Creato da: MICHELEALESSANDRO il 15/07/2012
PREISTORIA UMANA E TRADIZIONALISMO INTEGRALE

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PREMESSA GENERALE

Post n°1 pubblicato il 15 Luglio 2012 da MICHELEALESSANDRO
 


Il problema delle origini umane è uno dei più controversi, attorno al quale si dibatte ormai da qualche secolo. Soprattutto nell’area occidentale del mondo, le antiche certezze provenienti da mitologie radicate nei popoli, o da sistemi religiosi ben strutturati e più o meno dogmatici, sono state seriamente messe in discussione dalla teoria evoluzionista, che pretende di spiegare in modo più “scientifico” e razionalmente verosimile l’avvento delle varie forme viventi, tra le quali quella umana.

L’ipotesi evoluzionista, però, non costituisce l’unico modo di rappresentare le linee di questo processo, anche se appare largamente maggioritaria in ambito scientifico-accademico (ambito, comunque, non unanime); una delle aree culturali che maggiormente si oppone a tale veduta, è sicuramente rappresentata dal cosiddetto “tradizionalismo integrale”, dei vari Renè Guenon, Julius Evola, Ananda Kentish Coomaraswamy, Frithjof Schuon, Titus Burckhardt ed altri ancora.

Le presenti note rappresentano una serie di considerazioni partite dall’analisi della letteratura tradizionalista in merito allo specifico problema delle origini umane, considerazioni che sono però state affiancate a qualche riflessione derivante da alcuni elementi di tipo scientifico.

Più nel dettaglio, riteniamo utile evidenziare subito che le quattro coordinate fondamentali nelle quali ci muoveremo sono le seguenti.

 

1.      Dinamica involutiva. Al contrario della visuale darwiniana ed evoluzionista, l’umanità di oggi non rappresenta il risultato finale di un’indefinito andamento progressivo, proveniente da forme inferiori ed animalesche; alle origini, invece, vi fù il divino, un “più che uomo”, che nelle fasi iniziali di questo ciclo generò per regressione l’attuale umanità.

 

2.      Successione ciclica e cronologia “guenoniana”. L’attuale forma umana non è la prima e non sarà l’ultima. Qui però ci interessa sviluppare una serie di riflessioni unicamente sulla presente umanità, il cui ciclo è conchiuso e separato da altri (passati e futuri); tale ciclo completo viene definito “Manvantara” nella tradizione indù ed a sua volta si suddivide, come dai molti accenni delle fonti tradizionali, in età successive di decresente durata e valore spirituale: l’età dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro (le ultime fasi della quale stiamo tuttora vivendo). La specifica cornice temporale che prendiamo a riferimento è quella fornita dal francese Renè Guenon, che definisce il Manvantara completo su una durata di circa 65.000 anni, con l’Età dell’Oro che durò dall’inizio del ciclo fino a circa il 37.000 a.c., l’Età dell’Argento dal 37.000 a.c. fino a circa il 17.000 a.c., l’Età del Bronzo dal 17.000 a.c. fino a circa il 4.400 a.c. e l’Età del Ferro dal 4.400 a.c. fino ai nostri tempi, secondo una proporzione aritmetica 4-3-2-1.

 

3.      Monogenesi umana. Tutte le attuali forme umane (per esempio dal bianco “civilizzato” al pigmeo vivente allo stadio di caccia e raccolta), derivano da un’unica forma ancestrale e quindi risultano tutte imparentate, seppur in gradi diversi; di conseguenza non appare plausibile che attualmente vi siano popolazioni viventi “residuali”, cioè provenienti da Manvantara precedenti a quello della presente umanità.

 

4.      Localizzazione boreale. La forma ancestrale dell’attuale umanità è sorta in un’area prossima, o coincidente, con il Polo Nord geografico, a prescindere se questo abbia subito degli spostamenti nel corso dei millenni.


Aggiungiamo, inoltre, che le considerazioni che esporremo sono state stimolate dal fatto che riteniamo esservi ancora diversi punti aperti nell’ambito della letteratura che si è occupata di storia umana da un punto di vista “tradizionale” e “boreale”. Letteratura che, per inciso, purtroppo sembra essere molto esigua su tematiche quali le terre nordiche di Thule o di Iperborea, e forse un po’ più cospicua in merito alle origini dei popoli indoeuropei; ma comunque ben poca cosa se raffrontata allo sterminato fiume di libri che, ad esempio, hanno avuto come oggetto il mito di Atlantide.

In ogni caso, tra i punti più controversi che abbiamo rilevato – e che ora scorreremo in estrema rapidità – riteniamo in primis che sussista un equivoco di fondo attorno al soggetto che nei tempi aurorali sarebbe sorto nel nord del mondo; soggetto che, a seconda dei vari autori, viene indicato ora nell’umanità tutta intera, ora nel suo solo ramo “caucasoide” (la cosiddetta “razza bianca”, in tutte le sue estensioni), ora nell’ancora più ristretto sottogruppo “nordico”, ora, infine, nell’insieme “indoeuropeo” (che però è un concetto più etno-linguistico che bio-antropologico). Tale equivoco molto spesso risulta collegato alla diversità delle scale temporali che i vari autori hanno inteso utilizzare, evidenziando differenze anche notevoli tra ipotesi di datazioni preistoriche relativamente alte (es. Guenon), intermedie (es. Wirth) o basse (es. Tilak).  

Ma ci è sembrato opportuno sviluppare qualche riflessione anche su taluni aspetti, secondo noi alquanto controversi e non del tutto approfonditi, legati alla coesistenza della mitica e beata età dell’oro con i contemporanei fenomeni glaciali del wurmiano; come anche attorno alle troppo poco indagate dinamiche interne del periodo aureo, che nella letteratura di riferimento quasi sempre, più o meno implicitamente, si dà per scontato aver rappresentato un momento statico della storia umana, mentre invece riteniamo vi siano diversi elementi per modificare sostanzialmente tale assunto.

Non pochi spunti di riflessione sono inoltre derivati anche dalle posizioni senz’altro divergenti che Julius Evola e Renè Guenon hanno evidenziato in merito al problema della monogenesi umana, al rapporto Nord-Sud del mondo, alla concezione delle razze umane (e, considerando anche altri autori, dalla scarsa unanimità emersa circa la loro corrispondenza con i quattro elementi tradizionali Aria-Acqua-Fuoco-Terra); infine, ci è sembrato di ravvisare una curiosa specularità fra le concezioni evoliane e quelle guenoniane, nel momento in cui le prime tendono a mettere in risalto l’elemento ario-europeo a discapito del concetto di un’umanità in senso più generale, mentre all’opposto le seconde sembrano piuttosto porre l’accento su quest’ultima, negando nel contempo ogni fondamento tradizionale all’idea di unità indoeuropea.

 

 


 
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TRADIZIONALISMO, ANTIEVOLUZIONISMO, INVOLUZIONISMO

Post n°2 pubblicato il 17 Luglio 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Il tentativo che in queste note si cercherà quindi di portare avanti per sommi capi è l’analisi di quanto la letteratura tradizionalista ha avuto modo di elaborare in merito allo specifico tema delle origini umane, accompagnandolo comunque ad una serie di elementi provenienti anche da altri ambiti di ricerca; in effetti è stato rimarcato più volte che il cosiddetto “metodo tradizionale” di indagine non trascura affatto i risultati cui pervengono le analisi “scientifiche”, ma li utilizza secondo altri parametri e punti di vista.

Gli autori tradizionalisti vengono dagli osservatori esterni inseriti in una corrente che, soprattutto in ambito inglese, è stata anche definita come “Perennialismo”; tale corrente, che come dicevamo annovera nomi quali Guenon, Coomaraswamy, Schuon, Burkhardt, Evola ed altri, assume come essenziale punto di partenza il fatto che ai primordi sia esistita una Tradizione Primordiale di origine non umana, che l’uomo non ha inventato, ma essenzialmente ricevuto. Il sapere e le fonti più profonde delle verità metafisiche, quindi, non rappresentano nulla di umanamente “costruito” o accumulato; di conseguenza, l’elemento forse più caratterizzante della corrente in questione è il rigetto deciso della visuale evoluzionista, almeno nella sua accezione più comunemente intesa, ovvero quella di un processo generale che da un “meno” conduce ad un “più” (contrariamente al vero significato etimologico del termine, che viene dal latino “volvere”, cioè srotolare, svolgere e quindi dovrebbe piuttosto esprimere il dispiegarsi delle possibilità di esistenza che sono già tutte contenute, senza procedere l’una dall’altra, nella totalità dell’Essere).  

