hamilton (famosa per aver interpretato il personaggio di Sara Connor in Terminator e Terminator 2) e la buona prova recitativa di John Frankiln, perfettamente a suo agio nella parte del "bad boy". Tirando le somme possiamo dire di trovarci di fronte a un buon film, non certo esente da difetti ma ben recitato e con una trama abbastanza originale; peccato che il finale del racconto di King non sia stato rispettato.nel fil

Snobbato dagli appassionati, rigettato dalla critica, Grano rosso sangue (Children of the Corn è il titolo originale) è invece un piccolo cult che andrebbe riscoperto.

In Grano rosso sangue i campi di grano sembrano assorbire tutto il male dell'umanità e delle divinità venerate da Isaac e Malachia (mai nomi furono più azzeccati per sottolineare il senso di distorsione della religione e della Bibbia in particolare, riscoprendo in un batter d'occhio le crudeltà disseminate a bizzeffe nell'Antico Testamento) e che si "rispecchiano" nel bene rappresentato dai due bambini non allineati, Job e Sarah (quest'ultima, non casualmente, è in grado di predire il futuro grazie ai disegni).

Ma è la provincia americana, soprattutto, a consentire ancora una volta la diffusione del malessere esistenziale, impiegando come terminale i fanciulli in fiore e le loro lame assassine. Non sono solo questi, però, gli unici dati significativi della pellicola, in quanto sono tanti i luoghi tipici dell'horro
che il regista ricalca con acume e intelligenza, con doti cioè non molto presenti in tanti altri film basati sulle storie dello scrittore americano.

Innanzitutto Grano rosso sangue evita le facili ellissi ambientando tutta la storia nell'arco di una giornata: solo Non aprite quella porta di Tobe Hooper
 (non a caso è un classico del genere) è riuscito nell'impresa di creare tensione e spavento con la stessa tecnica. Inoltre l'idea dell'approdo involontario in un posto sconosciuto è ripresa a piene mani da Kiersch, che comunque riesce nella difficile impresa di ricreare un'ambientazione naturale, misteriosa ed oppressiva, rendendo appieno il panorama di desolazione della cittadina deserta di Gatlin e facendo percepire in maniera quasi fisica l'incombenza degli steli di grano illuminati dal sole.

E' già la sequenza iniziale a farci penetrare in un mondo strano dove da subito capita quello che nessuno immaginerebbe possibile: dopo i fotogrammi in serie (che con atteggiamento tipicamente carpenteriano ci presentano, quasi a circoscrivere lo spazio scenico, i luoghi principali della storia), è la volta della sequenza shock dell'omicidio di massa, con inquadrature ravvicinate ed estremamente dettagliate, con un montaggio serrato e con l'uso dell'effetto zoom come "teorizzato" anni addietro da Mario Bava. Tutto gira alla perfezione, soprattutto perché sin dall'inizio abbiamo l'elemento principale della storia: la presenza di bambini assassini coordinati tra loro e gerarchicamente asserviti. A livello di trama, quello che segue è soltanto una conseguenza della cruda scena iniziale e che nulla aggiunge. L'arrivo nella città deserta è molto suggestivo, ma serve solo a compiacere la nostra curiosità e a soddisfare l'esigenza di ricerca dei due protagonisti. Sappiamo già, infatti, che c'è qualcosa che non và. Lo abbiamo capito sin dall'inizio. E che sia "colui che cammina tra il grano" o semplicemente Isaac o ancora la terrificante sagoma del suo sottoposto Malachia ad orchestrare il tutto, potrebbe anche non importare. Lo verremo a sapere al morire del giorno, quando sarà tutto pronto per l'ennesimo rito sacrificale. Quello che interessa è invece l'ottimo risultato che Kiersch raggiunge con la gestione della tensione emotiva e con la prova dei due adulti, capitati malauguratamente in quello strano posto del Nebraska.

 "Disobbedire a me è come disobbedire a Lui..." (Isaac riferendosi al Dio del grano)

Voto: 8

 
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Morti e sepolti - Gary A. Sherman - 1981

Post n°31 pubblicato il 02 Giugno 2007 da wellburnthesky
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Potters Bluff è una tranquilla cittadina della West Coast statunitense. La vita vi scorre senza sussulti, fino al giorno in cui strani fatti cominciano ad accadere: il ritrovamento di alcuni cadaveri orribilmente straziati segna l'inizio di una lunga serie di delitti apparentemente inspiegabili e con l'unico tratto comune di una morte violenta e brutale. Lo sceriffo indaga, ma non ha la benché minima pista da seguire. Qualche traccia gliela offre, infine, la moglie che egli sorprende ad insegnare stregoneria ai propri alunni delle scuole elementari, ed anche l'addetto alle pompe funebri, strano tipo che considera un'arte ripulire e abbellire i cadaveri, lo mette in sospetto. Gli omicidi intanto continuano, ma la soluzione è ormai vicina: i morti rinascono, una nuova ondata di "zombi" è pronta ad invadere la Terra.

