Creato da: MICHELEALESSANDRO il 15/07/2012
PREISTORIA UMANA E TRADIZIONALISMO INTEGRALE

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TRADIZIONALISMO, ANTIEVOLUZIONISMO, INVOLUZIONISMO

Il tentativo che in queste note si cercherà quindi di portare avanti per sommi capi è l’analisi di quanto la letteratura tradizionalista ha avuto modo di elaborare in merito allo specifico tema delle origini umane, accompagnandolo comunque ad una serie di elementi provenienti anche da altri ambiti di ricerca; in effetti è stato rimarcato più volte che il cosiddetto “metodo tradizionale” di indagine non trascura affatto i risultati cui pervengono le analisi “scientifiche”, ma li utilizza secondo altri parametri e punti di vista.

Gli autori tradizionalisti vengono dagli osservatori esterni inseriti in una corrente che, soprattutto in ambito inglese, è stata anche definita come “Perennialismo”; tale corrente, che come dicevamo annovera nomi quali Guenon, Coomaraswamy, Schuon, Burkhardt, Evola ed altri, assume come essenziale punto di partenza il fatto che ai primordi sia esistita una Tradizione Primordiale di origine non umana, che l’uomo non ha inventato, ma essenzialmente ricevuto. Il sapere e le fonti più profonde delle verità metafisiche, quindi, non rappresentano nulla di umanamente “costruito” o accumulato; di conseguenza, l’elemento forse più caratterizzante della corrente in questione è il rigetto deciso della visuale evoluzionista, almeno nella sua accezione più comunemente intesa, ovvero quella di un processo generale che da un “meno” conduce ad un “più” (contrariamente al vero significato etimologico del termine, che viene dal latino “volvere”, cioè srotolare, svolgere e quindi dovrebbe piuttosto esprimere il dispiegarsi delle possibilità di esistenza che sono già tutte contenute, senza procedere l’una dall’altra, nella totalità dell’Essere).  

Senza dilungarci troppo sugli aspetti più problematici della teoria evoluzionista, riteniamo tuttavia utile accennare ad alcuni punti, di  carattere generale, che ci sembrano particolarmente degni di nota. Ad esempio ricordiamo la segnalazione del fisico Bogdanov, che stimò in almeno 10 alla quindicesima anni (cioè un milione di miliardi di anni) il tempo necessario per portare alla formazione per puro caso di una molecola di RNA da parte dei nucleotidi componenti, il che è palesemente un tempo ben più esteso dell’età stimata di tutto il nostro universo. O alla stima della probabilità che si possa formare per caso una proteina per una specifica funzione, corrispondente ad un valore pari a 20 elevato a 300, dove anche qui il tempo necessario per consentire tutti i tentativi supererebbe di gran lunga la durata cosmica. Altre considerazioni portarono vari ricercatori, anche non necessariamente di scuola tradizionalista, ad interrogarsi se la teoria evoluzionista non fosse incompatibile con una delle leggi fondamentali della fisica, ovvero la seconda legge della termodinamica, nota anche come “legge dell’entropia”, secondo la quale tutti i sistemi abbandonati a sé stessi tendono irrimediabilmente a degradare fino alla distruzione, in funzione del tempo, e non ad “evolvere” secondo un perfezionamento continuo. Per arrivare al mondo dei viventi più complessi, critiche sempre più estese anche nello stesso ambito scientifico, sempre meno concedono al meccanismo della selezione naturale la reale possibilità di causare le grandi differenze morfologiche e funzionali osservate tra le specie (la cosiddetta “macroevoluzione”) ammettendo solo la generazione di piccoli adattamenti (ovvero la “microevoluzione” che peraltro nessuno nega).

Né va mai dimenticata l’analisi del materiale fossile, nell’ambito del quale non si è rilevata alcuna presupposta maggior semplicità primitiva (che anche Guenon nega) ed un lento progredire verso forme sempre più complesse, ma al contrario una sostanziale successione di varie tipologie di organismi, che però non rappresenta di per sé una prova dell’evoluzione, in quanto è necessario che sia anche dimostrata una effettiva filiazione tra queste. Del resto lo stesso Darwin aveva messo in guardia contro la possibile confusione tra idea di evoluzione e quella di progresso, dal momento che il principio di selezione naturale non implica necessariamente quello di un miglioramento continuo.  

Tutta questa serie di elementi fecero dichiarare allo stesso Albert Einstein nel 1950:  "Considero le dottrine evoluzionistiche di Darwin, Haeckel e Huxley tramontate senza speranza".

Se ora affrontiamo più da vicino il caso della forma umana, vedremo che anche su questo tema la visuale evoluzionista presenta non poche lacune.