Senza dilungarci troppo sugli aspetti più problematici della teoria evoluzionista, riteniamo tuttavia utile accennare ad alcuni punti, di  carattere generale, che ci sembrano particolarmente degni di nota. Ad esempio ricordiamo la segnalazione del fisico Bogdanov, che stimò in almeno 10 alla quindicesima anni (cioè un milione di miliardi di anni) il tempo necessario per portare alla formazione per puro caso di una molecola di RNA da parte dei nucleotidi componenti, il che è palesemente un tempo ben più esteso dell’età stimata di tutto il nostro universo. O alla stima della probabilità che si possa formare per caso una proteina per una specifica funzione, corrispondente ad un valore pari a 20 elevato a 300, dove anche qui il tempo necessario per consentire tutti i tentativi supererebbe di gran lunga la durata cosmica. Altre considerazioni portarono vari ricercatori, anche non necessariamente di scuola tradizionalista, ad interrogarsi se la teoria evoluzionista non fosse incompatibile con una delle leggi fondamentali della fisica, ovvero la seconda legge della termodinamica, nota anche come “legge dell’entropia”, secondo la quale tutti i sistemi abbandonati a sé stessi tendono irrimediabilmente a degradare fino alla distruzione, in funzione del tempo, e non ad “evolvere” secondo un perfezionamento continuo. Per arrivare al mondo dei viventi più complessi, critiche sempre più estese anche nello stesso ambito scientifico, sempre meno concedono al meccanismo della selezione naturale la reale possibilità di causare le grandi differenze morfologiche e funzionali osservate tra le specie (la cosiddetta “macroevoluzione”) ammettendo solo la generazione di piccoli adattamenti (ovvero la “microevoluzione” che peraltro nessuno nega).

Né va mai dimenticata l’analisi del materiale fossile, nell’ambito del quale non si è rilevata alcuna presupposta maggior semplicità primitiva (che anche Guenon nega) ed un lento progredire verso forme sempre più complesse, ma al contrario una sostanziale successione di varie tipologie di organismi, che però non rappresenta di per sé una prova dell’evoluzione, in quanto è necessario che sia anche dimostrata una effettiva filiazione tra queste. Del resto lo stesso Darwin aveva messo in guardia contro la possibile confusione tra idea di evoluzione e quella di progresso, dal momento che il principio di selezione naturale non implica necessariamente quello di un miglioramento continuo.  

Tutta questa serie di elementi fecero dichiarare allo stesso Albert Einstein nel 1950:  "Considero le dottrine evoluzionistiche di Darwin, Haeckel e Huxley tramontate senza speranza".

Se ora affrontiamo più da vicino il caso della forma umana, vedremo che anche su questo tema la visuale evoluzionista presenta non poche lacune.

Il prof. Sermonti ci ricorda infatti che la grande maggioranza dei caratteri dell’uomo attuale sono primari, cioè vicini alle conformazioni tipiche dell’ordine, presenti nei più antichi primati fossili e citando il prof. Wax Westenhofer che, contrariamente a quanto l’evoluzionismo dovrebbe aspettarsi, “l’uomo è il più antico dei mammiferi e, tra tutti, sembra essere quello che meno si è allontanato dal loro ipotetico prototipo”. In effetti quella umana sembra essere la forma primigenia tra quelle dei mammiferi, in quanto morfologicamente molto meno specializzata delle altre; ciò non solo nei confronti delle scimmie attuali, ma anche in rapporto ai nostri ipotetici precursori, ovvero le australopitecine, gli homo erectus e habilis che, al contrario, sembrerebbero denotare caratteri piuttosto specializzati rispetto a forme umane simili alle attuali. Da queste gli ominidi africani avrebbero mantenuto la stazione eretta, che infatti presenta una  grandissima antichità, ma ciò indicando piuttosto una loro derivazione da un tronco più originario e centrale, presente già da tempi molto più antichi di quanto ora si supponga. Se poi consideriamo gli animali attuali ritenuti meno distanti da noi, va ricordato che fino ad ora la paleontologia non ci ha consegnato fossili antichi somiglianti a scimpanzè, gorilla o orango, conseguendone da ciò il fatto che questi organismi sono molto più recenti della forma umana e quindi non possono essere (loro, o altre tipologie più o meno simili a loro) annoverabili tra i nostri ascendenti.

E’ stato inoltre osservato che anche dal feto umano si possono trarre utili indicazioni, in quanto manifesta i caratteri generali dell’ordine a cui la specie appartiene, ed è perciò simile in tutti i rappresentanti dell’ordine nonché libero da caratteri secondari (p.es. il feto di uno scimpanzè o di un gorilla sono quasi uguali a quello umano); una specie poco specializzata com’è quella umana, mostra in effetti questa sua primarietà nella somiglianza dell’adulto al feto ed al neonato, cosa non osservabile in altre specie considerate a noi vicine. E’ questa nostra eterna fanciullezza ha spinto diversi autori a considerare la nostra come una specie a forte tendenza neotenica, caratterizzata cioè dalla conservazione anche in età adulta di certe importanti caratteristiche infantili.

 

L’uomo, quindi, sembra non essersi “evoluto” da forme ancestrali animalesche, ma semmai sono queste che rappresentano delle linee laterali, derivate e senili di sviluppo. I caratteri primordiali, invece di essere di tipo bestiale, sono quelli fetali, quelli della incontaminata giovinezza. E’ piuttosto l’animale ad essere il prodotto di una involuzione a partire dall’uomo, come ipotizzava anche Platone che ad esempio vedeva nelle scimmie degli umani decaduti per aver perso la “scintilla sacra”.

Ma a partire da quale tipo di uomo, precisamente, è iniziata questa serie di linee discendenti? Per il filosofo Edgard Dacquè, le specie animali discendono involutivamente da un’umanità non corrispondente a quella attuale, bensì da un ceppo primordiale (Urmensch) dal quale l’uomo materializzato si distingue, costituendone tuttavia l’erede più vicino, mentre antropoidi ed animali vari rappresenterebbero linee via via più laterali di caduta rispetto alla direzione centrale. L’uomo odierno, con le sue attuali possibilità biologiche e razionali, rappresenta quindi la manifestazione più approssimata e diretta di quest’Uomo primordiale, che anche Platone ebbe a sottolineare come notevolmente diverso dalla forma attuale. Una forma  esemplare che avrebbe quindi svolto una funzione “archetipica”, creata essa stessa “ad immagine di Dio”, ed in rapporto alla quale anche noi siamo in fondo dei decaduti essendo in pratica “un’immagine dell’immagine divina”.

Rispetto alla conformazione morfologica più elevata, postulata dalla Urmensch di Edgar Dacquè, già la brutalità di alcune popolazioni preistoriche ne mostrerebbe un pesante evento involutivo. E lo stesso Piveteau ebbe a notare che anche gli stessi  neandertaliani denoterebbero le tracce di un’avvenuta regressione fisica e, in parte, psichica da un ceppo superiore: l’ipotesi è rafforzata dal fatto che i neandertaliani più “bestiali” e specializzati sono proprio quelli più recenti (circa 33.000 anni fa, rispetto a quelli di 38-40.000 anni fa).

Vi furono quindi molti cammini e molte modalità di discesa e, con i millenni trascorsi, i percorsi involutivi divennero sempre più divergenti. Molte odierne popolazioni cosiddette “selvagge” sono il risultato di un’estrema degenerazione. Ma tali popolazioni non vanno definite “primitive” nel senso di maggiormente vicine alle origini, quanto semplicemente più in stretto contatto con la natura, contatto attraverso il quale ebbero tuttavia il modo di cristallizzarsi e “fermarsi”, evitando quella particolare forma di decadenza che ha raggiunto il suo estremo ipertrofico nella civiltà moderna ed in noi stessi, “evoluti” – questo sì – dal punto di vista tecnologico, ma probabilmente solo in quello.

E, proprio sul piano tecnologico, una piccola conferma di come questo processo non abbia comunque sempre preso un cammino ascendente, ci viene ad esempio dall’archeologia delle ormai estinte popolazioni tasmaniane (Le Scienze, agosto 2005) che sembra accertato disponessero fino a circa 10.000 anni fa di tecnologie relativamente avanzate che però vennero poi perse quando l’innalzamento del livello marino le separò da quelle australiane.

 

 
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EVOLA E GUENON: QUALCHE DIFFERENZA NELLA RICOSTRUZIONE DEI PRIMORDI UMANI

Post n°3 pubblicato il 18 Luglio 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Tra gli autori tradizionalisti, Julius Evola e Renè Guenon sono senz’altro quelli che hanno avuto modo di fornire le maggiori indicazioni sul tema delle origini e della preistoria umana, per cui cercheremo ora di svolgere alcune brevi considerazioni in merito a quanto da loro espresso, tra le altre, soprattutto in opere come “Rivolta contro il mondo Moderno” (Evola) e “Forme tradizionali e cicli cosmici” (Guenon).

Partendo dai quattro punti elencati in premessa, possiamo dire che Evola e Guenon si rivelano sostanzialmente in accordo sul primo, ovvero sull’approccio antievoluzionista di fondo; l’accordo invece può essere considerato solo parziale in merito alla localizzazione boreale dell’inizio del nostro ciclo e la relativa cronologia dei primordi, mentre si può affermare che denotano una sostanziale differenza di valutazioni in relazione al discorso monogenetico.

Quanto al quadro cronologico, più che esservi disaccordo sul concetto generale della quadripartizione oro-argento-bronzo-ferro delle varie età succedutesi nel tempo, in quanto elemento tradizionalmente attestato (rif. Esiodo) e quindi difficilmente contestabile, sembrano piuttosto essere i tempi di questa scansione a non collimare del tutto tra i due autori.

E’ innanzitutto necessario ricordare che, come più volte segnalato da entrambi, l’iniziale età dell’oro dovette rimandare al nord e all’Artide, alla terra veramente primordiale, cioè la Tule iperborea, mentre la successiva età dell’argento ebbe invece relazione con l’ovest e l’Atlantide.