Nella versione italiana ci sono scene abbastanza forti... anche se il sangue e' ridotto al minimo... diversi colpi di scena, sopratutto nel finale, fanno di questo film un buon film... sicuramente fin troppo sottovalutato, a differenza di tante produzioni simili che uscivano nei primi anni '80 e che non hanno aggiunto niente di nuovo al genere horror. Il film scorre bene, lascia fino alla fine il dubbio riguardo a chi sia il deus ex machina di questa proliferazione di zombi... e comunque geniale l'idea che lo zombi possa essere chiunque... visto che gli zombi si comportano allo stesso modo dei vivi.

Da segnalare la scena in cui viene praticata un auto-imbalsamazione...

"... Voi di citta' non siete abituati a tanta gentilezza..."

Voto: 7

 
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Rosemary's baby . R. Polanski - 1968

Post n°30 pubblicato il 30 Maggio 2007 da wellburnthesky
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La pellicola narra la storia di una coppia newyorkese, Rosemary (Mia Farrow) e Guy Woodhouse (John Cassavetes). La vita per i due sembra essere in un ottimo momento: si sono appena trasferiti in un nuovo appartamento, Guy, attore teatrale, sta ottendendo un buon successo e Rosemary aspetta un bambino.

L'attesa però non è facile: Rosemary, infatti, inizia ad avere strane sensazioni dentro di sé, e quando una ragazza del condominio si suicida comincia ad essere al centro di grandi attenzioni (spesso eccessive) da parte di strani individui. Cercando di proteggere il proprio bambino, in un'atmosfera sempre più sinistra, dove sogno e realtà si confondono, Rosemary perde poco alla volta il controllo della situazione, fino a quando si rende conto di essere stata la vittima di una setta satanica, nella quale è coinvolto anche il marito, nell'ambizione di guadagnare fama e successo, ed i vicini, Roman e Minnie Castevet.

Rosemary's Baby è il primo film girato negli Stati Uniti da Roman Polanski e il secondo a trattare una tematica orrorifica dopo il disturbante Repulsion del 1965, storia di una donna mentalmente instabile e sessuofobica.
Il film, il cui soggetto è tratto da un racconto di Ira Levin, venne sceneggiato dallo stesso Polanski che qui crea un sottile gioco ambiguo che non permette per lungo tempo allo spettatore di capire se stia assistendo alle allucinazioni di una giovane donna disturbata o a avvenimenti reali.
Quando Rosemary si scopre incinta poco dopo avere avuto una visione che la vede fecondata dal diavolo, la sua paranoia pare esplodere e con essa i nostri dubbi che, piano piano, si trasformano in una forte empatia per la giovane ragazza, che vediamo comunque vittima, anche se non sappiamo ancora bene di cosa.
E' stato spesso detto che questo film tratta il tema del male che nasce dall'alienazione che si vive nelle grandi città, dove si è spesso soli anche se circondati da nostri simili. Ciò che è certo è che si tratta di un film che nulla ha perso negli anni della sua originalità e meno ancora della sua capacità di angosciare lo spettatore, che si ritrova impotente testimone di eventi che riguardano una persona che, fondamentalmente lasciata sola proprio dalla persona cui è più legata, si ritrova indifesa nel contrastare una situazione più grande di lei e della sua comprensione.
Non ci sono effetti speciali né trucchi di alcun tipo, il regista si basa unicamente sulla nostra immaginazione, sul nostro tentativo di guardare oltre ciò che vediamo sullo schermo. Prova ne sia il fatto che non è difficile imbarcarsi in lunghe discussioni con altri spettatori convinti di avere visto più di quanto il film in realtà mostri. Polanski è efficace nel manipolare il pubblico attraverso il mero potere dell'immaginazione. Ciò che rende il film ancora più disturbante è il fatto che trascende dai classici elementi del cinema dell'orrore. Non ci sono case cadenti isolate su colline bensì un signorile palazzo nel centro di New York, i personaggi dei vicini di casa non sono facilmente identificabili come portatori di iattura bensì appaiono come innocui, anche un po' buffi e svaniti, personaggi di mezza età. Mancano tutti gli elementi che in una vicenda di questo genere potrebbero darci il conforto della comprensione.

