ORIGINI BOREALI

I PIGMOIDI NEL MONDO


 Vari antropologi ipotizzano che le forme umane probabilmente considerabili come le diramazioni più antiche separatesi dal tronco comune, siano oggi rappresentate dalle popolazioni pigmoidi, boscimanoidi e proto-australoidi, anche se va detto che non sono del tutto chiari i rapporti intercorrenti tra questi gruppi: ad esempio, diversi autori considerano i Boscimani a loro volta come un sottoinsieme dei pigmoidi, mentre secondo Coon tutti i pigmoidi conterrebbero, essi stessi, dei significativi elementi australoidi. In ogni caso, è alle genti pigmoidi che viene spesso attribuito il primo popolamento di vaste aree del pianeta, come il continente africano, la zona indonesiana e quella australiana, in queste ultime forse associabile a popolazioni simili agli attuali Tapiro della Nuova Guinea; successivamente sarebbero subentrati i caratteri più marcatamente australoidi osservabili oggi, giunti dall’Asia orientale con popolazioni di tipo veddoide. I veddoidi, peraltro, da alcuni autori vengono considerati come una parte del gruppo pigmoide o ad esso strettamente connesso; Coon, e qualche altro studioso, li considera piccoli e primitivi caucasoidi, mentre altri li inquadrano piuttosto come dei proto-australoidi. In ogni caso, mentre oggi i veddoidi si trovano concentrati soprattutto nell’isola di Ceylon, è probabile che in tempi antichi abbiano occupato anche aree più lontane, come l’Arabia sud-orientale, la zona mesopotamica, fino all’Africa sud-orientale.      Comunque, l’attribuzione di questo ramo “equatoriale”, o della sua parte più importante, al tipo pigmoide trova diversi riscontri nella letteratura antropologica, che di frequente riporta le ipotesi dell’ologenista Montandon, secondo il quale l’umanità si sarebbe differenziata per successive dicotomie; la prima fissione, appunto, avrebbe precocemente separato i pigmoidi dal ceppo comune, progenitore di tutte le altre razze. Nella sua ricostruzione, Montandon riunisce infatti tutti i pigmei africani, asiatici e steatopigidi in una unica grande razza a sé stante, che tiene ben separata da quella negroide propriamente detta. In effetti, gruppi pigmoidi risultano oggi dispersi lungo un’area piuttosto estesa: per citare qualche esempio, sono rappresentati da popolazioni come gli Yali dell’Indonesia, i Barrineans australiani (del Queensland settentrionale e sensibilmente assomiglianti anche ai Tasmaniani), i Semang malesi, gli Aeta delle Filippine, gli Andamanesi. Più o meno tutti questi “negrilli” evidenziano un buon grado di affinità razziale con i Pigmei africani (gli abitanti delle isole Andamane, in particolare, anche per l’aspetto della steatopigia) piuttosto che con i negroidi “classici”. In quest’ottica, quindi, sembrerebbe rafforzarsi l’idea che tutti i pigmoidi del mondo costituiscano la sopravvivenza residuale di quello che anticamente fu un gruppo originariamente unitario, esteso in continuità territoriale tra Africa e Mediterraneo fino all'India e all'Oceano Pacifico; un’ipotesi forse più verosimile rispetto a quella, alternativa, che li interpreta come il risultato di risposte adattative sviluppate da stirpi diverse di statura normale, in tempi più recenti ed in via separata l’una dall’altra (quindi, improbabilmente, in più di una occasione e con esiti simili) sotto sollecitazioni di particolari condizioni ambientali.         Oltre che dal punto di vista razziale, altri autori hanno evidenzito il fatto che tutti i pigmoidi del mondo presenterebbero anche dei tratti culturali tra loro analoghi; in particolare Alain Daniélou evidenzia sorprendenti somiglianze tra la cultura dei Munda dell'India nord-occidentale e quella dei Pigmei africani. D’altro canto, tutto ciò non toglie che queste popolazioni – in un’ottica monogenista, come da assunto iniziale – pur essendo uscite molto precocemente dall’Eden boreale, non conservino ancora degli elementi ancestrali particolarmente significativi. Mircea Eliade, ad esempio, segnala come lo stesso simbolismo primordiale dell’asse del mondo si ritrovi tra le popolazioni pigmoidi, citando nello specifico i pigmei Semang della penisola di Malacca, i quali tramandano il ricordo che al centro del mondo, in tempi mitici, si trovava una immensa roccia: a tal proposito, anche Renè Guenon conferma che il simbolo litico può senz’altro essere interpretato come una chiara immagine dell’axis mundi. Diversi altri aspetti della vita spirituale delle popolazioni pigmoidi non appaiono assolutamente così poveri ed elementari come – secondo una riduttiva ottica evoluzionista – si potrebbe erroneamente desumere: ad esempio i Pigmei d’Africa sono monoteisti, elemento che, come rileva Frithjof Schuon, è sicuramente primordiale ed originario – nel senso di meno degenerato – rispetto ad altre forme, ad esempio il più tardo politeismo.   Anche le espressioni culturali più esteriori – dagli aspetti artistici a quelli più legati alle tecniche materiali – possono nei pigmoidi apparire molto scarne ed essenziali, ma ciò non implica necessariamente una rozzezza trasposta anche sul piano spirituale. Al contrario, è stato rilevato l’errore generalmente commesso da certa antropologia classica, che interpreta la scarsa complessità degli elementi culturali come sinonimo di arretratezza e di “attardamento evolutivo”; non viene invece considerata proprio l’opposta possibilità, ovvero l’idea che quanto più spoglio appare il simbolo materiale, tanto più pura, originaria e complessa debba essere l’idea alla quale esso rimanda. Sulla stessa linea di pensiero si colloca anche l’etnologo Leo Frobenius per il quale “spirito ed occhio sono sempre complementari”: ovvero, dove le forme espressive tendono a moltiplicarsi ed arricchirsi, lo spirito necessariamente si impoverisce. Infatti, i popoli quasi totalmente sprovvisti di tecniche materiali, come appunto i Pigmei, possiedono al contrario un retroterra di strutture religiose molto complesse e precise, che non sono per nulla rozze e “primitive”: quindi assolutamente inservibili come esempio di una inesistente evoluzione umana in direzione ascendente, dai primi balbetii definiti “pre-logici” di una ragione ancora infantile e malferma, alle più complesse metafisiche delle grandi, ed “adulte”, civiltà umane. Rileva significativamente, come concetto generale, lo stesso A.K. Coomaraswamy che l’arte “primitiva” o “geometrica” di certe popolazioni che oggi ancora sopravvivono è formalmente astratta, proprio perché deve essenzialmente esprimere dei significati astratti.