Ebbene, è noto che Julius Evola, parlando delle fasi iniziali del ciclo umano, tese piuttosto frequentemente ad accostare il termine “atlantico” a quelli più prettamente polari (p.es. “nordico-atlantico”, “artico-atlantico”) ed a sovrapporre i due concetti, con il risultato, a nostro avviso, di ricadere inconsapevolmente nell’errore di considerare come momento primordiale, una fase che, pur molto antica, non lo era invece già più. A tal proposito è probabile che le vedute di Julius Evola sulle origini umane fossero fortemente influenzate da idee al tempo circolanti in Germania, soprattutto ad opera di Herman Wirth (che ipotizzava una civiltà nordica sorta attorno a 40.000 anni fa e le cui prime migrazioni verso sud sarebbero avvenute in un periodo situabile all’incirca tra i 20.000 ed i 30.000 anni fa).

In relazione alla possibilità di tali erronee sovrapposizioni, l’idea di Guenon fu piuttosto chiara ovvero che “la stessa Atlantide settentrionale non aveva nulla di iperboreo”, riaffermando cioè la netta separazione della vera fase primordiale, unitaria e letteralmente polare, con qualsiasi altro momento che, pur anche genericamente nordico o boreale, risultava però essere necessariamente posteriore alla prima e non più legato al polo geografico. Infatti, come abbiamo visto nella premessa, per Guenon l’inizio della prima età partiva da più di 60.000 anni fa e le date di Wirth, rispetto a questa, risultavano più tarde di almeno 20.000 anni; è quindi ipotizzabile pensare i due quadri cronologici non necessariamente alternativi l’uno all’altro, ma complementari. Gli eventi ai quali si riferiva Evola dovettero cioè essere molto probabilmente simili a quelli iniziali, ma temporalmente e geograficamente diversi: interpretati cioè come primordiali ma invece riconducibili ad una fase più avanzata del nostro ciclo.

Quindi due momenti distinti, entrambi realmente verificatesi, che però molto spesso, nelle memorie del Mito, ebbero a confondersi tra loro; e ciò è ad esempio riscontrabile anche nella mitologia indù, che ricorda i due antichi continenti Ilavrita (artico, primordiale e corrispondente al Paradiso Terrestre vero e proprio) ed il, almeno in parte, successivo Uttarakuru (“Terra settentrionale” ma semplicemente boreale, legata al nord-ovest) le cui caratteristiche furono però suscettibili di numerose reciproche sovrapposizioni.  

Vedremo prossimamente come tale, tutto sommato relativa, differenza prospettica sul quadro cronologico e geografico dei primordi fu collegata alla ben più radicale diversità di vedute che ci pare di cogliere, tra i due autori, in merito al particolare tema della monogenesi umana.

 

 
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EVOLA E GUENON: IL PROBLEMA DELLA MONOGENESI

Post n°4 pubblicato il 19 Luglio 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Come lo stesso Julius Evola scrisse nella sua autobiografia (Il cammino del cinabro) la sua interpretazione della storia venne elaborata attraverso una sintesi articolata delle vedute di Renè Guenon, di Herman Wirth e di Johann Jakob Bachofen. Quest’ultimo autore, com’è noto, espresse nella sua corposa opera il concetto che la chiave fondamentale della dinamica storica di tutte le civiltà, risiedesse fondamentalmente nell’alternanza, e spesso opposizione, di fasi matriarcali e di fasi  patriarcali di dominio.

Da vari studiosi in ambito tradizionale è stato in effetti rilevato che l’influenza, senz’altro notevole, che le categorie bachofeniane esercitarono sulle elaborazioni di Julius Evola, rappresentano un elemento tutto sommato abbastanza isolato nell’ambito degli autori che si accostarono allo studio delle dottrine tradizionali, qualcuno anzi sottolineando come tali categorie, da questo punto di vista, non possano essere sorrette da alcuna autorità dottrinaria. Ma è proprio da tali categorie che Evola ricevette un’impostazione che possiamo senz’altro definire “dualistica”, la quale probabilmente non lo abbandonò mai e che gli trasmise la tendenza in ogni ambito e quindi anche in quello storico, che qui più ci interessa, ad intravedere maggiormente gli elementi separativi piuttosto che quelli unitari ed a contrapporre dottrine che invece, con un diverso approccio interpretativo, avrebbero potuto essere lette come aspetti certamente diversificati ma pur sempre riconducibili ad un’unica realtà spirituale di fondo.

Si arriva così alla situazione, per certi versi paradossale e problematica, che Evola, pur ammettendo a priori una “Tradizione Primordiale”, arrivi poi a postularne due opposte formulazioni, una cioè legata al Nord e poi all’Occidente, l’altra legata al Sud e poi all’Oriente. Nei sui scritti di carattere storico-tradizionale il pensatore romano, non rinuncia infatti mai a mantenere una differenza non conciliabile tra una “Luce del Nord” ed una contrapposta “Luce del Sud”, quali riflessi di civiltà che sembrerebbero inassimilabili l’una all’altra ed irriducibilmente separate fin dai tempi delle primissime origini umane. Va tuttavia evidenziato come per Evola il contesto che avrebbe accompagnato la “Luce del Nord” (da lui connessa alla primordiale spiritualità olimpico-solare) sarebbe legato alle avverse condizioni climatiche drammaticamente sopraggiunte nell’habitat delle primordiali razze boreali, portando questa a dover sviluppare particolari attitudini di dinamismo culturale e di “virilità” spirituale: a nostro avviso, questa è un’ulteriore conferma di quanto accennavamo nel post precedente, ovvero il fatto che Evola consideri come primordiale una fase che invece non lo è già più, in quanto contrasta apertamente con le condizioni edeniche da “eterna primavera” che miticamente avrebbero contraddistinto la vera Età dell’Oro.

Questo dualismo, continuamente presente "sottotraccia" nel pensiero evoliano, riteniamo segni una netta differenziazione concettuale rispetto a Guenon, nel quale l’originaria unitarietà iperborea non viene mai seriamente intaccata da alcuna successiva contrapposizione tra nord e sud, della cui l’inconsistenza dottrinale egli ebbe anzi a scrivere, ritenendola erronea ed in definitiva equivalente alla posizione di chi nega del tutto l’esistenza originaria di una Tradizione Primordiale.

Da qui, di conseguenza, il silenzio quasi completo di Julius Evola sull’esistenza di una fase storica veramente primordiale ed unitaria, dalla quale si sarebbero lontanamente originate anche le forme umane e le civiltà che invece, in linea con le ipotesi di Herman Wirth, Evola di fatto tende a considerare come autoctone del sud del mondo. Ed infatti, a conferma di ciò, non risulta che nelle elaborazioni evoliane siano mai presenti concetti esplicitamente validi per l’umanità nel suo complesso (entità che, anzi, tende a negare come organismo unitario) e questo pur in un quadro indubbiamnte più dettagliato di quello guenoniano nella raffigurazione degli eventi preistorici più remoti. Rarissime eccezioni a questa linea sono date, a quanto ne sappiamo, da accenni veramente fugaci: in un’occasione Evola ricorda la primordiale “razza” unitaria Hamsa (della quale parleremo più avanti), anteriore ad ogni successiva differenziazione umana, mentre in un altro, menziona la dualità latente del principio generatore unico che ha nutrito i due gemelli Romolo e Remo, così opposti (Romolo è votato alle divinità maschili, celesti e solari, mentre Remo a quelle femminili, ctonie e lunari), ma tuttavia nati dalla stessa Lupa, fratelli ricordati come chiave interpretativa delle stesse “origini umane”.

Ma, a parte le eccezioni sopra, non sembra che, più nello specifico, nella sua opera Evola utilizzi mai il termine “Manvantara”, già accennato nella premessa, come “cornice” generale di un completo ciclo umano. Di fatto egli quindi appare come un “poligenista”, soprattutto quando interpreta l’origine delle popolazioni australi di colore come “residui involuti di cicli precedenti”, dando a nostro avviso alla parola “cicli” il significato di umanità (e quindi Manvantara) anteriori a quella attuale. Ed, aggiungiamo, nel pensiero evoliano non sono solo le popolazioni del sud ad apparire come residuali e decadute, ma spesso anche quelle mongoliche ed orientali che pur in altri punti, citando tradizioni cinesi e tibetane, Evola, contraddittoriamente, riconduce anch'esse ad un’origine nordica.

 

Dal canto suo, Renè Guenon invece propende – implicitamente, ma riteniamo abbastanza chiaramente – per una monogenesi umana, sia per il frequente utilizzo nei suoi scritti del concetto di Manvantara, che quindi riveste per lui un’importanza non secondaria, sia perché rimarca chiaramente la scomparsa da questo livello di esistenza di tutte le umanità vissute nei Manvantara precedenti al nostro. Il metafisico francese sottolinea infatti come tutto ciò che riguarda la manifestazione corporea relativa ad un dato ciclo, al suo termine letteralmente si volatilizzi dal piano materiale; nello specifico viene utilizzato l’esempio degli “antichi re di Edom”, che nella sua interpretazione rappresentano le umanità dei precedenti Manvantara, trascorsi i quali finiscono in una modalità extracorporea del Manvantara attuale. Per Guenon quindi ogni umanità parte da una sorta di “tabula rasa”, con la sua età dell’oro e via seguendo le altre, e non vi sono popolazioni “residuali” (come invece per Evola) che passano da un Manvantara all’altro, almeno non sul piano della manifestazione materiale.  