E' la testimonianza di come sia possibile fare un film dell'orrore in grado di entusiasmare al tempo stesso sia i fans del genere che gli spettatori più esigenti. Un capolavoro tutto giocato sul filo dell'ambiguità e dell'angoscia: pochi sussulti, tanta tensione.  Angoscioso melodramma a cavallo fra giallo e horror, diretto da un Polanski diabolicamente crudele nel tenere lo spettatore sulla corda: la spaurita protagonista è matta o è davvero circondata dagli spiriti maligni? La paura fa novanta con quell'atmosfera da incubo che non dà mai tregua. Terrore e sarcasmo, accoppiata vincente!

Voto: 9

 
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Plan 9 from outer space - Ed Wood - 1959

Post n°29 pubblicato il 30 Maggio 2007 da wellburnthesky
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Un gruppo di extraterrestri scende sulla terra per avvisare gli umani di una terribile arma di distruzione in loro possesso, la Bomba Solare, in grado di distruggere tutto l'universo.

Gli extraterrestri vengono snobbati e in risposta a questo atteggiamento attuano il temibile Piano 9: tramite onde elettromagnetiche riportano in vita i morti. Due ghoul (interpretati da Bela Lugosi e Vampira) dopo aver ucciso un poliziotto trasformeranno anch'esso in un morto vivente.

Gli umani, ormai certi della presenza aliena, tentano in tutti i modi di contrastare l'attacco, ma solo una giovane coppia di sposi riuscirà ad entrare nella navicella e sventare la catastrofe.

È considerato dalla critica internazionale come uno dei film più brutti della storia. Ridicoli gli effetti speciali (anche per l'epoca): sono facilmente osservabili i fili che sorreggono i modellini delle astronavi e gli attori recitano davanti a uno sfondo finto, proiettando su di esso le loro ombre.

La critica più recente ha rivalutato l'operato di Ed Wood il quale, tagliato fuori dal mainstream hollywoodiano in quanto non in linea col gusto corrente, ha dovuto sempre arrangiarsi con budget ridicoli e tempi ristrettissimi. Un giudizio più equilibrato gli riconosce di essere stato un fantasioso visionario iniziatore non solo del genere fanta-horror ma anche di scabrose tematiche psicologiche.

Bela Lugosi morì prima ancora che il film fosse stato ideato. Wood adattò la sceneggiatura per inserirvi alcuni ciak girati da Lugosi poco prima della morte, presumibilmente relativi a un film di vampiri mai realizzato. Per le scene rimanenti, il regista optò per una controfigura, talmente diversa dall'attore originale da recitare in tutte le scene con il volto coperto dal mantello. Lugosi viene accreditato come "ghoul", ma nella sceneggiatura originale del film il suo personaggio veniva però indicato come "the Dracula character": non a caso l'attore, nelle poche scene in cui compare, indossa proprio il costume di Dracula.

Il regista del film, Ed Wood, compare in un cammeo con in mano un giornale.

Tom Mason, che appare nella pellicola come improbabile controfigura di Bela Lugosi, era il chiropratico della moglie di Ed Wood.

Link al film

 
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Dal tramonto all'alba - R. Rodriguez - 1996

Post n°28 pubblicato il 27 Maggio 2007 da wellburnthesky
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Dopo una sanguinosa rapina in una banca del Texas, i due fratelli Seth (G. Clooney) e Richard (Q. Tarantino) prendono in ostaggio un predicatore disilluso che viaggia in camper con due figli (J. Lewis e il piccolo E. Lui) e sconfinano nel Messico dove approdano al locale “Titty Twister”, frequentato da spogliarelliste eccitate e da un'orda di vampiri aggressivi. L'epilogo (quasi 30´) è una strage tremenda con teste mozzate, arti squartati, contagi orripilanti, metamorfosi trucide e un'orgia di effetti speciali. teste tagliate, braccia e gambe divelte, gole recise, nugoli di pipistrelli, un musicista che suona il torso d'un cadavere anziché la chitarra, la croce esorcistica formata da armi che sparano, creature del buio che esplodono e si dissolvono, bombe liquide antivampiro fatte di preservativi pieni d'acqua benedetta, brandelli di pelle strappati, stecche da biliardo usate come paletti da infiggere nel cuore dei vampiri, un repentino dibattito vampirologico nutrito di film B e pregiudizi. . Ripetitivo,slungato, ma divertente. Un volo finale in dolly della cinepresa svela il mistero. Basato su una vecchia (1990) sceneggiatura di Q. Tarantino, il 3° film del messicano Rodriguez (El Mariachi) - anche operatore alla macchina e montatore - è una sagra del tarantinismo più trash, in altalena tra la parodia cinica e l'estasi del pecoreccio. L'edizione originale era di 108´, potata vigorosamente in quella italiana, insignita tuttavia di un VM 18 e ancor più ridotta per farla passare in TV.

