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Un discorso di Weidmann

Post n°155 pubblicato il 27 Gennaio 2018 da single_sound
 

Lo scorso 18 gennaio il Governatore della Bundesbank, Weidmann, ha tenuto l'intervento di apertura della conferenza congiunta Fondo Monetario Internazionale-Bundesbank sulle attuali sfide economiche. Il discorso è reperibile, in lingua inglese (e quindi di maggiore immediatezza in termini di comprensibilità), al seguente link sul sito della Bundesbank: https://www.bundesbank.de/Redaktion/EN/Reden/2018/2018_01_18_weidmann.html

Il discorso di Weidmann, invero breve ma molto significativo, si articola nei seguenti paragrafi: 1. Introduzione; 2. Inflazione e salari in Germania; 3. Politica fiscale; 4. Surplus delle partite correnti in Germania; 5. Rafforzamento della resilienza dell’area euro; 6. Conclusioni.

Il discorso presenta diversi profili di interesse. Il punto centrale si trova al par. 4 sul surplus delle partite correnti in Germania.

Vediamo tuttavia preliminarmente un paio di aspetti affrontati da Weidmann prima del par. 4. Nel par. 2, in particolare, Weidmann riconosce, essendo ormai un dato acquisito, che la Germania, al pari di alcuni altri Paesi come gli Stati Uniti, si trova in una situazione di piena occupazione. Senonché, contrariamente a quanto la teoria economica fino a oggi ci ha raccontato, la piena occupazione non ha avuto effetti sui salari, che non sono cresciuti, e conseguentemente sull’inflazione. Perché accade ciò? Weidmann, che ha il merito di parlarne pubblicamente (come han fatto alcuni altri economisti, ad esempio Krugman), mentre le classi politiche, tra cui quella italiana, sembrano ignorare completamente il problema, ci offre un paio di interpretazioni (che ben possono essere cumulate): 1) i flussi migratori (anche se Weidmann, con riguardo alla Germania, si riferisce esclusivamente ai flussi intracomunitari) stanno determinando uno schiacciamento delle pressioni salariali, per cui la manodopera a buon mercato consente di stabilizzare l’occupazione verso il pieno impiego senza incrementi dei salari perché i migranti aiutano, senza rivendicare salari più alti, a tenere basso il costo del lavoro; 2) la contendibilità dei mercati del lavoro attraverso l’integrazione delle catene globale di valore. Che vuol dire quest’ultimo punto? Detta diversamente, quando i mercati si aprono alla libera circolazione di merci, capitali e anche lavoro, ecco che le catene della produzione si integrano ma i mercati del lavoro, restando segmentati, entrano in concorrenza tra loro. Ciò determina quindi la necessità che ogni mercato del lavoro resti competitivo, offrendo condizioni migliori, cioè salari più bassi, per gli investimenti. Nei paesi ad alto sviluppo, ciò sta determinando quindi una stagnazione salariale, pur in presenza di condizioni favorevoli per un aumento dei salari. È un effetto, all’evidenza, della globalizzazione.

Nel par. 3 sulla politica fiscale, Weidmann dice testualmente che i risultati di una politica fiscale espansiva, pur essendovi le condizioni per praticarla in Germania (che al momento è in pareggio di bilancio, il c.d. schwarze null) sarebbero deludenti. Secondo Weidmann, un aumento del deficit avrebbe uno scarso effetto sulle importazioni. Ricordiamo che la polemica di una parte dell’opposizione tedesca (in specie della Linke) e di molti economisti e forze politiche in Europa è che le politiche di austerità tedesche non aiutano l’export verso la Germania, rendendo insostenibile la tenuta dell’Unione Monetaria. Ora, e facciamo attenzione alle parole, Weidmann aggiunge che la spesa pubblica non comporterebbe un aumento delle importazioni (la frase in inglese è: As the import content of public expenditure is low). Tuttavia, è del tutto evidente che ci sono delle notevoli differenze tra aumento del deficit e aumento della spesa pubblica e tra diverse tipologie di aumento della spesa pubblica. Un diminuzione delle imposte può comportare un aumento del deficit, ma non è un aumento di spesa pubblica, tanto per fare un esempio.