 

 
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MONOGENESI E MOLTEPLICITA' UMANA

Post n°5 pubblicato il 23 Luglio 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Proseguendo sul tema dell’unità di fondo del genere umano, è stato notato come in nessuna parte del mondo esistano tradizioni che neghino esplicitamente un’origine monogenetica – o, al più, monofiletica (ovvero, la provenienza da un unico gruppo primordiale, piuttosto che da una singola coppia) – affermando al contrario la poligenesi umana.  

Renè Guenon segnalò che non può esservi alcuna irriducibilità assoluta neppure tra la prima di tutte le dualità, cioè quella che polarizza l'Essere Universale in “essenza” e “sostanza”, anche se a seguito di questo primo atto ha inizio quella molteplicità che sempre più tende a porre in risalto gli aspetti separativi della manifestazione. A livello cosmologico, essenza e sostanza corrispondono a Cielo e Terra e, sul piano antropologico, tale evento corrisponde al polarizzarsi dell’unità androginica primordiale ipotizzata da Platone (sul quale avremo modo di tornare) nei due soggetti separati che la tradizione biblica identifica in Adamo ed Eva. Ciò costituisce il primo passo verso la molteplicità umana, che implica il manifestarsi di diverse modalità di esistenza corrispondenti in primis alle varie razze della nostra specie.

Per Frithjof Schuon la varietà di queste non deve però far mai dimenticare la comune origine, sottolineando come tutte le razze comportino “modi di bellezza perfetta, ciascuna esprimendo un aspetto fondamentale della teofania umana in sé” e contestando peraltro che la loro profonda ragione d’essere sia riconducibile al mero caso o alla sola azione dell’ambiente, che peraltro non viene del tutto negata. Inoltre, per Schuon, il fatto che le razze non sembrino essere tra loro separate da paratìe stagne, non significa che non ne esistano di più “pure” accanto a gruppi etnici più eterogenei (volendo intendere per “pure” semplicemente la maggior vicinanza al rispettivo archetipo iniziale: più avanti avremo modo di tornare sulla specifica corrispondenza tra razze ed elementi cosmici).

Anche altri autori tradizionalisti accennarono in termini simili alla tematica in questione. Per Titus  Burckhardt le varie sottospecie di Homo Sapiens rappresentano altrettanti “riflessi” dell’unica forma essenziale inscindibile che ne è l’archetipo comune, esattamente come i rami dipendono dall’unico tronco dell’albero; anche in Leopold Ziegler tutte le razze umane hanno la loro fonte primaria nell’Adamo androginico creato nel 1° capitolo del Genesi, ciò ricordando a mio avviso la “Urmensch”, già incontrata, ipotizzata da Edgard Dacquè.

Il concetto di base è cioè che la razza, oltre che sul solo piano fisico, vada prima di tutto intesa come una modalità di esistenza, informata da uno specifico archetipo platonico; e ciò anche se non è certo che l’idea possa sempre ed immancabilmente incarnarsi in una data razza fisica. E’ però plausibile, riteniamo, che l’idea immateriale discenda nella fisicità con maggior precisione nei primi tempi del ciclo, ancora “fluidi” e permeabili (come vedremo), mentre, con il sopraggiungere delle successive frammentazioni o fusioni tra i vari gruppi umani è probabile che tali archetipi trovino sempre meno possibilità di corrispondere a delle effettive popolazioni viventi.

Ma ovviamente la molteplicità dell’umano, e la sua riconducibilità ad un’origine monofiletica, è stata indagata anche da altri punti di vista; ad esempio, da quello glottologico, Alfredo Trombetti fu convinto sostenitore di una fonte comune di tutte le famiglie linguistiche del pianeta, mentre, più recentemente, Merritt Ruhlen segnalò come tutte le oltre 5000 lingue sparse nel mondo condividano in pratica il medesimo grado di complessità, cosa che risulterebbe senz’altro incoerente con un’origine polifiletica delle stesse. O, dal punto di vista genetico, Luigi Luca Cavalli Sforza non manca di rilevare come la separazione tra i vari gruppi umani deve essere stata anche relativamente recente, vista la totale interfecondità tra tutti questi, ciò evidentemente indicando che non ci si trova all’inizio della formazione di specie diverse.

La raffigurazione più consona dei vari sottogruppi umani è quindi quella di un albero, dove le varie razze vanno considerate come rami diversi, staccatisi da un tronco comune in periodi differenti e magari modificatisi con velocità diseguali nel corso del tempo.

Ma oltre all’aspetto profondamente costitutivo delle varie sottospecie di Homo Sapiens, tratti comuni a livello planetario sono riscontrabili anche sul piano ideale e culturale.  

Se già Ananda Kentish Coomaraswamy ebbe, in termini generali, a sottolineare come la stessa “Philosophia Perennis” – altro modo per definire la Tradizione Primordiale – è anche “universalis”, ovvero eredità comune a “tutto il genere umano senza eccezioni”, studiosi delle religioni quali Mircea Eliade misero in luce come sia largamente diffusa nei più svariati popoli della terra, senza distinzione di razza, posizione geografica, cultura e religione, una profonda nostalgia evidenziata nei miti di stratificazione più antica – la cosiddetta “nostalgia delle origini” – che rimanda ad un’ormai perduto e comune momento paradisiaco iniziale.

Aspetti culturali anche più specifici vengono evidenziati da Eliade nelle numerose rassomiglianze denotate nei riti sciamanici di popolazioni in America, Siberia e Scandinavia (soprattutto tra i Lapponi) di elementi che, in quanto rintracciabili anche nell’America del Sud, ben difficilmente potrebbero essere dovuti ad un’influenza eurasiatica recente piuttosto che ad una comune fonte ancestrale. Ed anche sul versante artistico, Leroi-Gourhan segnala come ad esempio l’arte rupestre dei Boscimani sudafricani risulti contrassegnata da aspetti grafici, tipici della pittura sciamanica, che rivela connessioni chiare con quelle degli Indiani d’America e, sorprendentemente, anche con certe pitture paleolitiche dell’occidente europeo. In generale risulta cioè chiaro come l’arte paleolitica (figurativa ed astratta), il cui culmine viene appunto toccato nel periodo maddaleniano europeo, presenti delle forme e dei segni uguali, ad esempio, a quelle rinvenute in Tanzania, Brasile o Australia (ma anche in contesti non più paleolitici, come in Egitto, Cina o Mesopotamia, denotando peraltro una indubbia continuità culturale con i periodi anteriori) la cui area di dispersione – planetaria – non può certo lasciare indifferenti. Oltretutto, si tratta di un corpus di segni e grafismi le cui ripetitività e le diverse associazioni fanno sicuramente pensare a delle precise concettualità sottostanti, smentendo quindi le intrepretazioni basate su paragoni impropriamente tentati con le espressioni artistiche infantili; ciò a seguito, a nostro avviso, di un palese pregiudizio evoluzionistico da parte di ricercatori che ritengono le popolazioni “selvagge” immancabilmente dominate da un “prelogismo” tipico delle menti infantili.

 

 
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PATRIA ARTICA O AFRICANA ?

Post n°6 pubblicato il 25 Luglio 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Dopo aver cercato di mettere in luce gli elementi a nostro avviso più significativi in favore dell’origine monofiletica dell’attuale umanità, cerchiamo ora di fare qualche considerazione in merito alla localizzazione della patria comune di tutte le popolazioni mondiali.

Renè Guenon ci ricorda innanzitutto che nei miti di ogni latitudine, si trova l’affermazione che la tradizione primordiale del ciclo attuale sia venuta dalle regioni iperboree; abbiamo già incontrato il continente primordiale nordico Ilavrita della cosmorafia indù al centro del quale si erge il Monte Meru, letteralmente polare, ma i rimandi non si fermano qui. Nella tradizione buddista tibetana si accenna ad esempio a Shambhala, mitica terra posta all’estremo nord dell’Asia nelle aree che circondano il polo, come anche in quella cinese, che ricorda una terra boreale anticamente popolata da uomini “trascendenti” e da una “razza con le ossa molli” (ritorneremo più avanti sulle importanti implicazioni di questo accenno). Henry Corbin ci segnala che anche nella gnosi islamica troviamo una la “terra celeste” – Hurqalya – posta nell’estremo settentrione, dalle chiare caratteristiche paradisiache e polari, aggiungendo inoltre come vada superata la letterale concezione dell’Ex Oriente Lux, in quanto l’Oriente di riferimento è in realtà il Polo Nord cosmico, in rapporto al quale deve essere stabilito, appunto, ogni corretto “orientamento”.

Vi è poi la tradizione greca con Thule ed il mitico popolo degli Iperborei, quella norrena con Asgard, gli iranici ricordano la terra orginaria Ayrianem Vaejo, i vari popoli mesoamericani parlano di una mitica Tulla. Sono comunque mitologie via via sempre più miste e confuse, nelle quali non è agevole capire se la terra di provenienza evocata riguardi il singolo gruppo etnico in questione o la totalità del genere umano, come anche se la stessa rappresenti la patria veramente primordiale di inizio ciclo o invece un centro secondario e più recente; infatti – avverte anche Evola – molto spesso i ricordi mitici tendono a sovrapporsi, come abbiamo già visto con Uttarakuru / Ilavrita, o anche con la stessa Tula / Thule che, già iperborea, nel mito ellenico viene poi ad identificarsi con una terra posta nell’Atlantico settentrionale e corrispondente all’isola di Ogigia. Il tutto mescolando quindi eventi e fasi temporali non perfettamente omologabili, di cui forse un esempio è rappresentato anche dal quadro, già incontrato, di Herman Wirth.