Voto: 7

 
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Reazione a catena - Mario Bava - 1971

Post n°27 pubblicato il 27 Maggio 2007 da wellburnthesky
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La contessa Donati, costretta su una sedia a rotelle, vive con il marito in una baita isolata in riva ad un lago. Quando l'anziana signora viene uccisa, si troveranno a "litigare" per l'eredità la figlia (che vorrebbe trasferirsi nella casa con il marito, visto che vivono con i due figlioletti in una roulotte) e l'architetto Ventura (che con l'amante vorrebbe farne una città albergo). Ma non andrà proprio tutto secondo i loro piani. Dovranno vedersela anche con il pescatore Simone (il guardiano della casa), con quattro giovani, finiti nella villa in cerca di un luogo dove sostare, e con una coppia alquanto strana (una medium ed il marito studioso di insetti). Con un finale a sorpresa assolutamente inaspettato! Considerato giustamente uno dei miglior film di Mario Bava, può essere definito l'horror precursore di molti slasher movie, in particolare mi riferisco alla serie di Venerdi 13(la baia vi farà tornare in mente Crystal Lake). Il lago, i luoghi sperduti e la villa isolata sono di gran supporto alla splendida fotografia, per la prima volta diretta dallo stesso Mario Bava, il quale si sofferma sui toni crepuscolari, con il tramonto che fà da sfondo.

Il tocco del regista è assolutamente personale: molte immagini vengono sfuocate e la telecamera spesso ruota di 360° (splendida in questo caso la sequenza in cui la camera inquadra la ragazza sgozzata, sfuoca e poi inquadra il ragazzo in salotto, sfuoca e inquadra i due giovani a letto, poi sfuoca nuovamente e inquadra gli occhi del killer). Discorso a parte invece si deve fare sulla violenza del film: per i tempi (siamo nei primi anni 70) alcune scene sono veramente crude e violente: come non citare i due giovani impalati mentre amoreggiavano e la roncolata in faccia data ad un ragazzo? Il sangue scorre a fiumi e noi ci troviamo catapultati in una serie di delitti sempre più atroci, senza aver chiaro chi siano le vittime e chi i carnefici; in pratica è un vero e proprio gioco al massacro in cui nessuno può considerarsi "non colpevole", in cui tutti sono contro tutti, si uccide e si viene uccisi. 

Voto: 8

"Fosse stato girato in America sarebbe diventato un cult-movie." Dizionario del cinema Mereghetti

 
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Venerdi 13 - Sean S. Cunningham - 1980

Post n°26 pubblicato il 27 Maggio 2007 da wellburnthesky
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Ecco il capostipite di una delle saghe in assoluto piu' lunge della storia dell'horror. La storia narra di una serie di efferati omicidi che avvengono a Crystal Lake, un campeggio estivo per teen-ager. Il camping in questione fu in passato luogo di un tragico incidente: un bambino deforme, di nome Jason, annego' nel lago senza che nessuno dei presenti si accorgesse di lui e corresse in soccorso. Gli omicidi ovviamente sono legati a questo fatto del passato e nel finale, carico di tensione, si verra' a scoprire che prorpio la madre di Jason e' l'assassino, impazzita dopo la triste scomparsa del figlio. Il film, alla sua uscita nelle sale cinematografiche, ottenne un grosso successo commerciale dando poi appunto origine ad altri nove capitoli!

Per la buonuscita del progetto il professionale Sean scelse di inglobare una vicenda cruenta in una piccola località, una cittadina a dir poco mite e indolente come Blairstown sita nel New Jersey. Secondo il suo arguto ingegno bisognava plasmare un netto e marcato contrasto tra la forza benigna sprigionata dalla tranquillità del campo che veniva puntualmente eclissata dalla presenza negativa del maniaco di turno. All’epoca le risorse al cospetto della troupe, che progrediva alla realizzazione dell’opera, erano risibili; si sopperisce alla mancanza di liquidità e finanziamenti con tre sostanziali elementi. Il primo va scovato nella figura di Tom Savini: l'effettista ricevette elogi a destra e a manca dalla produzione che lo corteggiava forsennatamente, positivamente riempita di fiducia e dall’orgoglio di poter sfoggiare ed esibire il genio dell’artista che curò personalmente i superbi effetti.

Il secondo tassello è una discreta razione di tensione dilazionata e centellinata (a volte anche troppo) per tutto l’arco del lungometraggio. Tensione coadiuvata da una fantasmagorica apparizione finale. A detta del giovane direttore instaurare tale figura in un contesto puramente pacifico e soave equivaleva a diffondere e far germogliare il seme del dubbio nello spettatore: mera allucinazione figlia del terrore saggiato e assaporato dalla protagonista o riluttante e imbelle realtà? Il pezzo che completa il puzzle è il ruolo rivestito dall’ottima Betsy Palmer. L’attrice nonostante all’epoca fosse titolare di una sterile quanto farraginosa esperienza, risultò adatta al ruolo perché pur di interpretare un personaggio ambiguo ottimizzò le sue ricchezze pagandosi volentieri le spese di trasporto sino al lago Nobeboso (località sede delle riprese), al contrario delle altre provinate.