Il prof. Sermonti ci ricorda infatti che la grande maggioranza dei caratteri dell’uomo attuale sono primari, cioè vicini alle conformazioni tipiche dell’ordine, presenti nei più antichi primati fossili e citando il prof. Wax Westenhofer che, contrariamente a quanto l’evoluzionismo dovrebbe aspettarsi, “l’uomo è il più antico dei mammiferi e, tra tutti, sembra essere quello che meno si è allontanato dal loro ipotetico prototipo”. In effetti quella umana sembra essere la forma primigenia tra quelle dei mammiferi, in quanto morfologicamente molto meno specializzata delle altre; ciò non solo nei confronti delle scimmie attuali, ma anche in rapporto ai nostri ipotetici precursori, ovvero le australopitecine, gli homo erectus e habilis che, al contrario, sembrerebbero denotare caratteri piuttosto specializzati rispetto a forme umane simili alle attuali. Da queste gli ominidi africani avrebbero mantenuto la stazione eretta, che infatti presenta una  grandissima antichità, ma ciò indicando piuttosto una loro derivazione da un tronco più originario e centrale, presente già da tempi molto più antichi di quanto ora si supponga. Se poi consideriamo gli animali attuali ritenuti meno distanti da noi, va ricordato che fino ad ora la paleontologia non ci ha consegnato fossili antichi somiglianti a scimpanzè, gorilla o orango, conseguendone da ciò il fatto che questi organismi sono molto più recenti della forma umana e quindi non possono essere (loro, o altre tipologie più o meno simili a loro) annoverabili tra i nostri ascendenti.

E’ stato inoltre osservato che anche dal feto umano si possono trarre utili indicazioni, in quanto manifesta i caratteri generali dell’ordine a cui la specie appartiene, ed è perciò simile in tutti i rappresentanti dell’ordine nonché libero da caratteri secondari (p.es. il feto di uno scimpanzè o di un gorilla sono quasi uguali a quello umano); una specie poco specializzata com’è quella umana, mostra in effetti questa sua primarietà nella somiglianza dell’adulto al feto ed al neonato, cosa non osservabile in altre specie considerate a noi vicine. E’ questa nostra eterna fanciullezza ha spinto diversi autori a considerare la nostra come una specie a forte tendenza neotenica, caratterizzata cioè dalla conservazione anche in età adulta di certe importanti caratteristiche infantili.

 

L’uomo, quindi, sembra non essersi “evoluto” da forme ancestrali animalesche, ma semmai sono queste che rappresentano delle linee laterali, derivate e senili di sviluppo. I caratteri primordiali, invece di essere di tipo bestiale, sono quelli fetali, quelli della incontaminata giovinezza. E’ piuttosto l’animale ad essere il prodotto di una involuzione a partire dall’uomo, come ipotizzava anche Platone che ad esempio vedeva nelle scimmie degli umani decaduti per aver perso la “scintilla sacra”.

Ma a partire da quale tipo di uomo, precisamente, è iniziata questa serie di linee discendenti? Per il filosofo Edgard Dacquè, le specie animali discendono involutivamente da un’umanità non corrispondente a quella attuale, bensì da un ceppo primordiale (Urmensch) dal quale l’uomo materializzato si distingue, costituendone tuttavia l’erede più vicino, mentre antropoidi ed animali vari rappresenterebbero linee via via più laterali di caduta rispetto alla direzione centrale. L’uomo odierno, con le sue attuali possibilità biologiche e razionali, rappresenta quindi la manifestazione più approssimata e diretta di quest’Uomo primordiale, che anche Platone ebbe a sottolineare come notevolmente diverso dalla forma attuale. Una forma  esemplare che avrebbe quindi svolto una funzione “archetipica”, creata essa stessa “ad immagine di Dio”, ed in rapporto alla quale anche noi siamo in fondo dei decaduti essendo in pratica “un’immagine dell’immagine divina”.

Rispetto alla conformazione morfologica più elevata, postulata dalla Urmensch di Edgar Dacquè, già la brutalità di alcune popolazioni preistoriche ne mostrerebbe un pesante evento involutivo. E lo stesso Piveteau ebbe a notare che anche gli stessi  neandertaliani denoterebbero le tracce di un’avvenuta regressione fisica e, in parte, psichica da un ceppo superiore: l’ipotesi è rafforzata dal fatto che i neandertaliani più “bestiali” e specializzati sono proprio quelli più recenti (circa 33.000 anni fa, rispetto a quelli di 38-40.000 anni fa).

Vi furono quindi molti cammini e molte modalità di discesa e, con i millenni trascorsi, i percorsi involutivi divennero sempre più divergenti. Molte odierne popolazioni cosiddette “selvagge” sono il risultato di un’estrema degenerazione. Ma tali popolazioni non vanno definite “primitive” nel senso di maggiormente vicine alle origini, quanto semplicemente più in stretto contatto con la natura, contatto attraverso il quale ebbero tuttavia il modo di cristallizzarsi e “fermarsi”, evitando quella particolare forma di decadenza che ha raggiunto il suo estremo ipertrofico nella civiltà moderna ed in noi stessi, “evoluti” – questo sì – dal punto di vista tecnologico, ma probabilmente solo in quello.

E, proprio sul piano tecnologico, una piccola conferma di come questo processo non abbia comunque sempre preso un cammino ascendente, ci viene ad esempio dall’archeologia delle ormai estinte popolazioni tasmaniane (Le Scienze, agosto 2005) che sembra accertato disponessero fino a circa 10.000 anni fa di tecnologie relativamente avanzate che però vennero poi perse quando l’innalzamento del livello marino le separò da quelle australiane.

 

 
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