Ma ciononostante è indubbia l’importanza e la frequenza del mito nordico e polare nel mondo: anche se non provenienti da ben precisi e strutturati corpus mitologici, idee, frammenti e rimandi vari si affacciano un po’ ovunque, e non solo tra i popoli artici.

Ad esempio è noto che gli Zingari pongono il Paradiso terrestre in Siberia, mentre simbolismi chiaramente legati all’idea del centro e dell’assialità si possono scorgere tra gli indiani nord-americani, i Pigmei Semang malesi, i Batak di Sumatra (il loro albero della vita presenta caratteristiche molto simili al frassino Yggdrasill della mitologia nordica). Nei suoi fondamentali studi sulle popolazioni africane, l’etnologo Leo Frobenius individuò elementi culturali che gli fecero ipotizzare un’antichissima civiltà dilagata dall’Islanda e dalla Groenlandia fino al confine meridionale della terra abitata, ricollegandosi addirittura a Boscimani e Pigmei e ponendo quindi in contatto le ritualità del paleolitico africano con quelle del paleolitico europeo. Forse anche, riteniamo, arrivando a trasportarsi dietro qualche toponimo, come può essere successo con il nome di “Tula”, che corrisponde ad una località sita nell’Africa centro-occidentale…

Oltre al Mito ed al ricordo diretto dei popoli, il tema delle origini boreali fu trattato anche da diverse e dotte teorizzazioni; per sommi capi, il primo Medioevo vide quelle di Paolo Diacono, che sostenne essere imponente il numero di popoli originati sotto il polo dell’Orsa, nel XVI secolo quelle di Guglielmo Postel che poneva il paradiso terrestre proprio sotto il polo artico e nel XVIII secolo quelle di Jean Sylvain Bailly, con le sue ipotesi sulle origini nordiche della civiltà umana. In tempi a noi ancora più vicini, i principali autori che intervennero sull’argomento furono William Fairfield Warren, che alla fine del XIX secolo scrisse “Paradise Found. The cradle of the Human Race at the North Pole” (molto citato in questo genere di studi ma purtroppo mai tradotto in italiano), Bal Gangadhar Tilak che nei primi del ‘900 pubblicò “The Arctic Home in the Vedas” (importante ed anche citato da Guenon, ma circoscritto al solo ambito indù e su una scala temporale bassa) ed il già menzionato Herman Wirth con il corposo “Die Aufgang der Menscheit” del 1928 (anche di questo non è mai uscita un’edizione italiana).

In definitiva, le argomentazioni a sostegno di un’origine artica non sono esigue; ed è stato notato come elementi mitologici ben più antichi di quelli riconducibili ad una patria solamente indoeuropea (concetto sul quale torneremo), ma relativi al complesso dell’umanità, sembrerebbero attestati dalle tracce di un’arcaica simbologia settenaria di matrice polare, che successivamente venne sostituita da una più complessa di natura zodiacale, dapprima solare e poi lunare.

Infine si può dire che il rapidissimo popolamento della Terra da parte di Homo Sapiens Sapiens potrebbe trovare adeguata spiegazione proprio con l’origine in una zona boreale, che a ben vedere appare più centrale, rispetto agli altri continenti, di quanto ad esempio non sia l’area africana. Al giorno d’oggi, però, è l’Africa che viene indicata da quasi tutti gli studiosi del settore come sede primigenia dell’umanità (peraltro, senza che ciò sia apparentemente avallato da alcuna tradizione orale o scritta) e quindi prossimamente vedremo se è possibile portare qualche considerazione critica su tali argomentazioni.

 
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CRITICA DELLE TEORIE AFROCENTRICHE: LE DATAZIONI PIU’ ANTICHE E GLI ELEMENTI ARCHEOLOGICI

Post n°7 pubblicato il 26 Luglio 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Come avevamo precedentemente accennato, le teorie sulla zona di origine dell’umanità che attualmente sembrano maggiormente accreditate dai ricercatori, ipotizzano una provenienza africana; viene postulato cioè un più massiccio ed antico popolamento dell’Africa rispetto a tutti gli altri continenti che, di conseguenza, non avrebbero potuto fare altro che ricevere varie ondate migratorie in territori, fino a quel momento, non ancora occupati da rappresentanti della specie Homo Sapiens Sapiens.  

Cercheremo, in questo e nei post successivi, di porre alcune osservazioni critiche sulle teorie afrocentriche – in particolare su quella nota come “Out of Africa” – essenzialmente da un punto di vista archeologico, antropologico e genetico; non ci occuperemo invece della teoria “multiregionale”, attualmente sostenuta soprattutto dal paleoantropologo Milford Wolpoff, perché la sua strutturazione, fondamentalmente poligenetica, e l’elevata scala temporale proposta, la pongono al di fuori dei limiti della nostra ricerca.

Come considerazione iniziale, possiamo subito sollevare un interrogativo di base, ovvero quello sulle effettive motivazioni che avrebbero spinto i primi ipotetici proto africani ad abbandonare i favorevoli climi tropicali per migrare, ad esempio, verso la gelida Europa del periodo glaciale; è, questo, un interrogativo che apparentemente non sembra trovare facili risposte. Oltretutto, la cosa appare problematica anche perché una prima eventuale “finestra” climatica relativamente più mite, che avrebbe potuto agevolare il flusso, poteva corrispondere ad esempio all’interstadio di Hengelo; ma la datazione di questo (tra i 34.000 ed i 38.000 anni fa) non sembra collimare molto bene con le prime attestazioni di presenza umana nel nostro continente, che risultano più antiche di alcuni millenni.

Vi è poi il discorso sulla ipotetica maggior antichità, rispetto agli altri continenti, dei ritrovamenti africani attribuibili a uomini anatomicamente moderni, come ad esempio quelli di Klasies nell’Africa meridionale, situabili tra 130.000 e 70.000 anni fa, ed altri ancora di ulteriori aree sub-sahariane, che evidenzierebbero un probabile uso intenzionale di ocra rossa e risalenti anch’essi a circa 70.000 anni fa.

Va detto innanzitutto questi ritrovamenti non sono gli unici di questa antichità, perché ad esempio ne sono emersi anche in Australia meridionale, a Kununurru (datati tra 174.000 e 114.000 anni fa) ed in Cina, nella zona di Liujiang, che potrebbero risalire a più di 100.000 anni fa ed altri, di due caverne vicine, probabilmente di almeno 94.000 anni; è per tale motivo che quasi tutti gli antropologi cinesi respingono l’idea di una discendenza dei cinesi attuali da uomini provenienti dall’Africa (e sono in disaccordo anche sull’ipotesi di una derivazione dei primi asiatici orientali e sud-orientali da zone più meridionali, come l’Australia o la Nuova Giunea).

In secondo luogo, anche se nelle rimanenti parti del mondo non ve ne fossero emersi di di antichità simile, non dobbiamo dimenticare, nell’ambito di questa ricerca che, come indicato nella premessa, i limiti temporali del nostro ciclo umano – o Manvantara – non superano i 65.000 anni; quindi tutto ciò che può essere rinvenuto e datato a cronologie superiori, è necessariamente l’espressione di Manvantara ed umanità precedenti alla nostra, e quindi esce dai limiti del nostro studio.

E proprio a tale proposito a nostro avviso è piuttosto significativo il fatto che il continente africano denoti un forte hiatus – quasi a seguito di una barriera temporale – tra i ritrovamenti più antichi e quelli più recenti (che, peraltro, come vedremo non presentano certo antichità superiori a quelli di altre zone del mondo). Ad esempio in alcune aree dell’Africa sub-sahariana alcuni autori ravvisano sporadici elementi di un comportamento che può essere considerato simile a quello umano moderno, come l’arte astratta, già 90.000 anni fa, elementi che poi scompaiono circa 65.000 anni fa e ritornano solo 25.000 anni dopo. Oppure il fatto che, proprio nella sopra citata zona di Klasies, da 70.000 fino a 15.000 anni fa non sembra esserci stata più alcuna traccia di popolamento umano; o infine la constatazione di carattere demografico che circa 50.000 anni fa buona parte dell’Africa risultava disabitata, forse con qualche incerta traccia di presenza nelle sole nelle zone orientali.

A nostro avviso tutte queste sono evidenze che, a ben vedere, mal si conciliano con il fatto che l’area sub-sahariana, secondo la teoria “Out of Africa” dovrebbe rappresentare la zona “nucleare” del nostro genere.

Comunque altri autori contestano, dal punto di vista archeologico, anche l’effettiva datazione in periodi troppo remoti, di un comportamento chiaramente “moderno” nell’Africa sub-sahariana: ad esempio, per Lewin prima di 40.000 anni fa tale evento è molto incerto, mentre per Klein l’inizio della tarda età della pietra (da un sito nel Kenya centrale) è situabile tra i 45.000 ed i 50.000 anni fa. E proprio in rapporto alle tecnologie litiche utilizzate dalle ipotetiche popolazioni proto africane migranti, Wolpoff e Thorne segnalano che non si osserva negli altri continenti alcuna comparsa o diffusione di industrie che sembrino tipologicamente collegabili a quelle africane.