La genialita' di S.Cunningham sta nell'aver creato un genere di pellicola per la quale non serve particolare sforzo d'intelligenza e nemmeno troppa attenzione...tutto quel che serve e' fame di effettacci e di sesso giovanile! A differenza di Carpenter( che nel suo "HALLOWEEN" creo' uno slasher assai piu' complesso ed innovativo) al regista di "VENERDI' 13" non interessano introspezioni psicologiche, tant'è che i teenagers del film sembrano macchiette in attesa di esecuzione. Bisogna dire tuttavia ,che ci sono discreti attimi di tensione ed il colpo di scena finale e' piuttosto ben congegnato. In definitiva un film che comunque ha una confezione piuttosto buona ed efficace, a differenza invece di molti suoi sequel. Difatti la qualita' nella serie di "Venerdi 13" calera' paurosamente con l'aumentare dei seguiti!

Voto: 8

"Sono un inviato del Signore, sei condannata se resti qui! E’ un luogo maledetto, stregato, c’è una maledizione!"

 

 
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Jenifer - Dario Argento - 2005

Post n°25 pubblicato il 27 Maggio 2007 da wellburnthesky
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Jenifer, basata su un classico del fumetto scritto da Bruce Jones, è la storia di una fanciulla dal corpo aggraziato e dal volto mostruoso che divora e annienta tutti i corpi che si trova di fronte. Non prima di averli sedotti. “Ho riversato in questo breve film molto del mio macabro e morboso immaginario” dice Dario Argento, “…realizzando Jenifer ho cercato di dare al pubblico una costante alternanza tra situazioni d’ansia e momenti di stress emotivo, siamo quasi all’antitesi de La Bella e la Bestia”. E infatti, al contrario del classico disneyano, i ruoli sono ribaltati: nonostante l’orrore e la paura per un volto sfigurato, c’è sempre qualcuno disposto ad accettarlo. Non sapendo, questo sì, a cosa si va incontro. Un ritorno al passato degli eterni ritorni, per Dario Argento. Un po’ chiesastico nel ricordare, ancora una volta, l’impossibile sconfitta del male in un circolo che torna a rigenerarsi inevitabilmente.

Jenifer non è un prodotto certamente riuscito. Volendo essere severi, è questo che si pensa, in definitiva, dell'episodio dei Masters of Horror diretto dal nostro Dario nazionale. In realtà Jenifer è quanto di meglio Argento abbia realizzato negli ultimi anni, ma questo fatto non è certo sufficiente a farci gridare al miracolo. Il regista romano non lavorava con tecnici così abili da molto tempo; ha potuto disporre di uno staff di autentici professionisti del settore. Lo script di Steven Weber, qui anche protagonista, non è affatto male se non per alcune incongruenze di trama. E allora cos'è che non va in Jenifer? Manca proprio l'horror, e la grande quantità di scene splatter (poco sensate a dirla tutta) non basta da sola a poter definire le caratteristiche del genere. Argento ha parlato di storia d'amore, ma quello che ci si presenta davanti agli occhi ha più le caratteristiche di un film erotico che altro. In meno di un'ora di pellicola cinque scene di sesso appaiono un pò troppe, oltre che di poca funzionalità al senso stesso della storia, anzi, questa ostinazione nel volerle riproporre sembra quasi trasmettere che l'amore per Jenifer sia di origine puramente sessuale più che emotiva. Il che va a scapito della fluidità del plot, in quanto le azioni dei personaggi non hanno un senso logico e men che meno emozionale. Simonetti poi, condisce il tutto con un aceto amarissimo, visto che il coretto infantile alla Profondo rosso composto per l'episodio mal si accosta con lo svolgersi della storia.

Rimane comunque la grande soddisfazione nel vedere il nostro Dario Argento alle prese con un progetto di tale importanza, nuovamente coadiuvato, dopo un lungo periodo di buio, da una troupe che valorizza il suo lavoro, un edit finalmente degno di questo nome ed una fotografia ottima. Peccato solo che il risultato finale non convinca.
Jenifer è brutta. Sembra la sorella del mostriciattolo di Phenomena
, senza nulla togliere al pregevolissimo trucco di Stivaletti, anche perchè l'effettista italiano ha fatto ottimi lavori con mezzi non proprio congeniali. Invece qui siamo al cospetto di Greg Nicotero, allievo di Savini e responsabile degli FX di tutti gli episodi della Serie Masters of Horror. Fino ad ora avevamo lodato il suo operato negli altri capitoli visti, ma proprio con Dario ha commesso un passo falso. Il volto di Jenifer, che Argento fa l'errore di mostrare continuamente, sminuendo la potenziale carica di mistero del personaggio, sembra il risultato del peggior pasticcio realizzato con una maschera di lattice da mercatino di Halloween. In più casi è evidentemente gommosa, finta, perde di attrazione anhe nella sua eccessiva mostruosità .