Il problema che, piuttosto, è stato lamentato è il mancato rafforzamento del mercato interno tedesco, mediante un aumento di domanda di consumi privati prodotta da un incremento dei trasferimenti dal settore pubblico al settore privato. Un aumento di salari, pensioni e prestazioni sociali comporterebbe, infatti, un aumento del reddito disponibile dei privati e, di conseguenza, un aumento della domanda anche di beni importati.

Con ciò, comunque, Weidmann non nega che si possano effettuare investimenti pubblici. Egli dice infatti che si dovrebbero effettuare investimenti pubblici per migliorare la digitalizzazione del sistema, specie per contrastare l’invecchiamento della popolazione. Una simile proposta sembra una vera e propria contraddizione in termini, però, visto che le persone più anziane sono quelle che hanno le maggiori difficoltà in conseguenza della digitalizzazione del sistema.

Arrestiamoci qui con le premesse, già troppo lunghe, e andiamo al sodo della questione. Il punto, come si evince dal par. 4, è quello della gestione del surplus delle partite correnti tedesche. Weidmann è netto e chiaro e ci dice a cosa sono serviti i surplus delle partite correnti tedesche e, al contempo, le politiche di austerità tedesche. Queste politiche sono servite a gestire l’invecchiamento della popolazione tedesca. Qui sta il punto, che non è sconosciuto, bastando a questo riguardo leggersi qualche report del Fondo Monetario Internazionale. Weidmann aggiunge due punti nodali che nei prossimi tempi converrà tenere a mente. Il primo è che la Germania comincerà ad avvertire gli effetti dell’invecchiamento nella prossima decade. In quella fase in Germania vi sarà un lavoratore per un pensionato, mentre oggi la proporzione è due lavoratori per un pensionato. Il che produrrà un rallentamento economico già a partire dal 2020 (cioè fra soli due anni). Il secondo è, evidentemente, che a quel punto la Germania dovrà utilizzare i crediti derivanti dal surplus delle partite correnti accumulato in questi anni. Weidmann, in specifico, usa questa espressione: “Foreign assets accumulated will enable the German economy to participate in the potentially more dynamic growth elsewhere”.

La frase, di per sé, non brilla per chiarezza. Proviamo a interpretarla. Attraverso una politica di surplus la Germania, disponendo di liquidità, potrebbe aver comprato una serie di imprese all’estero. Questo non è affatto inverosimile. Sfruttando questa presenza e i ricavi ottenuti in quei paesi, le imprese potrebbero ritrasferire in Germania quanto guadagnato così da sopperire alla bassa crescita  se non fosse che ciò dovrebbe esser avvenuto in quei paesi nei cui confronti la bilancia commerciale tedesca è in surplus, tra cui alcuni paesi dell’area euro che, essendo debitori della Germania, non si trovano proprio nelle migliori condizioni per ipotizzare slanci di crescita. Un’altra ipotesi è che l’acquisto di asset all’estero possa avvenire dopo il 2020. Più passa il tempo e più, in assenza di valute diverse, gli asset stranieri di paesi UE potrebbero deprezzarsi. Anche qui tuttavia non sembra tenere il ragionamento, giacché paesi come l’Italia o ancora la Grecia, per fare un esempio, non sembrano avere prospettive di crescita molto brillanti.

L’ultima ipotesi è che la Germania invece punti a esigere i crediti accumulati per disporre della liquidità necessaria a iniziare lo shopping nei paesi realmente più remunerativi. In una simile ipotesi, è però evidente che salterebbe definitivamente l’area euro. La riscossione dei crediti, infatti, non sarebbe altro che un’operazione di contrazione della base monetaria che manderebbe in crisi i Paesi debitori, mandando nuovamente in recessione le loro economie.

Non è da escludere, peraltro, che questa sia la politica della Germania per i prossimi anni. In altre parole, si può tranquillamente ipotizzare che sia la Germania stessa a pilotare la crisi della moneta unica, essendo ormai giunta alla conclusione che essa è diventata insostenibile per tutti.