 
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CRITICA DELLE TEORIE AFROCENTRICHE: ASPETTI ANTROPOLOGICI E RAZZIALI

Post n°8 pubblicato il 27 Luglio 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Dubbi sulle ipotetiche migrazioni dall’Africa, nella diffusione mondiale degli uomini anatomicamente moderni, possono riguardare anche aspetti più prettamente legati all’antropologia fisica e razziale.

E’ stato infatti notato come in genere i più antichi europei ed australiani conosciuti tendano ad evidenziare delle somigliare fisiche molto più pronunciate verso i loro discendenti di età storica piuttosto che nei confronti dei presunti antenati africani; ad esempio, nei primi ritrovamenti ossei del nostro continente – Combe-Capelle e Cro-Magnon – sono riscontrabili non poche caratteristiche ancora oggi presenti negli attuali europei, o almeno in buona parte di essi (più avanti torneremo sul significato di tali reperti); questi ipotetici antenati africani cioè, ad un esame attento, si rivelano essere alquanto sfuggenti come popolazione chiaramente identificabile dal punto di vista delle caratteristiche tipologiche. Non sembrano cioè esistere loro reperti di antichità compatibile con la teoria “Out of Africa”, per la quale i primi flussi potrebbero essere usciti dal continente nero grossomodo 50-60.000 anni fa, e chiaramente riconoscibili come tipo fisico africano, arcaico o avvicinabile a qualche popolazione attuale. Ad esempio i famosi ritrovamenti di Grimaldi, o dei Balzi Rossi in Liguria, hanno da un po’ di tempo viste completamente ridimensionate le caratteristiche "negroidi" inizialmente attribuite (probabilmente anche in malafede, proprio per meglio inquadrarli in una presupposta visuale evolutiva).

In Africa, i ritrovamenti di Boskop sono anch’essi relativamente recenti (circa 20.000 anni) ma le caratteristiche negroidi rilevate non trovano consenso unanime, dal momento che viene piuttosto ipotizzata una componente khoisanide (ovvero sudafricana, di cui gli attuali Boscimani ed Ottentotti che non rientrano nello standard negroide classico; ne accenneremo più avanti), mentre invece sembra più chiara un’affinità con elementi europoidi del tipo Cro-Magnon, il quale appare quindi più un suo contemporaneo che un suo discendente.

Sempre in Africa, l’Uomo di Asselar presenta caratteristiche negroidi probabilmente più pronunciate, ma anch’esso denota una certa affinità con i reperti Cro-Magnon e forse pure con le attuali razze khoisanidi sud-africane; risale comunque a tempi ancora meno antichi di Boskop, probabilmente al paleolitico recente se non addirittura al neolitico. Il reperto di Asselar è stato rinvenuto in corrispondenza del margine meridionale del Sahara che in quel periodo, ormai piuttosto vicino ai tempi storici, era abitato da popolazioni già ben diversificate, come protoberberi mediterranei, etiopi di tipo africano orientale, boscimani, negrilli ascendenti degli attuali pigmei; è in effetti probabile che solo in questo momento si sia verificata la mutazione che ha prodotto l’attuale tipo negroide che rappresenta il nucleo base dei tre odierni raggruppamenti Bantu, africani occidentali e Nilo-sahariani.

In definitiva, è generalmente riconosciuto (Kurten, Canella, Biasutti, Bertaux) che vi è una forte carenza di resti sufficientemente antichi riconducibili ad individui antropologicamente negroidi; ed anche se la cosa potrebbe, al limite, essere spiegabile con una certa difficoltà di conservazione dei fossili nelle foreste pluviali dell’Africa occidentale, vi sono in ogni caso molti antropologi che persistono nell’idea che la razza nera rappresenti una variante umana relativamente recente (Bernatzik, Biasutti, Brian, Coon; per Weinert sarebbe addirittura più giovane delle popolazioni oceanico-melanesiane). Oltre ad essere particolarmente recente, il ramo negroide inoltre non denoterebbe caratteri di “primitività”, ovvero di vicinanza ad un tipo umano ancora indifferenziato ed originario, ma al contrario, in rapporto alle caratteristiche antropometriche medie dell’umanità, presenta valori molto specializzati e differenziati (per Biasutti, analogamente a biondi europei e mongolici) e ciò, a nostro avviso, è piuttosto significativo in merito a quanto invece sarebbe lecito attendersi secondo la teoria “Out of Africa”; la differenziazione della razza nera, inoltre, si evidenzia anche attraverso una marcata varietà tipologica interna, probabile risultante, come in nessun’altra razza umana, di innumerevoli incroci con popolazioni allogene, tant’è che risulta piuttosto difficile stabilire oggi dove si trovi il puro tipo negroide di base.

Le evidenze di cui sopra introducono a nostro avviso un aspetto che capovolgono completamente l’assunto afrocentrico iniziale: l’Africa cioè non sarebbe stata la terra dalla quale partirono le migrazioni più antiche del mondo ma, all’opposto, un’area di forte immigrazione, dove nel corso del tempo sarebbero confluite le più disparate varietà umane. Un “melting pot” ante litteram, insomma.

A conferma di questa ipotesi vi sarebbero, nel folklore di diverse popolazioni sub-sahariane, svariati accenni ad antichi antenati giunti dalla direzione di nord-est; qualche antropologo ritiene infatti che il ceppo originario delle popolazioni nere si sarebbe formato in aree iraniche ed indiane, migrando poi sia verso ovest, in Africa, sia verso verso est, in Insulindia ed Oceania. Secondo una linea simile sembra muoversi il già incontrato glottologo Alfredo Trombetti, per il quale i progenitori dei negroidi africani (si riferisce sopratutto ai Bantu, ma non solo) sarebbero anticamente giunti dalle regioni dell’India orientale abitate dai Munda, oggi ancora ivi presenti, e da alcune popolazioni australoidi (poi migrate in direzione sud-est) sulla base di alcune influenze linguistiche che ritenne di aver individuato.

Più recentemente, Steve Olson segnala da persistenza di innegabili contatti tra l’Africa e l’Asia sud-orientale, prendendo ad esempio tutte quelle popolazioni (pigmei semang, andamanesi, indiani meridionali di pelle nera) che dall’aspetto sembrerebbero più africani che asiatici, ed in particolare ipotizzando anche la concreta possibilità di riflussi migratori in direzione opposta – per lui l’Africa è comunque la culla primordiale –, cosa peraltro confermata, nello spazio tra i 60.000 ed i 40.000 anni fa, anche dal genetista Luigi Luca Cavalli Sforza. A nostro avviso è comunque utile ricordare come la prova archeologica di un’ipotetica via seguita dai presunti protoafricani verso l’Australia risulti ancora carente, mentre invece sembrerebbero meno incerte conclusioni opposte, se ad esempio analizziamo il particolare caso delle popolazioni khoisanidi sudafricane, già incontrate, per l’origine delle quali da più parti si è postulato un antichissimo meticciamento, forse in zona mediorientale e prima di emigrare in Africa, di gruppi non ancora specializzatisi in direzione chiaramente negroide con altri di tipo asiatico e simili all’attuale razza gialla. Quindi anche i boscimanoidi sudafricani riusulterebbo essere con ogni probabilità un gruppo allogeno e dalle caratteristiche piuttosto specifiche, tanto che l’antropologo Coon non li considerò neppure appartenenti al tipo negroide classico (da lui chiamato “Congoide”) ma una razza a parte, quella “Capoide”; per lo stesso Cavalli Sforza le caratteristiche khoisanidi sono tali da renderne problematica l’ipotesi di una discendenza diretta dai protoafricani iniziali, in quanto si discostano notevolmente dal tipo africano medio (caratteristica secondo lui condivisa anche dai Pigmei centrafricani, le cui specificità sono comunque tali che prevediamo di ritornarvi più approfonditamente in futuro).

Infine, per quanto riguarda le popolazioni etiopiche (anch’esse particolarmente interessanti e sulle quali svilupperemo più in là delle considerazioni di ordine generale che ora ci porterebbero troppo lontano), per il momento segnaliamo che, sempre a parere di Cavalli Sforza, potrebbero rappresentare il prodotto di un meticciamento molto più recente di quello che avrebbe prodotto i boscimanoidi; ma, secondo questa ipotesi, anche per loro diventa problematico considerarle dirette discendenti degli ipotetici protoafricani iniziali, che quindi…continuano a nostro avviso a rimanere senza validi eredi.

Dalle osservazioni di carattere antropologico abbiamo man mano iniziato ad approcciare l’argomento afrocentrico anche dal punto di vista genetico, che cercheremo di approfondire nei prossimi post.

 
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CRITICA DELLE TEORIE AFROCENTRICHE: ASPETTI GENETICI – PARTE 1

Post n°9 pubblicato il 29 Luglio 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Come dicevamo, la teoria “Out of Africa” sostiene che l’intero popolamento del pianeta da parte dell’uomo anatomicamente moderno sarebbe di iniziale provenienza africana e quindi ipotizza, come primo punto, una maggior antichità degli Homo Sapiens Sapiens ivi stanziati rispetto a quelli di tutto il resto del mondo; i gruppi rimasti in Africa avrebbero poi sviluppato delle varianti genetiche non riscontrabili al di fuori del continente, mentre quelli partiti – secondo la teoria, un ridotto sottoinsieme di tutti i protoafricani iniziali – avrebbero generato tutte le popolazioni extra-africane, che oggi risulterebbero tra loro relativamente più vicine per il fatto di essere discendenti di un nucleo di migranti che possedeva lo stesso pool genetico.