Voto: 5

Trailer

 
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Le manoir du diable - Georges Melies - 1896

Post n°24 pubblicato il 27 Maggio 2007 da wellburnthesky
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Le manoir du diable è un cortometraggio diretto da Georges Melies della durata di 2 minuti in bianco e nero. È spesso citato come il primo film horror, anche se le scene del film muto sono caratterizzate da numerosi elementi di pantomima, la cui funzione era quella di far divertire il pubblico piuttosto che spaventarlo.

Questo film fu proiettato la prima volta la vigilia di Natale del 1896 al teatro Robert Houdin, al numero 8 del boulevard des Italiens, a Parigi. Fu questo il primo film, seppur della durata di due minuti, a dare il là alla storia del cinema horror.

Il film inizia con un enorme pipistrello che vola all'interno di un castello di epoca medioevale. Una volta all'interno; prima di trasformarsi in Mefisto, il pipistrello girerà in cerchio lentamente agitando le sue mostruose ali. Dopo aver preparato un calderone, il demone incomincia a forgiare scheletri, fantasmi e streghe dalla ribollente miscela. Fino a quando viene evocato un cavaliere degli Inferi che, tenendo un crocifisso in mano, farà svanire Satana in un colpo.

 
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Demoni - Lamberto Bava - 1985

Post n°23 pubblicato il 27 Maggio 2007 da wellburnthesky
 
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Uno strano figuro (Michele Soavi), che indossa una sorta di maschera argentata che gli copre metà del volto, distribuisce biglietti omaggio per un film che si proietterà al Metropol. Tra gli invitati ci sono Sharon (Natasha Hovey) e l’amica Kathy, attirate maggiormente dalla prospettiva di evitare una barbosa lezione scolastica. All’ingresso della sala è esposta una maschera metallica dalla bizzarra foggia; una ragazza di colore la indossa per scherzo, ma si ferisce leggermente ad una guancia. Il film proiettato è sul genere horror, in cui una profezia ammonisce dall’indossare una maschera ritrovata dai protagonisti. La sceneggiatura si rivelerà profetica: un attore si ferisce ad una guancia con la stessa maschera e contemporaneamente la ragazza nera seduta in sala ha un malore. Quando giunge in bagno, si accorge di subire una mostruosa trasformazione, perdendo completamente il suo lato umano e diventando un demone furioso ed assassino. Questo strano virus, o maledizione, è contagioso e chiunque ne venga infettato si trasformerà in un demone. Presto il panico si diffonderà a macchia d’olio e la sala diventerà un mattatoio di spettatori squartati e mutati; da questo abominio tenteranno di uscirne fuori Sharon e Kathy, aiutate da George (Urbano Barberini) e dal suo amico conosciuti durante la proiezione. Tony (Bobby Rhodes) cerca di prendere in mano la situazione, da buon leader carismatico, ma la strada verso la salvezza si rivelerà ardua, quando scopriranno di essere delle vittime designate rimaste chiuse all’interno della sala. Stranamente il figlio del maestro Mario Bava non riesce a seguire le orme tracciate dal padre, confezionando pellicole di dubbio valore artistico. Questo Demoni può essere indicato come una delle poche eccezioni, seguendo una banale ricetta, ma dannatamente efficace: si prende una semplice sceneggiatura (curata da Dardano Sacchetti), la si farcisce di azione e tanto sangue, si mescola il tutto con una colonna sonora rock di prestigio e si serve su un piatto internazionale. L’esito è andato oltre le più rosee aspettative, grazie anche al determinante apporto di Dario Argento alla produzione ed incassi stratosferici un pò in tutto il mondo. Una buona fetta di successo lo si deve anche agli ottimi trucchi dell’allora neofita Sergio Stivaletti, esordiente nel cinema con Phenomena l’anno precedente e con la collaborazione di un veterano del mestiere come Rosario Prestopino. Davvero ben riuscite le trasformazioni ed i vari squartamenti che abbondano in tutta la pellicola, regalando momenti di alta tensione. Non è tutto oro quello che luccica ed anche Demoni ha i suoi difetti piuttosto evidenti, a cominciare dall’interpretazione degli attori, davvero scadente; se escludiamo l’esperto coloured Bobby Rhodes, il rimanente cast lascia molto a desiderare. L’inutile presenza della Hovey e di Barberini tolgono qualcosa all’impressione generale, unitamente a dialoghi scritti in fretta e di una banalità sconcertante che non rendono giustizia al titolo. Da sottolineare la composizione delle musiche da parte di Claudio Simonetti, transfuga ormai da un paio d’anni dei grandissimi Goblin; nella colonna sonora sono presenti famosi brani hard rock appartenenti a gruppi sulla breccia in quel periodo quali Saxon, Accept, Scorpions, Motley Crue, ecc.