Su quali premesse si può ipotizzare che questa sia la politica tedesca dei prossimi anni? A questo riguardo, basterà leggere un recente studio reperibile al seguente link sul sito FMI: http://www.imf.org/en/Publications/WP/Issues/2018/01/23/Economic-Convergence-in-the-Euro-Area-Coming-Together-or-Drifting-Apart-45575

Lo studio si concentra sui processi di divergenza e convergenza all'interno dell'unione monetaria verificatisi nel corso della sua esistenza (con un occhio anche ai processi antecedenti all'introduzione della moneta unica). Secondo questo studio, dopo l'introduzione dell'euro, non solo i processi di convergenza si sono fermati ma si può parlare finanche di ripresa di processi di divergenza nella zona euro. Vediamo in pillole le conclusioni dello studio: 1) l'allineamento dei tassi di inflazione antecedente all'introduzione dell'euro si è fermato e sono rimasti persistenti differenziali di inflazione tra i paesi aderenti all'euro; 2) i tassi di interesse reali, convergenti prima dell'introduzione dell'euro, sono tornati a divergere dopo la crisi; 3) le convergenze di reddito tra i 12 paesi che avevano inizialmente adottato l'euro si sono fermate (al contrario dei paesi entrati dopo i cui redditi hanno continuato a convergere); 4) i cicli economici si sono sincronizzati, ma sono aumentate le ampiezze di ciclo (vale a dire, Italia e Germania possono avere lo stesso ciclo ma le differenze di andamento saranno vistose; in caso di recessione, per esempio, l'Italia potrebbe cadere del 4% e la Germania dell'1%), con ciò che ne segue in termini di difficoltà di dosaggio della politica monetaria (un conto è infatti immaginare una politica monetaria per un paese in recessione al -4% e tutt'altro conto è immaginarla per un paese in recessione al -1%; né aiuta ragionare in termini di medie, perché una politica monetaria che fosse immaginata per una zona in recessione al -2% non andrebbe bene né per l'Italia, perché non basterebbe, né per la Germania, perché sarebbe comunque eccessiva); 5) i cicli finanziari si sono sincronizzati, con la significativa eccezione della Germania il cui ciclo finanziario (intendendosi con ciò, ad esempio, l'andamento dei prestiti bancari al settore privato) è ormai disconnesso dai cicli dei restanti paesi dell'euro; 6) la mobilità dei capitali ha avuto effetti destabilizzanti, perché è andata a gonfiare investimenti a bassa reddittività e quando poi le bolle sono scoppiate si sono inasprite ancor di più le differenze di reddito tra i paesi dell'eurozona; 7) la produttività tra i paesi dell'eurozona si è divaricata è i paesi a più bassa produttività hanno maggiormente sofferto degli effetti dell'introduzione della moneta unica (è peggiorata la qualità dell'allocazione delle risorse e dopo la crisi sono calati gli investimenti e l'occupazione).

Se queste sono le conclusioni, ovverosia un processo di divaricazione strutturuale aggravato da una completa desincronizzazione finanziaria della Germania rispetto agli altri paesi europei, non si può che immaginare che la Germania punti a pilotare uno sganciamento che mandi sì in recessione gli altri paesi europei, offrendogli però a titolo di compensazione una flessibilità del cambio che dovrebbe consentirgli di uscire dalla recessione prima e senza aggiustamenti strutturali troppo dolorosi. In questo modo, peraltro, la Germania dovrebbe assicurarsi di mantenere la sua posizione di primazia in Europa.

Non è difficile poi immaginare che questa idea circoli tra le classi dirigenti tedesche, che certamente conoscono gli esiti delle ricerche economiche di questi anni, sintetizzate dallo studio citato. Del resto, i politici tedeschi non passano la loro vita solo al megafono, ma si ritagliano ogni tanto anche qualche minuto di tempo per capire la realtà leggendo.

Quanto all'Italia, non ci sono molte illusioni da farsi. La nostra passività è tale (né si può immaginare che si sblocchi dopo questo ciclo elettorale, iniziato sotto i peggiori auspici) che tutt'al più possiamo preparaci ad accettare quanto verrà deciso, anche per noi, a Berlino.

 

 

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