La teoria in discussione prevede quindi che l’area africana possieda la maggior eterogeneità genetica interna del mondo e che tale elemento non sia spiegabile con ipotesi diverse da quella di essere stata un iniziale punto di origine. Ma, intanto, l’assunto che la zona in questione sia il più probabile settore di partenza delle popolazioni mondiali dovrebbe almeno sottostare alla condizione di un continuo ed ininterrotto popolamento dal momento della prima comparsa di Homo Sapiens Sapiens, che secondo l’ipotesi “Out of Africa” sarebbe databile almeno 100.000 anni fa; possiamo però subito ricordare quanto già segnalato in precedenza, ovvero come il continente africano sembri aver evidenziato delle forti, e molto durature, discontinuità di occupazione nei tempi più antichi, probabilmente passando ad un ripopolamento massiccio in un momento più recente. E poi, la maggior diversità genetica interna delle popolazioni africane a livello di DNA mitocondrale (il codice genetico dei mitocondri, corpuscoli intracellulari che si trasmettono per via materna) non trova necessariamente risposta nella sola ipotesi di aver rappresentato un gruppo originario, perché la cosa potrebbe piuttosto dipendere dal fatto che il continente abbia visto, come dicevamo in tempi a nostro avviso relativamente più recenti, una maggior occupazione umana rispetto altre aree del pianeta: con un maggior numero di individui le diverse caratteristiche genetiche in sito erano più numerose rispetto ad altre parti del mondo e quindi, per un solo fatto statistico, linee che con il tempo altrove sono scomparse, in Africa invece non si sono perse.

Come dicevamo all’inizio, inoltre, la teoria “Out of Africa” vorrebbe che tutte le linee genetiche umane siano di provenienza africana e che non ve ne sia nessuna riscontrabile unicamente in altri continenti. Di recente però, sono emersi alcuni elementi che non sembrerebbero andare in questa direzione. Dall’analisi di un reperto australiano del Lago Mungo (inizialmente datato a 60.000 anni fa, ma successivamente ridimensionato a 42.000 anni) si sarebbe infatti evidenziata una sequenza di DNA mitocondriale più divergente di qualsiasi altra finora conosciuta, comprese le lineee africane; evidenze simili sono arrivate anche alcune popolazioni melanesiane, depositarie di un pool genetico particolarmente diversificato con peculiarità fra le maggiori del pianeta e molte varianti altrove ignote.  Inoltre, dall’analisi specifica su un gene coinvolto nel metabolismo dello zucchero, sono state scoperte due linee ritenute più antiche, riconducibili una ad un’africano e l’altra, cosa che ha destato scalpore, ad un’asiatico. La notizia ha, peraltro, rallegrato non poco il “multiregionalista” Milford Wolpoff, che si oppone alla teoria “Out of Africa” ma da un punto di vista diverso dal nostro, in quanto ipotizza una evoluzione plurima dei vari Homo Erectus, o simili, a suo tempo sparsi nel mondo in altrettanti Homo Sapiens locali, negando quindi una sostituzione integrale delle varie popolazioni arcaiche dei vari continenti da parte degli ipotetici immigrati sapiens africani (l’ipotesi multiregionale di Wolpoff è quindi pluri-evoluzionista e di conseguenza, partendo invece noi da un approccio opposto ed involutivo, ai nostri fini non è di particolare interesse).

Un altro degli assunti della teoria “Out of Africa” potrebbe, inoltre, trovare un’interpretazione diversa da quella della provenienza africana: quello che pone in rilievo la separazione genetica tra popolazioni africane e del resto del mondo spiegandola con l’ipotesi che, come dicevamo all’inizio, essendo quest’ultime originate tutte da un presunto gruppo iniziale di migranti aventi lo stesso pool genetico, oggi le popolazioni extra africane risulterebbero – appunto per questo motivo – relativamente più vicine tra loro.

In merito a questo punto possiamo seguire le considerazioni di Luigi Luca Cavalli Sforza, genetista tra i maggiori esperti mondiali del settore, che nelle sue analisi utilizza frequentemente, come rappresentazione grafica, sia alberi filogenetici (con la storia delle varie fissioni dell’umanità) che le cosiddette “Componenti Principali” (un altro modo di rappresentare le varie grandezze che compongono la variabilità umana nonché la sua distribuzione geografica). In “Storia e geografia dei geni umani” Cavalli Sforza segnala comunque come la prima componente principale del mondo (ovvero quella che dovrebbe evidenziare, se non tutti, almeno i valori più evidenti nella distribuzione genetica su scala planetaria) non mostra così nettamente la presupposta separazione primaria tra popolazioni africane e non, tendendo piuttosto ad indicare, genericamente, un ipotetico spostamento di uomini anatomicamente moderni da occidente a oriente. L’autore comunque sottolinea come il quadro mostrato dalle CP sia sempre statico, mentre siamo noi con le nostra interpretazioni ad aggiungere il movimento migratorio in una direzione o nell’altra, e questo – elemento molto importante, sul quale avremo modo di tornare – avviene sulla base di informazioni esterne ai meri dati genetici.  Rispetto alla prima CP mondiale, una divisione più netta tra popolazioni africane ed extra africane viene invece mostrata dall’albero evolutivo di Cavalli Sforza, cosa che dovrebbe indicare che la differenza più importante all’interno del patrimonio genetico umano si trovi tra questi due insiemi, portando quindi alla conclusione che la separazione africani / resto del mondo sia stata la prima ad intervenire nella storia dell’umanità; ma è importante notare che, per come sono stati impostati i criteri di elaborazone dell’albero, tale conclusione è comunque soggetta ad un’ipotesi di partenza che per il momento risulta ancora da dimostrare, ovvero quella che il genoma di tutte le popolazioni mondiali si sia modificato ad uno stesso e costante tasso evolutivo (in pratica, il ritmo al quale si fissano nel DNA umano le varie mutazioni genetiche che poi vengono analizzate con i metodi statistici; sull’argomento torneremo in seguito); ma anche ammesso che sia accertata la prima dicotomia africani / resto del mondo delineata dall’albero filogenetico, molto opportunamente Cavalli Sforza comunque ci ricorda ancora, come già aveva fatto per l’interpretazione delle CP, che il “movimento” lo aggiungiamo sempre noi, perché l’albero non dice necessariamente se i primi uomini erano africani e si diffusero verso l’Asia, o… viceversa !

Ed, in ogni caso, è stato notato che anche se fosse certa ed effettivamente confermata la divisione umana in due grandi blocchi genetici, africano ed euro-asiatico, tale evidenza, comunque, non sarebbe ancora spiegabile solamente con l’ipotesi di un’origine africana di Homo Sapiens Sapiens, ma ad esempio anche con quella di un maggior flusso genico (mescolamento) avvenuto nel corso del tempo tra europei ed asiatici rispetto invece a quello intercorso tra africani e tutte le altre popolazioni mondiali (cosa peraltro non impossibile da immaginare, vista la continuità geografica eurasiatica ed il relativo isolamento dell’Africa).

Continueremo nei prossimi post ad analizzare gli aspetti genetici, partendo dai criteri utilizzati per la costruzione degli alberi evolutivi ed a vari elementi connessi, come ad esempio la questione attorno al tasso di mutazione delle popolazioni mondiali (il cosiddetto “orologio molecolare”).

 

 

 
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CRITICA DELLE TEORIE AFROCENTRICHE: ASPETTI GENETICI – PARTE 2

Post n°10 pubblicato il 29 Luglio 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Su quali basi, quindi, vengono creati gli alberi filogenetici ?

A nostro avviso, il vizio fondamentale sta nel fatto che i dati genetici da soli dicono relativamente poco e tutti gli alberi devono comunque sottostare ad elementi aprioristici ed esterni di partenza.

Ad esempio, nel caso della ricostruzione dell’albero mitocondriale, vengono deliberatamente posti a priori dei tipi considerati come ancestrali il che “crea” la radice (ovvero la prima, e più importante, ramificazione) e, ovviamente, le conseguenti conclusioni sull’origine africana. Con altri criteri di scelta, ad esempio se si ritiene opportuno dare maggior importanza alla popolazione con il DNA più simile alla media di tutte le popolazioni mondiali, potrebbe invece essere l’Asia la culla umana più probabile; l’Africa si fa preferire qualora si ipotizzi un tasso costante di mutazione dell’mtDNA (il DNA mitocondriale) in tutte le popolazioni mondiali (criterio discutibile, come vedremo più avanti) e tarando questo “orologio molecolare” attraverso il confronto delle mutazioni dell’mtDNA umano con quelle degli scimpanzè (idem). In pratica, gli alberi che con i soli dati genetici riescono a strutturarsi con la radice di partenza, devono però rispettare delle ancora indimostrate ipotesi iniziali; ad esempio, quando si postula una velocità evolutiva costante per tutti, si programmano fin dall’inizio i vari rami dell’albero, corrispondenti alle popolazioni attuali, ad avere tra loro la stessa lunghezza dal punto di origine alla linea odierna, introducendo così un elemento di decisiva importanza per l’architettura finale del disegno.  