Con una sceneggiatura firmata Dario Argento e una regia di Lamberto Bava, Demoni ha avuto a suo tempo un enorme successo. Oggi, dopo quasi vent'anni dopo, rimane un film horror molto valido con un sapore particolare di cui oggi si è persa ogni traccia. Indubbiamente il film è meno curato degli ultimi horror che avete visto al cinema, il regista non si cura di dare spiegazioni né di trovarne, si cura solo di effetti speciali, colpi di scena, musica, atmosfera e caratterizzazione dei luoghi e dei personaggi, ma questo non è necessariamente un grande limite.

Voto: 8

Trailer

"Faranno dei cimiteri le loro cattedrali e delle città le vostre tombe…"

 
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The Torturer - Lamberto Bava - 2005

Post n°22 pubblicato il 23 Maggio 2007 da wellburnthesky
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Ginette è una giovane attrice che decide di fare un provino con il regista Alex Scerba, un artista famoso per i suoi lavori estremi. Alla fine del provino tra i due nasce qualcosa e iniziano a frequentarsi. Parallelamente, nello stesso teatro, un misterioso uomo - con la scusa di tenere dei provini per un film - costringe alcune giovani ragazze ad accettare di provare scene molto estreme, per torturarle e filmare la loro morte. Casualmente Ginette scopre che una sua amica dopo aver fatto un provino con Alex è misteriosamente scomparsa. Tutti gli indizi rimandano ad una misteriosa casa e al teatro dove vengono fatti i provini. Inizierà ad indagare ma ciò che scoprirà non sarà molto piacevole.
Lamberto Bava torna a girare un thriller (direttamente per il mercato home video) che strizza l'occhio ai maestri del genere, primo fra tutti il padre Mario, e al filone giallo-horror italiano che ebbe un grosso successo negli anni '70. Lo fa con coraggio, accettando di rimettersi in gioco dopo le ultime prove che lo hanno visto raggiungere il grosso pubblico con la realizzazione di alcune serie televisive. Purtroppo non sempre il coraggio paga: The torturer, pur essendo un buon prodotto (per certi versi molto superiore alla media qualitativa italiana degli ultimi anni), presenta numerosi problemi che vanno da buchi evidenti nella sceneggiatura (non si capisce quale sia il trauma infantile di Alex), ad una recitazione piatta e inconsistente fino all'uso quasi irritante dei soliti cliché che hanno segnato il genere: la litania che compare tutte le volte che Alex ha una crisi, la pioggia incessante nella notte decisiva). Anche l'indagine di Ginette nel passato di Alex si riduce ad una semplice lettura dei quaderni infantili del ragazzo, senza arrivare ad una conclusione che possa spiegarne il comportamento.
Nonostante i problemi di coerenza narrativa, vi sono anche alcune cose positive come la riflessione che Lamberto Bava mette in atto con il suo teatro dell'orrore, attraverso il quale elabora una critica durissima del mondo dello spettacolo (ricordiamo che nella prima stesura le ragazze facevano un provino per diventare veline), o le sequenze in cui il torturatore è in azione, che faranno la gioia di quanti sono rimasti delusi da Hostel.

Voto: 6

 
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Le colline hanno gli occhi 2 - Martin Weisz -2007

Post n°21 pubblicato il 20 Maggio 2007 da wellburnthesky
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Un gruppo di soldati della Guardia Nazionale è incaricato di portare dei macchinari e dei rifornimenti a un gruppo di scienziati che operano nel famigerato Settore 16, già teatro, anni prima, di una carneficina ai danni di una famiglia che passava di lì per caso: una volta sul campo, i soldati si rendono conto che degli scienziati non è rimasta traccia. A quanto pare le colline che circondano la zona sono tutto fuorché disabitate…
Diversamente dal tutto sommato riuscito remake dell'originale del 1977 firmato Alexandre Aja(uscito in sala l'anno scorso), questo sequel appare insipido e scontato, specie per la sua assoluta incapacità di veicolare un messaggio diverso da "arrivano i mostri: scappiamo, scappiamo". Sia l'originale che il remake conservavano nel loro intimo una sottile, ma nemmeno troppo, critica politica e sociale all'America "nuclearizzata", che permetteva loro di elevarsi ben al di sopra dello standard medio di questo genere di film. Qui invece siamo di fronte a una semplice e semplicistica "caccia al Marine", recitata male, scritta peggio e diretta senza impegno da un regista, Martin Weisz, che non riesce a introdurre il benché minimo elemento innovativo nella messa in scena di una storia già vista centinaia di volte.
Siamo evidentemente ben oltre il mero disimpegno, ma sfociamo drammaticamente nella inutilità più assoluta. Anche gli appassionati di questo genere di pellicole rischiano di restare delusi: paradossalmente, il vuoto siderale derivante dall'assenza dello script, non viene nemmeno colmato con scene particolarmente raccapriccianti e originali, e il film procede lentamente e senza offrire la benché minima suspense dal primo all'ultimo minuto. L'unica cosa positiva è che Le Colline hanno gli occhi 2 dura appena 80 minuti: chi dovesse capitare per caso in sala, sappia almeno che la sua sarà una sofferenza breve… Veramente pessimo!