In effetti, come è ben stato riconosciuto, gli unici metodi in definitiva davvero soddisfacenti per posizionare una radice sono di natura esterna rispetto ai dati genetici. E così avviene per gli alberi costruiti con metodi di altro tipo, cioè quelli senza radice, che non hanno la limitazione di una presupposta velocità evolutiva costante per tutte le popolazioni rilevate, ma scontano però l’inconveniente che il loro significato sia evolutivamente meno sicuro, perché chiaramente privi di indicazioni riguardo all’origine iniziale di tutta la struttura. Comunque anche questa tipologia di alberi evolutivi riceve, sotto altra forma, una condizione logica impostata a priori, che spesso è quello di “evoluzione minima”, ipotesi secondo la quale le popolazioni rilevate abbiano fatto, in termini di mutazioni genetiche, il minor percorso possibile dall’origine all’oggi; è l’applicazione pratica del cosiddetto “Rasoio di Occam” principio metodologico che, in sintesi, suggerisce di percorrere, nel tentativo di spiegare un fenomeno in termini razionali, la via più semplice e soggetta al minor numero di fattori. E’ peraltro significativo il fatto che anche Renè Guenon vi accenni nel libro “Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi”, notando che la formulazone del “Rasoio di Occam” appartiene al momento decadente della Scolastica e rappresenta un postulato del tutto gratuito, anche perchè spesso la natura sembra veramente ingegnarsi a moltiplicare gli eventi senza necessità alcuna…

Tornando ai nostri alberi senza la radice, è chiaro che questa debba quindi essere, necessariamente, collocata sulla base di dati esterni di tipo diverso da quello genetico; e siccome gli elementi esterni sono in genere quelli di natura archeologica e paleoantropologica – dei quali abbiamo già avuto modo di analizzare la consistenza – ne consegue che, a nostro avviso, si finisce inevitabilmente con l’introdurre nel disegno totale, per i soliti apriorismi “afrocentrici”, elementi ben poco sicuri. Si arriva quindi ad un vero e proprio “ragionamento circolare”, nel quale varie incertezze si appoggiano e dimostrano a vicenda, tutte però senza una vera solidità intrinseca.

Ricordiamoci quindi, come spesso ed opportunamente è stato sottolineato, che alberi e mappe genetiche fotografano sempre e solo una situazione “statica” e, al limite, possono suggerire dei rapporti di vicinanza più o meno stretti tra gruppi umani diversi, ma non possono mai indicare dinamiche e movimenti migratori: questi li aggiungiamo sempre noi, sulla base di elementi di altro tipo.  Inoltre, la raffigurazione offerta è anche lacunosa in termini storici, dal momento che un ulteriore grosso problema di carattere generale è costituito dal fatto che questi alberi rappresentano la storia delle “fissioni” avvenute nella specie umana, mentre all’opposto non viene tenuto conto delle possibili mescolanze tra popolazioni diverse, che rappresenterebbero delle interconnessioni tra i rami e costituiscono un evento sicuramente non trascurabile nel percorso umano.

In definitiva, anche per Cavalli Sforza gli alberi non sono infallibili, dal momento che metodi diversi possono produrre alberi diversi e che quando l’elaborazione ne  proporrebbe di molteplici, si deve comunque selezionare a priori quello che si adatta in modo ragionevole ai soliti ed immancabili dati esterni. Ad esempio il lavoro, pionieristico, di Alan Wilson dell’università di Berkeley sul DNA mitocondriale, ha portato più di vent’anni fa alla costruzione di un primo importante albero genealogico umano ed alla definizione della cosiddetta “Eva mitocondriale” (sulla quale torneremo nel prossimo post); ma questa struttura, non va dimenticato, è stata scelta fra un’infinità di altre possibili, e secondo lo stesso Cavalli Sforza si sarebbe potuta delineare anche con una radice collocata fuori dall’Africa.

 
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CRITICA DELLE TEORIE AFROCENTRICHE: ASPETTI GENETICI – PARTE 3

Post n°11 pubblicato il 30 Luglio 2012 da MICHELEALESSANDRO
 

Se poi, oltre al discorso della struttura generale degli alberi evolutivi, si affronta il tema della loro "taratura" temporale e la definizione del ritmo di quello che è stato definito l’  “orologio molecolare”, i problemi non sembrano minori.

Cavalli Sforza ci ricorda che la stima della data nella quale si sarebbe verificata una certa mutazione è necessariamente un elemento ipotetico; ciò è conseguenza del fatto, come abbiamo visto per una certa tipologia di alberi filogenetici, che per tutte le popolazioni viene a priori reputato costante il ritmo dell’orologio molecolare, ovvero la velocità alla quale, nel corso del tempo, le mutazioni si accumulano nel DNA umano. Ma questo assunto è ben lungi dall’essere dimostrato ed infatti da più parti sono stati espressi seri dubbi sulla reale profondità temporale da attribuire alla cosiddetta “Eva mitocondriale” (come dicevamo, individuata più di vent’anni fa con i lavori di Alan Wilson), ovvero l’ipotetica rappresentante del nostro genere dalla quale sarebbero partite tutte le linee mitocondriali attualmente presenti, con varie mutazioni, nel mondo. La difficoltà attuale di ancorare saldamente gli “orologi” biochimici ad eventi datati in modo sicuro ed indipendente permane tuttora; a tale proposito, è stato rilevato come, ad esempio, l’Eva mitocondriale potrebbe anche non corrispondere ad una rappresentante di Homo Sapiens Sapiens, ma ad una femmina di Homo Erectus (come sostengono Thorne e Wolpoff, in ottica “multiregionale”), specie che secondo i paleoantropologi sarebbe anch’essa uscita dall’Africa, ma in tempi ben precedenti rispetto alle ipotetiche migrazioni che la teoria “Out of Africa” ipotizza per gli uomini anatomicamente moderni. Vi sono infatti grosse incertezze sul punto nel quale collocare Eva: si parla in genere di 150-200.000 anni fa, ma altri ricercatori hanno proposto 400.000 anni, altri ancora fino a 1 milione di anni….

Più probabile sembrerebbe invece l’ipotesi di una velocità di mutazione non omogenea per tutte le popolazioni mondiali ed in tal caso potrebbe, a nostro avviso, essere anche  maggiormente intuitivo il concetto che alcune popolazioni odierne si siano geneticamente allontanate più di altre dal tronco ancestrale comune, o perché staccatesi prima, o perché sottoposte in ambito molecolare, per vari motivi, ad un ritmo evolutivo (o involutivo ?) più sostenuto.  

In effetti, recenti studi sembrano dimostrare che il tasso di evoluzione (ricordiamo sempre che usiamo il termine “evoluzione” non nel senso darwiniano, cioè di un continuo andamento ascendente, ma semplicemente quello di un percorso seguito) sembra già essere disomogeneo tra diversi raggruppamenti di organismi e ciò si evidenzia ad esempio nel fatto che, per molti phyla biologici, le date di apparizione iniziale desunte sulla base dei ritrovamenti paleontologici sembrerebbero essere molto diverse, posteriori anche di centinaia di milioni di anni da quelle in teoria ipotizzate per via molecolare. Se alcuni studi hanno quindi evidenziato che il tasso di mutazione del materiale genetico varia a seconda della specie considerata, ciò sembrerebbe esser stato verificato anche all’interno di una stessa specie in funzione dei vari geni analizzati; è chiaro che, con queste variabili in gioco, l’attendibilità dell’orologio molecolare viene seriamente messa in dubbio. E’ ad esempio rilevante la notizia (Le Scienze – giugno 2006) della scoperta di una generale velocità doppia di fissazione delle mutazioni genetiche alle latitudini tropicali rispetto a quelle medie; a nostro avviso non è quindi insensato considerare, a fianco della parallela osservazione di una minore biodiversità nelle zone polari rispetto a quella delle latitudini più basse, la possibilità che popolazioni migrate in prossimità delle zone equatoriali possano dare oggi l’erronea impressione di essere più antiche (perché con un genoma maggiormente mutato) rispetto magari ad altre, coeve ma rimaste a latitudini più elevate.  

Quindi, concludendo sull’orologio molecolare mtDNA, ricordiamo che la velocità stimata è stata estrapolata sulla base, secondo noi ipotetica ed evoluzionisticamente pre-orientata, della data di separazione tra uomo e scimpanzè (vi avevamo già rapidamente accennato) e poi ribadita da un altro elemento fortemente incerto, cioè quello del tempo di fissione dei nativi americani dalle popolazioni siberiane, valutato attorno a 12.000 anni fa (valore probabilmente troppo basso: torneremo sull’argomento quando affronteremo il tema, che si sta rivelando sempre più complesso, del popolamento del continente americano). Riteniamo, quindi, che anche la modalità di taratura dell’orologio molecolare abbia seguito logiche pregiudizialmente evoluzionistiche ed afrocentiche, dal momento che proprio l’Africa è stata scelta come area di riferimento per l’asserita ininterrotta serie di fossili che coprono gli ultimi 3 milioni di anni con forme “intermedie” dalla scimmia all’uomo, ma con la significativa ammissione, sottovoce, che un limite di questa impostazione può essere rappresentato dalla totale assenza di fossili umani in Africa occidentale...

 
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