Voto: 4

Trailer

 
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Hostel part II - E. Roth - 2007

Post n°20 pubblicato il 19 Maggio 2007 da wellburnthesky
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Beth, Lorna e Whitney, tre giovani americane che frequentano una scuola d'arte a Roma, vengono invitate da una modella conosciuta a scuola a passare un fine settimana in Slovacchia. Giunte nell'ostello in cui devono soggiornare si rendono conto però che la loro gita si prospetta tutt'altro che piacevole...

Il film in Italia uscira' nei cinema il 22 giugno.

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Ringu - H. Nakata - 1998

Post n°19 pubblicato il 19 Maggio 2007 da wellburnthesky
Foto di wellburnthesky

Dopo la morte della giovane Tomoko, avvenuta contemporaneamente a quella di tre suoi amici in circostanze misteriose, la giornalista Reiko, zia della ragazza, inizia una personale indagine. La donna viene a sapere di una misteriosa videocassetta, che sembra sia stata visionata dai quattro ragazzi una settimana prima della loro morte; nelle sue indagini apprende inoltre di una strana leggenda metropolitana, avente per oggetto proprio un filmato che provocherebbe la morte di chi lo guarda esattamente una settimana dopo la visione. Decisa ad andare a fondo della questione, Reiko si mette alla ricerca della "cassetta mortale".
Due film di Hideo Nakata Ringu e Dark Water hanno in comune la presenza di acqua come elemento ricorrente nella storia, ma non solo: altre caratteristiche principali di questi due film si riscontrano nella donna, come protagonista assoluta e nei rapporti genitoriali che spesso sono visti come distanti, malsani o in qualche modo compromessi.
La concezione dell’orrore del regista giapponese è sicuramente pregevole e suggestiva: la scena iniziale, che vede le due adolescenti discutere cautamente sulla leggenda per poi soccomberne è indiscutibilmente ottima, con un buon ritmo ed un continuo crescendo tensionale. Interessante come Nakata giochi sottilmente con l’atto di "tramandare" oralmente una storia paurosa, rendendo una sorta di tributo alla tradizione del fantastico, aggiornato al 2000’. La sua visione in Ringu è, infatti, strettamente legata al supporto tecnologico (la VHS, la televisione, il telefono) che funge da inquietante tramite della spettrale condanna che perseguita i malcapitati spettatori del video. La fotografia mostra un gusto piuttosto cupo per le luci, una certa predilezione per le zone d’ombra, il buio fugace, la sfuggevolezza dei primi piani. Il tutto mantenendo sempre molto netta e pulita l’inquadratura e molto delineati i personaggi.
Nel panorama dell'horror cinematografico "a cavallo" dei due secoli, se c'è stato un film che ha influenzato e ridefinito coordinate e immaginario del genere, portando alla luce un movimento che (nel bene e nel male) ha già segnato a fondo la storia della paura cinematografica, questo è stato senz'altro Ringu. Film elegante e inquietante, straordinario successo in Giappone, originante due sequel, un prequel e due remake, il film di Nakata è stato la "spia" di un movimento che stava crescendo e sviluppandosi nella terra del Sol Levante, un movimento che avrebbe imposto all'attenzione del pubblico internazionale un gruppo di registi pronti a rinnovare l'immaginario dell'horror nipponico. La "new wave" horror giapponese era ormai nata, ed era così pronta a varcare i confini del Giappone per influenzare le cinematografie dell'intera Asia, giungendo anche al pubblico occidentale e solleticando il fiuto produttivo dei magnati di Hollywood, pronti ad approfittare della ventata di aria nuova per riproporre, con propri registi, tecnici e attori, le idee provenienti dall'oriente con un'ondata di remake che nella storia del cinema ha pochi precedenti.
Voto: 7

 
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